Kultur | Salto-Gespräch

“Dove c’è la ferita, lì nasce l’arte”

Antonio Viganò ci parla del teatro che cura le ferite, del silenzio che libera la fantasia, dell’inquietudine come motore per creare. La ripartenza? In formato peep-show.
Antonio Viganò
Foto: la ribalta

salto.bz: Antonio Viganò, fondatore della compagnia Teatro La Ribalta, come artista, e come persona, come ha vissuto questo periodo?

Antonio Viganò: È stata strana per noi la situazione. Eravamo a Mosca a fine febbraio, per cui le notizie ci arrivavano solo dalla televisione che vedevamo in camera dell’hotel. Il rientro è stato un po’ traumatico. Alla partenza ci sentivamo abbastanza tranquilli, invece sull’aereo, prima di atterrare a Verona, abbiamo visto che tutti i russi si mettevano la mascherina, poi siamo scesi e ci hanno blindati in una zona di passaggio dove verificavano temperatura e documenti. Quindi ci siamo caduti dentro un po’ così. Anche il nostro ufficio ci ha chiamati dicendo che non potevamo rientrare perché eravamo passati da Verona che era una zona infetta. A noi lì per lì sembrava tutto paradossale e l’abbiamo presa un po’ alla leggera. Poi quando siamo arrivati il clima è cambiato molto, abbiamo cercato di capire se potevamo continuare a lavorare e come potevamo farlo, poi l’8 marzo abbiamo interrotto ogni attività.

Molte realtà e strutture artistiche si sono trovate nella stessa condizione e di fatto a livello nazionale è stato imposto a tutti di chiudere.

Sì, infatti. Il nostro problema è che lasciavamo a casa dodici persone e, lavorando con delle fragilità, cercavamo di capire che conseguenze questo avrebbe avuto, che ferite avrebbe lasciato. Poi si aggiunge il problema economico di piazze e date perse, ma questo è successo a tutti.

E come vi siete mossi per tenervi in contatto?

Per un certo periodo abbiamo cercato di attivarci assieme, di sentirci tutti i giorni, abbiamo prodotto un video su una poesia della Gualtieri, che ci è piaciuta molto. È l’unica cosa che abbiamo prodotto per tenerci in vita. Ci piaceva che gli artisti restituissero quello che percepivamo come “dramma collettivo” in un'altra forma, ci sembrava importante e quindi abbiamo coinvolto i nostri attori e realizzato questo video.

Poi dopo ci siamo allontanati dal linguaggio del video, non ci appassionava e abbiamo preferito concentrarci sui contatti personali, organizzando telefonate tra di noi, zoom, messaggi in chat e dato compiti a casa per improvvisazioni teatrali da preparare.

La paura principale era che i nostri attori, ciascuno con fragilità e storie specifiche, non sprofondassero in un’apatia che diventava abitudine

Il vostro gruppo è composto da attori che possono avere fragilità e esigenze specifiche, come hanno vissuto loro questo blocco delle attività? 

La nostra paura principale era che non sprofondassero in un’apatia che diventava abitudine, è un po’ questa la lotta che facciamo tutti i giorni con i nostri attori. Loro, a differenza degli altri attori, hanno motori diversi che li spingono ad agire, che li motivano: il teatro non è per forza il loro motore principale e in questo senso sono portatori di una diversità. Hanno una vita privata in cui rischiano di cadere dentro abitudini anche molto profonde. L’abitudine è per loro, ma anche per tanti altri, un abito comodo e protettivo. Un modo per difendersi dal mondo ma anche un modo che ti separa dal mondo.

Questa era la nostra preoccupazione principale. Nell’attività di tutti i giorni del laboratorio di teatro andiamo a rompere le nostre abitudini, andiamo in terreni inesplorati, cerchiamo strade sconosciute per dare agli attori nuove possibilità di essere protagonisti della propria  vita. “Rompere” è proprio uno stilema. Il motore della creatività per noi è: “io non so" e questo ci impone di immaginare. Per questo all’ingresso del nostro spazio T.RAUM abbiamo appeso la scritta di Pessoa “Niente si sa, tutto si immagina”.

Questa pratica quotidiana di “rottura” e ricerca è una bellissima caratteristica del vostra realtà. Non crede che sarebbe utile a tutti gli attori, avere uno spazio di lavoro quotidiano in cui potersi esercitare in condivisione con altri colleghi?

Secondo me dovrebbe essere così. Su questa parola “non so” mi è venuto in mente il discorso che ha fatto la poetessa Wislawa Szymborska quando ha preso il Nobel alla letteratura. Lei diceva che tante volte le chiedevano da dove viene la creatività, l’ispirazione. La sua risposta era che la creatività e l’ispirazione vengono da questo “non so”, parte tutto da lì. Il nostro tentativo di “ inclusione “ deve per forza prevedere l’incontro con l’altro: non possiamo permetterci di chiuderci nel nostro teatro, di farne “una prigione amorevole”.

Questa pratica “dell’immaginare” che nella letteratura può essere individuale, per il teatro non lo è. C’è bisogno che sia collettiva, non trova?

Il teatro è un processo collettivo. E’ un atto politico molto chiaro. Un modo di prendere parte nel mondo, di scegliere da che parte collocarsi. E’ un luogo dove “si giuoca a fare sul serio”: cambiare sguardo, modificare prospettive, rendere visibile ciò che non si vede è un processo di trasformazione collettiva.

Questa bulimia di immagini di teatro sui social, pc, tablet e tv non ci ha appassionato. Esorcizzava soltanto la paura di sparire, di non essere più visibili.

Questa “bulimia di video” ha impedito agli artisti di ricoprire il loro vero ruolo: quello di essere narratori del contemporaneo

Da un lato l’angoscia, dall’altro la necessità di recuperare il pubblico attraverso una visibilità mediatica?

Ho paura che la questione del pubblico sia stata un’invenzione a livello di marketing, un tentativo fallito perché è così noioso il teatro in televisione che io personalmente non ho visto tutta questo passione da parte del pubblico nel cercare spettacoli teatrali in rete.

La cosa che mi è dispiaciuta di più (in riferimento anche al tema “la malattia che cura il teatro” che è stato trattato in modo approfondito in un convegno che abbiamo organizzato a Bolzano nell’ottobre 2019 e che verrà riassunto presto in un libro) è che mi è sembrato che questa “bulimia di video” abbia impedito agli artisti di ricoprire il vero ruolo che dovrebbero avere all’interno della società, cioè quello di essere narratori di un contemporaneo, di dare ossigeno, di essere un ospedale per le anime, un ambulatorio che cura le ferite. Il Contemporaneo oggi è pieno di ferite; e queste dovrebbero essere paradossalmente un terreno fertile per gli artisti: dove c’è la ferita, dove c’è l’inaspettato, è lì che nasce l’arte. Ci si è persi nel raccontare quello che eravamo invece di porsi il problema di come saremo in futuro e, soprattutto, di cosa può essere il teatro in questo presente tragico.

Un’occasione persa per riflettere?

Un po’ sì, perché se io leggo Cechov, che è stato un grande narratore dei suoi tempi, così come lo è stato Pirandello, Shakespeare, Goldoni, mi rendo conto della necessità dell’artista di essere presente e testimone della contemporaneità che sta vivendo. L’arte per manifestarsi ha bisogno della ferita, altrimenti non c’è poesia, non c’è possibilità di interrogarsi. Il rischio è una autoreferenzialità assoluta.

Difficile vedere al momento una via di uscita. Le nuove normative forse prevedono attori con la mascherina, distanze sul palco: come potranno lavorare gli artisti?

I problemi riguardano due temi. Il primo è quello della protezione, del distanziamento sociale e dei protocolli (qui navighiamo a vista perché questi protocolli nessuno li conosce e non sappiamo come e quando arriveranno), l’altra questione riguarda la vita stessa degli artisti, la loro sopravvivenza reale.

Dovremo approfittare di questa situazione per uscire dalla nostra autoreferenzialità e reinventarci. Quello che mi fa paura e che, causa Covid 19 e relative chiusure, ci sarà una strage di piccole compagnie e di singoli lavoratori dello spettacolo. Le grandi strutture sopravvivranno, continueranno ad avere i finanziamenti pubblici, compresa la mia compagnia, ma a me preoccupano le singole persone che sono anche piccole Compagnie autogestite, con poche sovvenzioni pubbliche, che non hanno più un reddito, un lavoro, un futuro. Sono loro che dobbiamo proteggere se immaginiamo un futuro per il teatro.

Il problema, oltre che essere di giustizia sociale, è un problema di pluralismo: se rimangono in vita solo le realtà istituzionali,  i teatri pubblici, che oggi sono i grandi teatri del consenso, ci sarà una mancanza di pluralismo culturale;  allora non sarà solo un problema dei lavoratori dello spettacolo ma sarà un problema che riguarda tutti i cittadini e la democrazia. Mancheranno le tante voci libere e indipendenti che sono oggi più che mai indispensabili. Le piccole compagnie, gli attori, i tecnici, sono quelli che creano il tessuto culturale di questa nazione.

Se salta questo settore, che è il settore che più sperimenta, cerca, inventa, rischia a volte riuscendoci a volte fallendo, il danno sarà gravissimo. Quando un artista arriva in un Teatro Istituzione, ci arriva perché già affermato, conosciuto, sperimentato. Per questo riesce a riempire le sale teatrali, a raccogliere tanti consensi: lo riesce a fare perché prima ha fatto decine e centinaia di repliche dentro a quel tessuto indipendente che gli ha dato la possibilità di crescere e misurarsi di fare la cosiddetta “gavetta”. Quando arrivi in un Teatro Istituzionale, a livello di ricerca, il processo è finito e non c’è più nessun rischio.

L’arte per manifestarsi ha bisogno della ferita, altrimenti non c’è poesia, non c’è possibilità di interrogarsi

A livello nazionale si sta sviluppando un grande movimento strutturato di lavoratori dello spettacolo che punta a creare una consapevolezza di categoria. Non crede che troppo spesso non ci sia coscienza della propria professione e non si conoscano i propri diritti?

Io ho vissuto circa quattordici anni in Francia, tra Parigi e Lille e il sistema welfare francese per i lavoratori dello spettacolo dal vivo, dell’intermittenza, mi  ha permesso di vivere anche nei momenti in cui non c’erano giornate di spettacolo o di prova, garantendomi un reddito per vivere.

In Italia è mancata qualsiasi azione sindacale a tutela degli attori e non c’è mai stata consapevolezza collettiva ma  ognuno si arrangiava da solo. Non è mai stato riconosciuto, collettivamente, il lavoro dell’attore come un vero e proprio lavoro, con dovere e diritti al pari di altri mestieri. L’AGIS avrebbe dovuto garantire tutti ma così non è stato  e non lo sarà mai: direttori di teatro, delle Fondazioni, degli Enti Lirici, del Cinema, dei Circuiti, quasi tutti con nomina pubblica, hanno domande e risposte diverse dai singoli artisti. Gli attori non hanno voce, non sono mai stati capaci di creare un movimento sindacale collettivo e riconosciuto e questo ha prodotto grandi e gravi ingiustizie. Ci sono disparità di compensi scandalosi: come può un attore, inserito nel mercato del lavoro, vivere come intermittente con paghe il più delle volte al minimo di 67€ lorde al giorno?? Siamo alla fame.

La forbice tra i vari stipendi nel mondo di chi lavora nello spettacolo dal vivo ha raggiunto livelli troppo ampi che diventano ingiusti. 

In questo il teatro è emblematico di quanto accade in grande in altri settori, c’è bisogno di ridistribuire…

Sì, certo, perché la forbice tra l’ultimo lavoratore e il primo sta diventando troppo ampia: 67 euro lordi al giorno sono la cifra che altri professionisti prendono all’ora. I lavoratori dello spettacolo sono persone che si sono formate, che hanno investito per acquisire competenze. Se penso a me, io spendevo tre milioni ogni sei mesi a Parigi per fare la scuola Lecoq, un attore che si è trasferito tre anni a Milano per fare l’accademia ha investito grandi somme di denaro per la sua formazione. Come fa questo stesso attore poi a mantenersi e mantenere eventualmente dei figli, quando guadagna, se gli capita, 67€ lordi al giorno? Questo lo trovo scandaloso.

Tornando al coronavirus, o oggi troviamo il modo di sollevare queste questioni oppure temo che l’occasione non ci sarà più…

Già. Proviamo a proiettarci in avanti: come gruppo come vi state muovendo in vista di una ripresa? Che progetti avete immaginato?

Noi avevamo in ballo due produzioni, una Cenerentola e una collaborazione con Balletto Civile di Michela Lucenti. Però erano spettacoli pensati per un palcoscenico e quindi non avremo potuto portarli a termine a breve. Allora mi è venuto in mente il peep-show. Si tratta di un pensiero che già coltivavo, noi spesso creiamo spettacoli in cui il pubblico è immerso nella scenografia (è stato così per “Otello Circus”, per “Impronte dell’anima”, per H+G di Alessandro Serra, per “Biancaneve”) e allora ci siamo messi con Roberto Banci a costruire un peep-show! E’ una follia perché ci stiamo dissanguando, però lo facciamo perché altrimenti moriamo di noia, di tedio, di sussidio e di debito e allora tanto vale svenarci per qualcosa che ne valga la pena!      

Quindi stiamo costruendo un peep-show. Io me li ricordo in Francia, erano i luoghi dove si andavano a vedere le donnine, c’erano le cabine, tu mettevi il gettone, la tapparella si alzava e dietro c’era una donna che si esponeva. Era un luogo molto legato al discorso del voyeurismo. In pratica abbiamo deciso di costruire una piattaforma girevole, di 5 metri quadrati, su cui si affacciano 16 cabine singole chiuse. Ciascuna cabina ospiterà un solo spettatore.

Che visibilità avrà lo spettatore dalla cabina? Come vedrà lo spettacolo?

Ciascuna cabina avrà una finestra di 75 cm x 1 metro, lo spettatore metterà un gettone preso in biglietteria (che sarà distanziata dalla struttura per garantire tutte le norme), si alzerà la tapparellina e così potrà vedere ciò che accade nella piattaforma girevole centrale. In scena, sulla piattaforma, ci sarà un racconto su dei temi tratti da Cenerentola. Saranno interventi di 20-30 minuti ciascuno perché per il pubblico un’esperienza più lunga potrebbe essere claustrofobica. Gli spettatori avranno ciascuno la propria cuffia singola di modo che l’esperienza sia intima.

Possiamo dire che il Teatro nel suo complesso per molto tempo ha rappresentato una situazione “voyeuristica” in cui lo spettatore nel buio della platea spiava il palco protetto dalla quarta parete?

Esatto, nel peep-show ciascuno spettatore avrà la sua personale quarta parete e assisterà allo spettacolo dietro al vetro della finestrella presente nella cabina.

Il peep-show è un luogo dove farsi guardare, ma anche un luogo dove vedere cose mai viste; un’esperienza intima e sensoriale

E gli spettatori tra loro si potranno intravedere?

Pochissimo perché dentro ogni cabina sarà buio. Gli interni delle cabine abbiamo deciso di non farli come quelli dei Peep-Show ma piuttosto ispirandoci a una struttura simile che nel ‘400 era chiamata “macchina per vedere”. Si trattava di un luogo dove la gente andava a vedere delle cose curiose, cose mai viste…  Anche questo è un bel richiamo al teatro, no? Si andava a vederci le cose “strane”, le cose che non si vedevano tutti i giorni…

Così quando mi è venuta quest’idea ho contattato Roberto Banci, uno scenografo che ha lavorato per molti anni qui a Bolzano, che se ne è subito innamorato e ora ci sentiamo un giorno sì e un giorno no per aggiornarci, raccontarci, progettare questa struttura.

Per tornare agli interni, li faremo come fossero dei palchetti del teatro all’italiana, con il velluto rosso damascato, la seggiolina comoda…  Le cabine saranno quindi dei luoghi belli anche da vedere, con una piccola luminaria appesa; potrebbero ricordare come colori i Peep-Show di Paris-Texas di Wim Wenders.

Lo spettacolo al centro sarà quindi a 360 gradi?

La piattaforma centrale gira, c’è un motore elettrico, a volte potrà fermarsi a volte si muoverà in base alle entrate degli attori che dovranno sempre mantenere un distanziamento fisico e potranno essere in scena massimo due alla volta se posizionati alle estremità della circonferenza.

Gli spettatori vedranno lo spettacolo da più punti di vista in base a come gira la piattaforma?

Certo, noi cercheremo di creare un rapporto intimo perché crediamo che ci sia molto bisogno di andare proprio vicino allo spettatore. Vorrei che si creasse una rapporto quasi da confessionale, che le sorellastre si avvicinassero alle finestre, le pulissero per vedere chi c’è dall’altra parte e siccome sono cieche si domandassero  “ma ci sarà qualcuno dietro?” Quello del Peep-Show è un luogo dove farsi guardare… Oggi ho dato il primo tema agli attori per creare delle prime improvvisazioni. Il tema è: “scegli me”. Già questo spunto ha scatenato in loro cose molto belle.

I miei attori sono capaci, forse perché hanno meno sovrastrutture e sono più fragili, di far emergere dei materiali così profondi che io poi devo usare come se avessi in mano qualcosa di preziosissimo, ci vuole molta delicatezza… Poi il mio compito è quello di far sì le loro proposte si traducano attraverso la trasfigurazione che il teatro richiede. Io sono molto grato ai miei attori, sono loro che salvano me non viceversa.

Viviamo alla giornata ma con la voglia di andare avanti. Finché c’è inquietudine possiamo stare tranquilli

Per cui insomma abbiamo progettato questo Peep-Show. L’idea poi è che la struttura possa essere messa a disposizione anche di altri artisti. Ne ho parlato con il Dams, con il Festival Oriente Occidente che era interessato… Si tratta di una struttura che può essere allestita in più luoghi, in piazza, in teatro; noi la monteremo qui al T.RAUM.

Ci sembra un modo per tenere in vita una relazione vera con lo spettacolo dal vivo, con i nostri spettatori. Al posto di fare video e raggiungere in modo distante molti, raggiungiamo pochi ma in un modo che permetta di tenere viva una fiammella che poi contagerà tutto il resto quando si potrà riaprire.

E per sanificare tutto, le cabine, le cuffie?

Per quello ci sarà Cenerentola!

Sarà prevista drammaturgicamente una Cenerentole che disinfetterà, sanificherà le cabine: pulirà le cuffie, passerà le sedie, le finestre e poi lo spazio scenico. Gli spettatori entreranno nelle cabine con la mascherina, dentro ci saranno le istruzioni, uno specchio, un luogo dove appendere la mascherina, saranno isolati.

Al di là di tutte le sanificazioni alla base c’è la necessità di ricreare un’intimità tra attore e spettatore, giusto?

Ci sarà una grande intimità, sarà un po’ un confessionale.

Immagino siano luoghi molto suggestivi anche per la parzialità con cui chi assiste vede e “sbircia” ciò che accade…

Sì, sarà un’esperienza anche di tipo sensoriale.

Secondo lei di questo periodo che memoria si conserverà? Che tracce ci lascerà?

Non so, non so quale segno ci lascerà dentro tutto questo. Dei colleghi in Lombardia si sono trovati con le bare in casa, perché non si sapeva più dove metterle…

Al momento quello che so è che dobbiamo ripartire, con tutte le precauzioni, ma dobbiamo poter ripartire. Chiaramente siamo molto attenti a “come” riprendere le attività. Noi qui abbiamo rivoluzionato lo spazio, spostato gli orari, stiamo sanificando tutto, prepariamo i luoghi, misuriamo la temperatura, disinfettiamo le maniglie…

Nonostante queste complicazioni vedo che i miei attori riaprono gli occhi sul mondo nel poter ricominciare e questo li aiuterà anche a essere più consapevoli rispetto a quanto hanno passato.

È difficile al momento fare progetti o avere certezze sul futuro, anche questo è un grande limite?

Viviamo alla giornata. Viviamo alla giornata ma con la voglia di andare avanti. Finché c’è inquietudine possiamo stare tranquilli.