Kultur | Salto Gespräch

Umanesimo tecnologico

Bart van der Heide racconta a Salto la sua mostra, la prima in assoluto a portare la cultura Techno nelle sale di un museo.
Bart van der Heide
Foto: Luca Guadagnini

Entrando nel parallelepipedo di vetro e alluminio di Museion la sensazione è quella di varcare la soglia di uno spazio diviso tra realtà e mondo virtuale. I volti di ragazzi trasfigurati dall’estasi della musica e delle sostanze stupefacenti si alternano ad ipnotici ritratti generati digitalmente da un algoritmo, a spettrali presenze uscite dall’immaginario distopico di un qualche videogioco, a tende luminose che sembrano create per essere attraversate e condurre in qualche dimensione sconosciuta.

TECHNO è la prima mostra curata e realizzata a Bolzano da Bart van der Heide, che dall’estate scorsa ricopre il ruolo di direttore di Museion. Questo allestimento è la sua creatura e fa parte di un progetto più ambizioso, a lungo termine, dal titolo “Techno Humanities”, destinato a coinvolgere l’istituzione in tutte le sue parti, a diversi livelli, ma soprattutto posizionare il museo al centro dell’ecosistema culturale altoatesino e trasformarlo in un punto di riferimento per gli attori della scena artistica e culturale.

 

Attraverso le opere di artisti come Riccardo Benassi, Sandra Mujinga, James Richard, Massimo Grimaldi, Yuri Pattison e molti altri, la mostra lungi dall’essere una ricostruzione storica della nascita e diffusione della musica techno, tematizza invece attraverso le opere esposte alcuni aspetti di questo fenomeno, mettendolo in relazione con la nostra condizione presente di esseri umani.

 

Salto.bz: Cito una sua frase “La techno è molto di più che una subcultura ed è strettamente connessa al modo in cui facciamo esperienza del mondo come lavoratori e freelance negli anni Venti del XXI secolo”. Che cosa intende esattamente?

Bart van der Heide: Credo che ci siano particolari fenomeni culturali che possono essere utilizzati come lente attraverso cui osservare la nostra condizione umana presente. La musica techno è uno di questi.

La caratteristica che più mi colpisce del fenomeno della techno è il fatto che sia un’attività per così dire “part-time”. Altri generi come il punk richiedono un’adesione totale un impegno 24 ore al giorno, 7 giorni su 7. La musica techno non è così! Puoi andare ad un rave e restare un’ora o tre giorni, e alla fine tornare al tuo lavoro, alla vita quotidiana e nessuno solleva un sopracciglio.

Questo aspetto della techno è particolarmente rivelatore di quanto il fenomeno sia strettamente connesso alla nuova dimensione post industriale del lavoro e alla nuova forza lavoro che sono i freelance. I freelance vivono uno stile di vita votato ad un’alta produttività a cui si associa un’organizzazione molto accurata del tempo e dell’esistenza. In questo contesto diventa fondamentale che ci siano dei momenti in cui lasciarsi completamente andare, dei momenti di rigenerazione, di fuga. E qui entra in gioco la techno: è la forma di sfogo di questa classe creativa urbana, che qui cerca un senso di liberazione. Liberazione e stordimento, attraverso i ritmi martellanti e l’assunzione di sostanze stupefacenti.

Questa mostra per la prima volta nella storia vuole guardare la techno da questa prospettiva, non solo come una subcultura ma come un fenomeno che può raccontare molto dell’esperienza umana contemporanea.

 

Com’è nata l’idea di una mostra di questo genere?

Per tanti anni ho cullato l’idea di una mostra sulla techno ma volevo farla bene, volevo che avesse un senso. È solo con il primo lockdown che ho davvero realizzato quanto questo fenomeno fosse strettamente legato al nostro stile di vita e per certi versi ad esso necessario. Io stesso sono un freelance, faccio parte di questa classe di lavoratori che viaggiano, si spostano, seguono diversi progetti, e con il primo lockdown ho notato come in modo assolutamente naturale tutta questa classe di lavoratori sia stata completamente assorbita dai nuovi strumenti digitali – Zoom, Skype, Teams ecc. Il nostro lavoro si è adattato perfettamente alla necessità di rimanere a casa restando però connessi, in questo regime di alta produttività di cui parlavo prima, a cui però viene a mancare il contraltare: il lasciarsi andare, poter staccare. La sensazione che può dare un rave party non è replicabile digitalmente, ha bisogno di uno spazio, delle casse, della folla. Questa mancanza di un momento di evasione ha portato molte persone che conosco alla depressione o all’abuso di sostanze. È stato solo in quel momento che ho davvero realizzato quanto la techno sia molto più di una subcultura e possa davvero essere usata come lente per leggere e spiegare alcuni aspetti del nostro presente.

 

Abbiamo invitato artisti che catturassero l’essenza di un’esperienza umana che è sempre più caratterizzata dal movimento tra un mondo online e offline

 

Immagino che la scelta di una mostra sulla techno nasca dalla sua esperienza personale. Come ha vissuto il mondo dei rave e dei club come giovane studente e come lo vive adesso come direttore di un museo d’arte?

Ho cominciato ad andare ai techno party già a quattordici anni, per me allora un mondo completamente nuovo che mi ha affascinato e ho continuato a frequentare, ma è solo con la pandemia che ne ho compreso la portata ed il significato.

Una parola che ritorna più volte in questa mostra è libertà. Cos’è la libertà per lei, e come si esprime in questa mostra?

Libertà è un concetto che abbiamo usato per cercare di mettere a confronto l’esperienza della techno e la globalizzazione, il mercato libero. In questo contesto ha meno a che fare con la libertà dell’individuo e più con l’interdipendenza del tutto. Abbiamo invitato artisti che catturassero l’essenza di un’esperienza umana che è sempre più caratterizzata dal movimento tra un mondo online e offline, una condizione umana meno guidata dall’Io e più consapevole dell’interconnessione tra entità viventi e inanimate in termini di network, gaming, istanze ecologiche, tutti aspetti in cui siamo sempre più in contatto con altre entità. La libertà nei techno party è in qualche modo connessa a questo paradigma dell’esistenza, nel senso in cui l’esperienza collettiva è più importante di quella personale, si diventa parte di un unico corpo, ci si dissolve nella folla e in un flusso che non ha un inizio e non ha una fine.

Gli approcci degli artisti a questo tema sono diversi. Alcuni per esempio prendono in considerazione l’universo del gaming, dove ci si trova a giocare online con altre persone che nell’universo digitale più che presenze corporee sono presenze spettrali – un esempio è l’opera di Sandra Mujinga Spectral Creepers. Si tratta insomma più di identificare esperienze umane che non nascono da istanze individuali ma da esperienze collettive, intangibili. Gli artisti mettono in luce come esista una costante negoziazione nella nostra esperienza umana tra la nostra individualità e la dispersione in una rete globale, in una dimensione collettiva.

 

Questa mostra sembra avere come obiettivo un coinvolgimento più ampio del pubblico nelle attività del museo e un coinvolgimento maggiore del museo nel tessuto culturale e sociale della città. Dopo questi mesi passati a Bolzano pensa che questa sia una necessità?

Penso che questa sia una vocazione essenziale per un museo. Un museo è più che non la somma delle mostre o esclusivamente uno spazio espositivo. La mostra oltre a permetterci di collaborare con altre istituzioni offre un argomento che può interessare il pubblico a diversi livelli. Una parte importante è l’archivio che raccoglie testimonianze della scena techno in Alto Adige dagli anni ‘90 ad oggi, da cui vogliamo partire per creare una piattaforma dedicata a questa community, aprendo un dibattito su aspetti come la visibilità, le location ed il network. E’ un modo per lasciare un impatto significativo nel tessuto urbano, stabilire un ruolo a lungo termine del museo nella vita sociale e culturale. Un museo deve chiedersi come andare oltre, oltre l’esposizione. Oggi lo facciamo attraverso la techno ma in futuro vogliamo lavorare e dialogare con altre community. È un modo di lavorare che si basa su uno stimolo dal basso verso l’alto e non il contrario. Cerchiamo nelle persone, negli attori della scena culturale nuove idee e nuove proposte.

 

Penso che il museo debba avere voce in capitolo in questa discussione, che debba diventare un partner per le industrie, la politica, il turismo

 

Pensa che ci sia la possibilità di aprire nuovi spazi per la techno a Bolzano e che Museion possa avere un peso nel dialogo con le istituzioni, farsi portavoce di queste istanze?

Assolutamente! Penso che questi cambiamenti però debbano essere conseguenti ad una necessità. Siamo qui per cominciare a guardare al territorio e capire di cosa le persone hanno bisogno e in questo modo definire anche la nostra posizione e il modo in cui possiamo contribuire. Penso che il museo debba avere voce in capitolo in questa discussione, che debba diventare un partner per le industrie, la politica, il turismo. Dobbiamo essere presi sul serio e in questa direzione ci sono ancora alcuni passi da fare.

Crede che ci sia sensibilità da parte delle istituzioni su questo argomento, la volontà concreta di coinvolgere Museion nella discussione su questi temi?

Assolutamente sì. E’ un cambiamento che parte già dal team. Quello che abbiamo fatto nel corso dell’ultimo anno è stato cambiare la nostra etica, le nostre pratiche guardando di più a quello che succede fuori dal museo. Abbiamo istituito un forum di giovani professionisti che hanno il compito di indirizzare attivamente la programmazione dei prossimi anni. Sempre di più stiamo trovando una connessione con il territorio e possiamo davvero diventare un agente di cambiamento e promozione del panorama culturale altoatesino. Credo che ci sia bisogno di una visione d’insieme che porti gli attori della scena culturale a collaborare e interagire, e Museion può avere un ruolo centrale nella definizione di questa visione.