Kultur | SALTO AFTERNOON

Il finale nella nebbia

Convince il film di Donato Carrisi "La ragazza nella nebbia", quasi un noir mediatico, girato interamente in Alto Adige.
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Foto: mymovies.it

Per decidere di andare a vedere un film al cinema – film del quale fino allora si ignora tutto: produttore, regista, trama, personaggi, luoghi nei quali è stato girato – bastano un paio di suggerimenti utili e un pomeriggio (o una sera) a disposizione. Meglio se quel pomeriggio (o quella sera) piove. I suggerimenti per me utili erano: uno dei personaggi principali è interpretato da Toni Servillo, il luogo in cui il film è girato è l'Alto Adige. Siccome c'era anche la pioggia, sono andato al cinema.

La location

La location, dunque. Donato Carrisi – lo scrittore/regista pugliese che ha firmato il libro/film “La ragazza nella nebbia” - ha scelto la nostra provincia giudicandola adatta a far scattare tutti i meccanismi di suspance della storia. Trasfigurati, ma non troppo, dalla luce emotiva che avvolge le sequenze, si riconosceranno così il lago di Carezza, Nova Levante, la Val Sarentino e Vipiteno. L'operazione, specialmente a livello letterario, continua nel solco tracciato da altri. Avevamo già parlato del perfezionarsi di un nuovo topos a proposito di alcuni romanzi, anch'essi ambientati in Alto Adige per sfruttarne il paesaggio, l'esito estremo di una visione asettica dell'universo. Qui accade la stessa cosa, anche se l'Alto Adige ritratto assomiglia di più alla Val d'Aosta: senza un briciolo di tedesco (al limite, nel nome dell'agente Vogel) e condensandone la memoria, l'evocazione maledetta di Cogne, nel paese immaginario di Avechot.

La ragazza sparita

Di un giallo, di un thriller, di un noir è buona cosa parlare il meno possibile a chi non l'ha visto (mi scuso dell'involontaria allusione al programma televisivo che vive di questo). Basti allora descrivere la scena iniziale: una casa di montagna, la nebbia densa, una ragazza che esce da un cancello. Carrisi è molto bravo a ricostruire l'ambiente familiare della ragazza scomparsa (si chiama Anna Lou), il fanatismo religioso e bigotto e il senso di ordinaria oppressione, vale a dire il clima di controllo sociale che nasconde qualcosa di perturbante sotto il suo strato di ghiaccio. A graffiare il ghiaccio arriva poi un agente che potremmo definire “malato di protagonismo” (Vogel, interpretato benissimo da Toni Servillo), perché si dimostra subito più interessato a usare il clamore mediatico della vicenda che a risolvere “davvero” il caso. La sparizione della ragazza è insomma duplice: come vittima delle circostanze e come segnale che rinvia ad altro, al mondo dell'informazione interessato a ricostruirne l'identità per il pubblico, avido di storie come quella.

Alla ricerca di un mostro

Molta della fatica impiegata da Carrisi per costruire l'intreccio del film è assorbita da quella che appare come una vera e propria fenomenologia del mostro in action (altra nota di merito: le azioni cruente non si vedono mai nei dettagli, restano sospese e quindi risultano ancora più efficaci). Non è un caso che il regista si sia laureato in Giurisprudenza con una tesi su “Il mostro di Foligno”. Chi, cosa è un mostro? Qualcuno o qualcosa fuori di noi? Ma fuori c'è la nebbia, fuori non si vede niente. Qualcuno o qualcosa dentro di noi? Ogni figura diventa ambigua, ogni gesto la ripetizione di altri, il male – del quale Carrisi ha l'ambizione di svelare la sostanza – ha l'ineffabile tendenza a ripercorrere sempre le medesime orme, a farsi seriale. Meglio se la serialità diventa così un serial, una commedia televisiva addobbata di orrori e raccontata da interviste nelle quali la giornalista cinica tiene la mano alla migliore amica della vittima.

Il finale nella nebbia

Non capita spesso, ma quando capita ti senti strano. Alla fine del film hai capito chi è l'assassino ma non hai capito bene tutti i passaggi, perché la rivelazione è stata troppo improvvisa, il classico lampo che illumina una scena per pochi istanti, rendendo difficile il compito di mettere insieme i pezzi. Ci fosse stato un gruppo di amici sarebbe partito il refrain:“io l'ho capito quando...”. Sarebbe stato quasi geniale, in effetti, se il finale si fosse sciolto anch'esso nella nebbia, rivelando l'impossibilità di giungere ad una attribuzione di colpevolezza puntuale. Non è così, non c'è alcuna fine filosofica, ma solo il fatto di averlo almeno suggerito mi sembra il maggior merito del film – e comunque è ciò che lo rende vivo fino all'ultimissimo fotogramma.