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Foto: transpadania
Politik | Avvenne domani

Equivoco in Commissione

Piccola storia della Commissione dei sei e del fantasma che doveva sostituirla

L'ennesima scaramuccia avvenuta nell'ambito della "madre di tutte le battaglie etniche altoatesine", parliamo ovviamente della toponomastica, ha prodotto un interessante effetto collaterale: quello di riportare sotto i riflettori della cronaca un soggetto istituzionale del quale parevano essersi perse le tracce. Parliamo della Commissione dei sei, per decenni vivacissima protagonista delle vicende politiche locali e poi quasi dimenticata. Come d'incanto la querelle sui toponimi ha riportato alla luce un dibattito, sulla commissione stessa, sui suoi poteri, sul suo ruolo politico nelle vicende altoatesine che pareva essere consegnato definitivamente all'attenzione degli storici.

Vale forse la pena, quindi, di raccontare qualcosa sulla storia e sul funzionamento di questo organismo che tanta parte ha avuto, nel bene e nel male, nella costruzione dell'edificio autonomistico nel quale tutti gli altoatesini, piaccia a loro o no, si trovano a vivere.

Le due commissioni, quella dei 12 con competenza sui temi "regionali", dalla quale nasce per estrazione  quella dei sei dedicata ai temi altoatesini, vengono istituite, con le misure 70 e 71 del "Pacchetto" con uno scopo ben definito: quello di attuarne nella pratica le indicazioni politiche generali.

Una "missione" molto precisa che avrebbe dovuto esaurirsi tra l'altro in un tempo assai breve, un paio d'anni. Poi le commissioni dovevano sparire. Per la provincia di Bolzano era prevista dalla misura 137, l'ultima del "Pacchetto" un'altra commissione paritetica presieduta da un Sottosegretario e composta da quattro membri tedeschi, due italiani e un ladino eletti dal consiglio provinciale con una rappresentanza garantita, quindi, anche per le minoranze politiche.

Le cose andarono molto diversamente da come i "padri" del nuovo Statuto avevano previsto.

Le commissioni dei 6 e dei 12 innanzitutto ci misero non due ma vent'anni a completare l'attuazione del nuovo ordinamento statutario. Ciò avvenne innanzitutto perché ci si rese conto progressivamente che la materia era assai più complessa di quanto non si potesse immaginare, poi perché, con il tempo, da parte della Suedtiroler Volkspartei vennero avanzate richieste di competenze assai più ampie di quelle inizialmente previste ed infine, soprattutto, perché ai lavori delle commissioni fu applicato un principio non scritto ma di fondamentale importanza: quello in base al quale nessuna norma sarebbe stata varata senza l'intesa tra il Governo e la rappresentanza delle minoranze linguistiche individuata nella SVP.

È un passaggio chiave dell'intera vicenda altoatesina le cui radici vanno rintracciate in una svolta cruciale delle trattative per la nuova autonomia verificatasi all'incirca a metà degli anni 60. Dopo lunghe trattative, condotte in buona parte segretamente per scongiurare il sabotaggio sistematico e sanguinario di ogni intesa praticato dai terroristi, i ministri degli esteri di Italia e Austria, Saragat e Kreisky, avevano raggiunto allora un'intesa di massima per chiudere la controversia. Il progetto fu affossato senza pietà dalla Suedtiroler Volkspartei,  non solo perché considerato in larga parte ancora insufficiente, ma anche perché il partito di raccolta sudtirolese non poteva accettare soluzioni raggiunte con trattative dalle quali era stato escluso. Fu allora che si decise di adottare un altro metodo: quello della trattativa diretta tra la SVP e Roma. Iniziarono gli incontri al vertice tra l'allora Presidente del Consiglio Aldo Moro e Silvius Magnago che avrebbero portato, di lì a qualche anno, all'intesa conclusiva. Dall'adozione di quel metodo derivava l'impegno, da parte di Roma, a non adottare nessun tipo di decisione, sui problemi altoatesini, senza la preventiva intesa  con  la Suedtiroler Volkspartei riconosciuta esplicitamente come l'unico interlocutore autorizzato a parlare in nome delle minoranze altoatesine.

La Commissione dei sei fu costruita in modo tale da permettere alla trattativa di adeguarsi a queste leggi non scritte. Fu chiamata paritetica, dato che tra i membri erano di lingua italiana e tre di lingua tedesca, ma questo in realtà è sempre stato un dettaglio del tutto irrilevante. L'essenziale era che della commissione facessero parte autorevoli esponenti politici della SVP e  tecnici di estrazione ministeriale incaricati di valutare la congruità giuridica delle norme proposte. Per oltre vent'anni la presidenza fu affidata al democristiano altoatesino Alcide Berloffa, che aveva il ruolo di raccordo politico fondamentale tra la Commissione stessa e il  Governo. Si procedeva, allora, in questo modo. Il quadro politico generale continuava ad essere delineato periodicamente dagli incontri al vertice tra i presidenti del consiglio in carica e Silvius Magnago. La Commissione dei sei si confrontava poi con la stesura materiale delle norme di attuazione. Se vi era l'intesa lo schema di norma passava al Consiglio dei Ministri per l'approvazione, altrimenti tutto poteva restare fermo anche per anni. Avvenne così, ad esempio, a metà degli anni 80, all'epoca dei governi guidati dal socialista Bettino Craxi.

Fu questa particolarissima situazione ad imprimere, nell'immaginario politico altoatesino, la tenace convinzione che le norme di attuazione fossero direttamente decise in commissione, dimenticando che questa aveva ed ha solo un ruolo di proposta nei confronti del Governo il quale, politicamente parlando, era ed è l'unico responsabile di tutto ciò che è stato fatto in questi lunghi decenni in tema di Alto Adige. È una responsabilità che si è rivelata nel tempo assai scomoda e non vi è da stupirsi che anche da parte di molti esponenti governativi vi sia stata la tentazione di "scaricare" sulla Commissione per i sei le responsabilità di decisioni contestate in specie dalla comunità italiana dell'Alto Adige.

È un equivoco di fondo che nemmeno le vicende delle commissioni all'indomani della chiusura della vertenza internazionale sono riuscite a dissipare. Le due paritetiche sono state mantenute in vita più o meno con lo stesso funzionamento degli anni precedenti, anche se, per ragioni diverse, hanno attraversato lunghi periodi di stasi. Curiosa invece la sorte dell'altra commissione, quella prevista dalla misura 137, che avrebbe dovuto nelle intenzioni sostituire la Commissione dei sei. È stata insediata un paio di volte, ma non ha mai svolto un ruolo politico attivo. Un altro frammento di "Pacchetto" che non ha trovato salda sistemazione del quadro istituzionale della seconda autonomia.