Gesellschaft | Gastbeitrag

Addio Piero Cavagna, Fotografo Buono

Caro Piero, la notizia della tua morte ieri in montagna mi ha stordito davanti alla tazza di caffellatte. Avevi 5 anni meno di me, cavoli, com’è possibile?
Piero Cavagna
Foto: Piero Cavagna
Ho scritto a Paolo piangendo, che è successo? Avevi ancora tanti progetti, mi ha risposto: “è stato un esploratore generoso”.
Allora sono corso a cercare una foto insieme a te in archivio, una ce ne doveva essere per forza degli anni comuni del giornale, o dopo. La volta che venisti a Bolzano con Paolo Ghezzi e Paolo Rumiz per progettare il mio “Calicanto”, o quella volta che mi volevi fotografare da consigliere regionale e io mi feci così tante docce e risciacqui il giorno prima che a Trento venni con quella riga ridicola in mezzo ai capelli che tu pietoso cercasti di aggirare in tutti i modi. Avrai fatto ben una foto di noi tutti insieme, noi dei tempi dell’Adige e del Mattino, noi di vent’anni fa! Invece nulla.
 
Non eri un fotografo da selfie. Ti interessava fotografare il mondo, non te stesso.
 
Non eri un fotografo da selfie. Ti interessava fotografare il mondo, non te stesso. Quella bella che oggi i giornali pubblicano (e io qui riprendo) deve essere uno dei pochi autoscatti (vedo il cellulare stretto in mano) e ti rappresenta come io ti ricordo: un uomo grande dallo sguardo buono. Da quello sguardo ci si faceva fotografare volentieri. A quello sguardo ci si poteva affidare, nella certezza che ti avrebbe nobilitato, non umiliato; avrebbe scavato nella tua parte migliore, non ti avrebbe sputtanato come oggi si usa fare.
Più tardi ho imparato a chiamarla empatia, e tu dell’empatia eri un campione (sarà stata la tua vita nello sport a insegnartela?). “Non si può scrivere di qualcuno senza averne condiviso almeno un po’ la vita”: questa frase di Ryszard Kapuscinski penso fosse il nostro credo condiviso, di noi gruppetto di giornalisti e fotografo dei primi del Duemila. Eri davvero l’“esploratore generoso” dell’animo umano, delle relazioni, degli avvenimenti.
 
Ti presentò come “il miglior fotografo trentino dopo Flavio Faganello”, che per noi in Sudtirolo era un mito.
 
A noi due ci presentò Paolo Ghezzi nel Duemilauno, appena io venni nominato direttore editoriale del Mattino, qui a Bolzano. Ti presentò come “il miglior fotografo trentino dopo Flavio Faganello”, che per noi in Sudtirolo era un mito. Mi resi conto presto di quanto aveva ragione. Tu lavoravi per l’Adige, ma il Mattino ne era la costola bolzanina e così io cercavo di avere le tue foto anche per noi. Non riuscivo spesso, le due province già allora si allontanavano, ma quando accadeva, metà della pagina era già scritta: una foto di Cavagna valeva da sola un servizio. Era da sola un racconto. Il tuo scatto non fermava, ma coglieva il movimento. Nelle tue foto continuava ad accadere qualcosa. Erano storie. Mi inventai la “foto del giorno” nella pagina delle lettere e commenti e quando era tua, la foto, la pagina si illuminava. Era l’editoriale più diretto e incisivo. Sentivi la vita, la sentivi scorrere, fotografavi non solo con l’occhio, ma col corpo tutto intero.
Ti vedo ancora all’opera come fosse ieri. Mi incantava la tua velocità nel fermarti e cogliere l’attimo, la tua mano ferma, il senso del ritmo degli avvenimenti e dell’istante giusto per coglierne il segreto, la tua pazienza, il tuo misericordioso appostarti affinché nessuno per carità si mettesse in posa, la tua serena serietà, il tuo impegno, il tuo sorriso nel lavoro. Sentivi la vita perché la vita ti aveva attraversato, e non sempre era stata facile, come qualche volta mi avevi raccontato. Anche quelle erano storie, più intime, fatte di parole, che non posso dimenticare.
Adesso leggo della tua caduta in valle dei Laghi. Vedo le tue ultime foto, eri molto dimagrito, ma coltivavi ostinato la missione di mettere a posto il mondo attraverso le immagini, di mettere in ordine le immagini per salvare il mondo. Eri il mio amico fotografo buono. Che vuoto ora che te ne sei andato.