Kultur | Salto Gespräch

"Il razzismo è una questione di genere"

Tra Bolzano e Berlino, dal piccolo Sudtirolo che celebra la sua autonomia all'Europa che si interroga sulla nuova immigrazione. Un colloquio con Francesca Melandri.
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Foto: Foto: Salto.bz

Avvertenza, in luogo di una premessa. Il Salto-Gespräch con Francesca Melandri incrocia giorni e occasioni diverse, emerge quindi da un colloquio che solo in forma concisa è precipitato nelle righe sottostanti, a condensare una storia molto più lunga. Chi scrive ha conosciuto la scrittrice otto anni fa, quando fu pubblicato il suo primo romanzo Eva dorme (Mondadori). Se dunque lo spunto dell'intervista è stato dato dal conferimento del Grand'ordine di Merito della Provincia autonoma di Bolzano, avvenuto il 5 settembre scorso a Castel Tirolo, qui si vorrebbe cogliere il senso di un percorso complessivo, alla vigilia del tour europeo [vedi il box alla fine dell'articolo] con al centro il suo nuovo romanzo, Sangue giusto (Rizzoli), che è già un successo internazionale. Il “tu” con il quale ci siamo rivolti l'uno all'altra non rappresenta uno scarto esibizionistico rispetto alla norma che vorrebbe l'uso formale della terza persona, è solo la cifra più sincera della nostra frequentazione.

Salto.bz: Come hai saputo che avresti ricevuto il massimo riconoscimento della Provincia? Hai mica per caso pensato anche di non accettare?

Francesca Melandri: L’ho saputo dal presidente Arno Kompatscher che mi ha chiamato alla fine di giugno. In realtà la mia reazione è stata proprio quella di chiedergli 24 ore di tempo per riflettere se accettarla o no. Ho spiegato le motivazioni per questa necessità di rifletterci con un post sulla mia pagina FB. Come scrivo dettagliatamente lì, le tre condizioni imprescindibili per l'accettazione erano: che l’onorificenza non prevedesse premi in denaro, che non venisse da una specifica parte politica, che non avesse alcun sotto-testo, implicito o esplicito, di nazionalismo, settarismo o chiusura identitaria. Dato che mi sembravano condizioni rispettate, ho deciso con convinzione di andare.

La gratitudine, espressa in modo così esplicito e pubblico, non è una cosa di tutti i giorni

Non solo con convinzione, direi. Anche con gioia. Che sensazioni hai avuto durante la cerimonia del conferimento? Mentre ascoltavi le parole della laudatio che Hans Karl Peterlini ha scritto per te sembravi davvero toccata. Adesso quale significato ha per te un riconoscimento del genere?     

Sì, durante la cerimonia, ascoltando la laudatio scritta da Hans Karl, mi sono commossa. Deve essere stato molto visibile visto che su un sito della Provincia è stata pubblicata una mia foto con la didascalia “la commozione di Melandri”. Il fatto è che la gratitudine, espressa in modo così esplicito e pubblico, non è una cosa di tutti i giorni. Che mi arrivi da una terra a cui sono così legata è una cosa davvero speciale.

Eva Dorme non è solo un bestseller, ma anche un longseller che ha sicuramente contribuito a focalizzare l'attenzione sul Sudtirolo da parte di molte persone che lo conoscevano poco, magari pur vivendoci. Sempre riferendoci alla laudatio di Peterlini, è vero che con Eva dorme “Francesca Melandri ha aperto gli occhi a molte persone, ha incoraggiato a confrontarsi con il proprio passato e con il proprio presente”. Tu però non hai mai voluto diventare una cosiddetta “esperta a gettone” di questa terra, la tua partecipazione al dibattito storico o politico locale è sempre stata molto parsimoniosa. Perché questa parsimonia, che potrebbe essere scambiata per ritrosia?

Permettimi prima di svolgere una considerazione generale. Il sistema mediatico italiano ha subito negli ultimi decenni una grave involuzione che l’ha portato a privilegiare in modo sproporzionato le opinioni, dando sempre meno spazio invece a quella che dovrebbe essere la sua funzione primaria, ovvero fornire informazioni. Non voglio qui aprire una discussione su come anche riferendo i fatti ovviamente non si possa non esprimere un punto di vista; diciamo però che esiste un gradiente tra esprimere una pura opinione personale basata su sensazioni soggettive e affermare un fatto oggettivo tipo, che so, “in questo momento mi trovo a Roma”. I media italiani sono scivolati pericolosamente su questo piano inclinato, fornendo sempre meno informazioni e sempre più opinioni ridondanti e ubique, nonché spesso anche molto campate in aria e non portatrici di alcuna vera expertise. Non credo sia esagerato affermare che questa deriva dell’informazione, questo sempre maggiore distacco dai dati di realtà a favore delle opinioni non supportate da dati, sia uno dei principali motivi della grave crisi democratica che sta attraversando l’Italia.

Una provincia benestante come questa dovrebbe avere il più alto numero di SPRAR del Paese, dovrebbe essere un modello non solo italiano ma, mi viene da dire, europeo, di accoglienza e integrazione

Quindi meglio sottrarsi, sfuggire l'apparire?

Diciamo che per questo motivo ho scelto di non contribuire anche io alla cacofonia assordante di opinioni superficiali e incompetenti. Preferisco contribuire al dibattito pubblico soprattutto attraverso quello che è il mio vero mestiere, ovvero scrivere letteratura. È un mezzo che certo non ha la velocità o l’immediatezza di quotidiani o TG, ma che nel suo ritmo molto più lento offre invece – o almeno lo spero – una riflessione di maggiore profondità e durata. Quando io scrivo articoli, o intervengo su temi specifici sui media, lo faccio quindi solo se sono sicura di avere almeno un certo grado di competenza e di elaborazione personale su quello specifico tema. Di avere insomma qualcosa da dire. Altrimenti, perché occupare lo spazio non solo mediatico ma soprattutto cognitivo altrui? Per tornare alla tua domanda sull’Alto Adige, non ci vivo più da dodici anni e so quindi di non avere più il polso delle sue vicende politiche interne, come quando vi risiedevo e votavo. Allora preferisco tacere.

Provo ugualmente a stanare una tua riflessione, almeno da ex insider che però ha certamente seguito, per tratti salienti, quanto è accaduto negli ultimi anni. Alla fine dell'intervista che ti feci quando uscì Eva dorme dicesti: “Ecco, forse i Sudtirolesi, ora che sono una delle società più prospere del pianeta, possono permettersi di essere più generosi: tra di loro, e con il resto del mondo”. Hai poi riscontrato quei segni di accresciuta generosità che auspicavi?

Putroppo no. Una provincia benestante come questa dovrebbe avere il più alto numero di SPRAR del Paese, dovrebbe essere un modello non solo italiano ma, mi viene da dire, europeo, di accoglienza e integrazione; ne avrebbe non solo le risorse materiali ma anche – in teoria – quelle storiche, poiché è una terra per sua natura mutliculturale, e quindi dovrebbe essere all’avanguardia. Invece non è così. Troppi sindaci altoatesini, almeno inizialmente, si sono rifiutati di partecipare al programma SPRAR e nella popolazione serpeggia la xenofobia. Troppi altoatesini/sudtirolesi hanno sposato acriticamente la propaganda che vede i migranti come una ‘invasione’, mentre tutte le statistiche dicono il contrario. E i migranti vengono trattati solo come oggetti dalla politica e dai media, non come soggetti: si parla di loro ma solo raramente con loro. Tutto questo non è un fenomeno solo altoatesino, ovviamente.

Lasciamo Eva dorme e rivolgiamoci al tuo nuovo romanzo. Sangue giusto è uscito esattamente un anno fa e paradossalmente (ma si tratta di un vero paradosso, o di un particolare segno dei tempi?) sembra che stia ricevendo più attenzione all'estero, segnatamente nei paesi di lingua tedesca, che in Italia. Come ti spieghi questo fatto?

Non è da adesso che mi succede, e non solo in Germania o Olanda. Nonostante i tanti premi vinti in Italia dai miei libri, come autrice sono molto più conosciuta e, mi verrebbe da dire, rispettata, per esempio, in Francia. A Gennaio il MUCEM, il Museo delle culture del Mediterraneo di Marsiglia, mi ha dedicato una retrospettiva di due giorni che dire lusinghiera è poco - sei eventi, centinaia di spettatori - dedicata unicamente al mio lavoro; intanto, in Italia, un festival letterario importante come Mantova non ha mai ritenuto il mio lavoro abbastanza interessante da invitarmi. Questa straniante differenza di considerazione a volte mi pare una specie di lezione zen, sulla relatività sia degli insuccessi che dei successi. Non fingo però che questa cosa un po’ non mi dispiaccia – sono italiana, scrivo vicende ambientate nel mio Paese, e per quanto sia grata ai tanti traduttori che portano i miei romanzi nel mondo (circa 15 paesi), la mia prima e naturale casa letteraria è la lingua italiana. Ma so anche che c’è una lunga tradizione di scrittori (e artisti, musicisti ecc) apprezzati di più, e soprattutto prima, all’estero che in Italia. Quindi direi che quello che sta succedendo a Sangue giusto in Nord Europa non è una cosa che nasce ora bensì un ulteriore capitolo di una lunga storia che peraltro non riguarda solo me. Certo, per quanto mi riguarda si tratta di un capitolo bellissimo e anche, sicuramente, un cambio di passo: nessun mio romanzo era finora mai stato per mesi nelle classifiche dei bestseller, come sta succedendo ad Alle, außer mir (il titolo tedesco di Sangue giusto).

Non pensi, però, che sia proprio il tema di questo romanzo (lo definirei politicamente “scabroso”) ad aver generato questa diversità di accoglienza tra l'Italia e l'estero?

Penso sia un misto di tanti fattori, e anche che sia prematuro trarre conclusioni – la vita di un libro, sopratutto del tipo di libro che scrivo io, è più lunga di un solo anno. Noto tuttavia negli ultimi mesi un risvegliarsi anche in Italia dell’interesse intorno a Sangue giusto. Sicuramente la candidatura al Premio Strega ha contribuito, ma anche la riproposizione sempre più intensa tra giornalisti e intellettuali (uno per tutti, Adriano Sofri nella sua recente recensione sul Foglio) della stessa domanda che mi stai facendo tu: come mai Sangue giusto è stato considerato dai media all’estero come un prodotto culturale importante ma non dai media del Paese di cui narra le rimozioni storiche? Più ci penso più mi pare che i veri motivi per questa diversità di trattamento non abbiano tanto a che fare con me o con il mio libro, ma sopratutto con l’Italia di oggi e la direzione, culturale e politica, che sta prendendo.

Il lavoro delle donne viene ritenuto più accettabile se si attiene ai ristretti margini di quelli che viene definita ‘letteratura femminile’: se cioè è di piccolo calibro strutturale, si occupa di piccole vicende intimistiche, ha insomma piccole ambizioni

Ragioni culturali e politiche, quindi, e non magari dovute (anche) alla forma e alla mole del libro? Sangue giusto è un romanzo impegnativo, un testo che – pur scorrendo molto bene, riuscendo cioè a catturare l'attenzione del lettore dall'inizio alla fine – cerca di tenere insieme moltissime cose (la vicenda del colonialismo, la storia di una famiglia inconsapevolmente allargata, l'attualità). Che cosa ti ha spinto a tentare un'impresa così complessa, costata ben cinque anni di lavoro?

Ora – tu mi perdonerai – ma prima di risponderti farò un metadiscorso, ovvero uscirò dal ruolo di intervistata e sottoporrò questa tua domanda ad un breve esame.

Ho la sensazione di aver toccato inconsapevolmente un nervo scoperto...

Fammi spiegare e lo scoprirai. Da anni c’è un filone specifico degli studi di genere che ha a che fare con il bias (pregiudizio) implicito e – importante ! – inconsapevole con cui ancora troppo spesso viene giudicato il lavoro intellettuale femminile. Ci sono studi e ricerche quantitative, sul cosiddetto gender bias nelle recensioni per esempio. A parte il plateale scarto proprio sui numeri – molte meno recensioni vengono dedicate alle opere delle donne rispetto ai libri scritti da uomini - ci sono anche altri aspetti interessanti e specifici. Uno di questi riguarda la ridotta intenzionalità attribuita alle donne letterate – da cui deriva ovviamente una minore attribuizione di autorevolezza e controllo sul loro materiale letterario. Nel descrivere il lavoro degli scrittori uomini vengono molto più spesso usati verbi come “volere, decidere, strutturare”; per descrivere quello delle donne vengono invece usati spessissimo – esattamente come hai fatto tu ora - verbi come “cercare”, “tentare”. Un’altra cosa frequente è rivolgere allle donne che scrivono libri di evidente ambizione letteraria, filosofica e anche proprio di mole (numero di pagine) la critica che “è troppo”, “c’è troppa roba”; questa critica invece non viene quasi mai rivolta agli scrittori uomini che si cimentino con opere impegnative. In altre parole, il lavoro delle donne viene ritenuto più accettabile se si attiene ai ristretti margini di quelli che viene definita ‘letteratura femminile’: se cioè è di piccolo calibro strutturale, si occupa di piccole vicende intimistiche, ha insomma piccole ambizioni. C’è una iluminante intervista a Eleanor Catton, donna e per di più giovanissima quando vinse il Pulitzer con il suo straordinario, complesso, voluminoso e filosoficamente ambiziosissimo “The Luminaries”. E’ un’intervista uscita sul Guardian qualche anno fa e ogni tanto me la vado a rileggere perché illustra benissimo quella che è stata anche la mia esperienza. Racconta di come si rese conto di – cito – “un senso di irritazione da parte di alcuni critici che io fossi stata così audace da scrivere un libro così lungo. Il messaggio era, ‘Ma chi ti credi di essere? Non hai mica il permesso di farlo!’”

Dopo aver illustrato tale pregiudizio implicito, sul quale mi e ci hai fatto riflettere, la tua impresa allora che contorno assume?

Molto semplice (anche se molto complesso da realizzare). Quello che mi ha spinto a scrivere Sangue giusto è stato illustrare un pensiero forte sulla storia e sulla società italiana del Novecento che ho maturato in molti anni di riflessione, e sapevo di volerlo fare attaverso una struttura narrativa altrettanto forte. Mi fa quindi piacere che tu dica che il romanzo scorre e riesce a catturare l'attenzione dall'inizio alla fine: ottenere questo risultato di leggibilità, proprio a fronte della mole narrativa e teorica a cui sapevo che avrei esposto il lettore, è stata una mia priorità. Per questo ho progettato una struttura che appunto riflettesse la forza del materiale che conteneva; a questa struttura ho lavorato un anno intero, prima di scrivere una sola parola.

Ogni volta che mi daranno occasione di farlo, ribadirò come razzismo e misoginia siano strettamente collegati

Il 5 settembre, quando hai ricevuto a Castel Tirolo l'onorificenza della Provincia, ricorrevano esattamente ottanta anni dalla firma dei “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista” firmati da Vittorio Emanuele III nella tenuta di San Rossore (lo storico Giovanni Belardelli ha parlato della “data delle vergogna per la cultura italiana”). Oggi il razzismo ha rialzato la testa e, anche se non si tratta più del razzismo pseudoscientifico di Lidio Cipriani, è un sentimento che si esprime in molteplici modi. Che interpretazione dai di questa persistenza? E perché insisti sempre molto sul legame tra “razzismo e questione di genere”?

L’interpretazione che do di questa persistenza l’ho espressa nelle 500 e passa pagine di Sangue giusto, anzi, è proprio il suo tema. Il razzismo non è scindibile dalla questione di genere perché il razzismo è innanzitutto una questione di corpi percepiti – o meglio costruiti culturalmente – come “altri”, e il primo corpo “altro” dal punto di vista patriarcale è quello della donna. A questo proposito contraddico un po' quella ritrosia della quale ho parlato all'inizio e vorrei citare un intervento, un articolo che ho scritto a proposito delle leggi razziali del ’38 e il loro rapporto con il razzismo nell’Italia di oggi; ecco, ogni volta che mi daranno occasione di farlo, ribadirò come razzismo e misoginia siano strettamente collegati, di come non ci porterà da nessuna parte pretendere di non essere razzisti senza fare una severa autonalisi di quanto ognuno di noi sia imbevuto di cultura patriarcale. In altre parole, quando c’è una cosa di cui sono molto convinta e che penso di poter argomentare in modo compiuto, lì sento che è mio dovere civile farlo.

Torniamo in Sudtirolo, che tu spesso chiami “Heimat”, o meglio “Zweimat”. Quali sono le sensazioni, i pensieri che riesci a sviluppare quando ti trovi tra Brunico e la Val Gardena? Che cosa hanno per te questi luoghi di essenziale, che non riesci a trovare per esempio a Roma o negli altri posti dove ti piace vivere? E a proposito, qual è il luogo che hai visitato negli ultimi dieci anni al quale ti sei legata in modo particolare?

In Alto Adige trovo una natura che amo e conosco, oltre ai tanti amici di una vita. Viaggi: in Etiopia sono stata due volte in questi dieci anni e l’ho avuta dentro per tutto il tempo della stesura di Sangue giusto. Poi ci sono state le Isole Marchesi, l’arcipelago più lontano da masse continentali del pianeta, briciole di vulcani in mezzo all’oceano Pacifico. Loro ci saranno anche nel mio futuro, compreso in quello della scrittura.

Prima dei vulcani in mezzo all'oceano Pacifico, però, ancora l'Europa. Quali sono le date del tuo imminente tour europeo che attendi con particolare emozione?

La serata finale al Festival di Berlino, il 15 settembre: era prevista alla Literaturhaus ma, data l'incredibile richiesta di biglietti hanno dovuto spostarla nella sala grande della Berliner Festspiele (il palazzo dove si svolge la Berlinale, per intenderci). E poi la presentazione al Vluchtmaat di Amsterdam, una residenza per richiedenti asilo provenienti in massima parte da Eritrea ed Etiopia. Ci sarà anche una cena etiopica, per Sangue giusto sarà un po' come tornare a casa.