Politik | Il commento

L’otto marzo non è un pranzo di gala

La strumentalizzazione delle questioni di genere a servizio di razzismo e mercato. Perché è importante decolonizzare il femminismo dalla sua narrazione bianca e classista
White Feminism
Foto: Chacruna

Come donna bianca, etero, cisgender e abile non posso fare a meno di interrogarmi oggi, otto marzo, su un tipo di narrazione portata avanti da chi, come me, condivide un buon bagaglio di privilegi, tra cui l’essere nata nei pressi di quella che viene definita la parte giusta del mondo. Non riesco a non guardare con sospetto un certo femminismo, diretta espressione di una classe che gode di un maggiore accesso alle risorse e conseguentemente delle più ampie coperture mediatiche, che persevera nella sua pretesa di omogeneizzazione del soggetto e delle istanze delle donne.
Una narrazione bianca e borghese delle rivendicazioni femministe implica automaticamente che una forma di white suprematism corredata di cappuccio rosa escluda e opprima numerose altre categorie, che oltre a non potersi avvalere del privilegio maschile, devono fare i conti con la propria condizione di soggettività non bianche, trans, queer, disabili o precarie. La coabitazione dei diversi assi di oppressione, comporta conseguentemente una sperimentazione di violenza e discriminazione che difficilmente le donne bianche, etero, occidentali e benestentanti potranno mai subire.
Come ci ricorda Silvia Federici, la violenza sulle donne è uno degli elementi chiave che ha concorso all’organizzazione dei movimenti femministi, ispirando  l’istituzione del primo Tribunale Internazionale per i Crimini Contro le Donne, tenutosi a Bruxelles nel 1976. Duemila donne provenienti da quaranta paesi hanno portato la propria testimonianza in molti casi di maternità forzata, sterilizzazione, stupro e brutali violenze in seguito all’internamento in ospedali psichiatrici o prigioni. In seguito, le iniziative femministe e le leggi statali si sono moltiplicate, eppure, anziché diminuire, l’escalation di violenza contro le donne non ha dato alcun segnale di arresto, aumentando vertiginosamente in tutto il mondo.

 

Questione di classe: capitalismo e violenza contro le donne


Secondo Federici, “la nuova violenza contro le donne è radicata nelle tendenze strutturali da sempre costitutive dello sviluppo capitalistico e del potere statale”. Come sottolineato in Calibano e la strega, l’inaugurazione dell’era capitalistica è stata preceduta tra il XVI e il XVII secolo da un’enorme caccia alle streghe che ha interessato l’Europa e il Nuovo Continente, un fenomeno tanto inedito dal punto di vista storico tanto centrale in quello che Marx definisce il processo di accumulazione originaria che è reso possibile dall'espropriazione e dalla distruzione dei rapporti di solidarietà e potere che stanno alla base delle vite comunitarie. Perseguitare le donne in quanto “streghe” era funzionale a distruggere gli ostacoli al neonato progetto capitalista, reso possibile soprattutto grazie al loro confinamento nel lavoro domestico non retribuito, legittimandone e amplificandone la subordinazione agli uomini. Lo Stato, al contempo, ne controllava la capacità riproduttiva, garantendo nuove generazioni di lavoratori e cristallizzando un ordine patriarcale che perdura tutt’oggi, nonostante i continui adattamenti messi in atto per rispondere alla resistenza delle donne e alle nuove richieste del mercato del lavoro. Il capitalismo infatti è un’anima creativa, fluida e mutevole, capace di riadattarsi velocemente alle nuove sfide che il mondo in movimento gli pone davanti, sfruttando anche i benefici di una comunicazione rassicurante e d’impatto, senza però mai minarne le fondamenta.
Un femminismo annacquato, come abbiamo visto imporsi negli ultimi anni, è funzionale per esempio nel portare avanti un messaggio di stampo neoliberista, tipicamente a stelle e strisce, quale l’emancipazione della donna che passa attraverso la sua scalata imprenditoriale e grazie alla sua epopea individuale. Questo però non va a intaccare per esempio la ripartizione del lavoro domestico e di cura (che ricade nuovamente su loro stesse oppure finisce per essere esternalizzato sulle spalle di donne migranti frequentemente sottopagate), né tantomeno va a risollevare le sorti delle soggettività meno privilegiate, andandone anzi spesso a discapito.

 

D’altro canto, anche le aziende hanno imparato ad utilizzare alcune parole d’ordine sul femminismo, sfruttando a pieno il potere attrattivo degli slogan, a fini commerciali. Il cosiddetto pinkwashing diventa dunque un’occasione ghiotta per ripulire le immagini di imprese e classi dirigenti, canalizzando l’attenzione di cittadini e consumatori sull’estetica anziché sulle politiche dubbie e tutt’altro che sostenibili portate avanti al contempo.


Il razzismo nel nome delle donne e il mito dello stupratore nero

 

A livello mondiale, la nuova escalation di violenza contro le donne, soprattutto indigene e afro discendenti, è collegata con un filo rosso alla globalizzazione che ci ha investito negli ultimi decenni. La globalizzazione, nell’analisi di Federici, viene intesa come un processo di ricolonizzazione politica finalizzata a fornire al Capitale un controllo assoluto sulle ricchezze naturali e sulla manodopera umana, scopo che non può essere ottenuto senza attaccare le donne, responsabili della riproduzione delle proprie comunità. Non è un caso che il ritorno alla caccia alle streghe del terzo millennio e l’intensificazione e la brutalizzazione delle violenze di genere si verifichino in particolare nell’Africa Subsahariana, America Latina e Sud-Est asiatico, territori sempre più bersaglio dell’espropriazione delle terre contadine in favore delle imprese, assieme ad altri processi estrattivisti e di saccheggio delle risorse.
Allo stesso tempo, nei paesi occidentali si è instaurata un’alleanza inedita tra nazionalisti, neoliberisti e femmocrate, neologismo utilizzato da Sara Farris composto da “femministe” e burocrate”, che hanno collaborato nello scolpire l’immagine del nuovo nemico pubblico, plasmato sui tratti dell’uomo immigrato, musulmano fondamentalista e maschilista. Farris, all’interno di Femonazionalismo ha indagato l’utilizzo contemporaneo dell’uguaglianza di genere come strumento al servizio dei discorsi nazionalisti e razzisti, analizzando in particolare le politiche messe in atto negli ultimi anni in Francia, Italia e Paesi Bassi. La denuncia che ne è scaturita, dopo aver messo sotto la lente di ingrandimento i programmi di promozione dell’uguaglianza di genere e dell’emancipazione femminile, vede le donne migranti, soprattutto musulmane, utilizzate strumentalmente per alimentare discorsi xenofobi (in quanto vittime arretrate della misoginia del maschio musulmano) e interpellandole in primis in qualità di donne da “rieducare”, ma segregandole al contempo all’interno della sfera del lavoro domestico e di cura, gli stessi campi rifiutati dalle femministe occidentali.
Il ruolo del femminismo bianco e borghese come ulteriore motore nel processo di cristallizzazione dei rapporti di razza e di classe è stato ampiamente analizzato anche e soprattutto dalla teorica e attivista afroamericana Angela Davis.

Razzismo e sessismo frequentemente convergono e la condizione delle donne lavoratrici bianche è spesso legata allo status oppressivo delle donne di colore (Angela Davis)


Analizzando il razzismo insito nei movimenti suffragisti prima e abortisti poi, Davis ha sottolineato il divario tra le esperienze vissute dalle donne nere negli Stati Uniti rispetto alle donne bianche, con conseguenze dirette sull’organizzazione dei movimenti politici e di rivendicazione. Riguardo il concetto di stupro, Angela Davis ha messo in luce come la legislazione fosse funzionale a proteggere gli uomini delle classi più agiate dal rischio di aggressioni delle proprie figlie o mogli, mentre le violenze subite da donne, sia bianche che nere, appartenenti alla working class, passavano in sordina, e raramente maschi bianchi hanno subito conseguenze legali per i numerosi stupri commessi. Basti pensare che dei 455 uomini giustiziati (colpevoli o innocenti che fossero) per violenza sessuale tra il 1930 e il 1967, 405 erano neri. Il mito dello stupratore nero nasce, secondo la studiosa, come un appoggio necessario per giustificare le violenze perpetrate nei confronti delle comunità nere.

Gerda Lerner, all’interno di Black Women in White America, afferma invece che “il mito dello stupratore Nero che aggredisce le donne bianche va a braccetto con il mito della cattiva donna Nera, entrambi finalizzati a giustificare lo sfruttamento di Neri e Nere. Le donne Nere hanno compreso presto questa connessione e si sono schierate in prima linea nella lotta contro il linciaggio”.

Gli studi di Angela Davis sono fondamentali per analizzare i limiti del femminismo borghese occidentalizzato, incapace di prendere davvero in considerazione le classi subalterne. Il saggio Donne, razza e classe invita in particolare a rifiutare l’idea di un soggetto “donna” univoco, in quanto ogni tentativo di liberazione per essere universalista deve necessariamente tenere in considerazione la storia e la stratificazione delle esperienze e dei bisogni delle soggettività in gioco. Attualizzare questo saggio pubblicato nel 1981 può rappresentare una bussola fondamentale per orientarci in questa fase storica, caratterizzato da una presenza sempre più crescente di donne migranti e dalla normalizzazione del razzismo europeo.

 

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Maximi Richard Mo., 08.03.2021 - 23:49

Due battaglie epocali del femminismo, l’aborto e il divorzio, sono state combattute e vinte là dove era possibile e secondo me è giusto così. Se le femministe e chi le appoggiava avessero voluto vincere contemporaneamente in tutto il mondo, sarebbero ancora ai blocchi di partenza.

Mo., 08.03.2021 - 23:49 Permalink