Kultur | palcoscenico

"I miei 50 anni di teatro"

Domani la presentazione della biografia di Marco Bernardi, anima dello Stabile per 35 anni. L'annuncio a sorpresa: "Torno a fare il regista, la "prima" sarà nel 2025"
marco bernardi tsb
Foto: TSB

Marco Bernardi “è stato” il Teatro Stabile di Bolzano, si può dire, per trentacinque anni. Lo ha preso sull’orlo della chiusura, lo ha diretto dal punto di vista amministrativo e da quello artistico, risollevandone le sorti e portando nel capoluogo i migliori spettacoli e le compagnie più affermate a livello nazionale. Non solo: ha fondato e diretto la compagnia stabile, producendo e dirigendo ogni anno gli spettacoli di avvio della stagione che poi calcavano le scene dei più importanti teatri italiani. Bernardi è stato cioè una figura molto importante nel panorama italiano, nonché mentore del suo successore, Walter Zambaldi. Alessandra Limetti ci ha dialogato in un libro che verrà presentato a Bolzano domani (sabato 17 alle ore 11 al Centro Trevi, in via Cappuccini 28).

marco berrnadi

 

SALTO: Leggendo questo libro una delle cose che mi ha fatto più impressione è pensare che lei abbia preso in mano la gestione del Teatro Stabile di Bolzano a neanche venticinque anni compiuti. Sarebbe una cosa possibile per un giovane di oggi?

Marco Bernardi: Ricordo che il mio incarico richiedeva di occuparmi della liquidazione, perché il teatro stava per essere chiuso. Poi invece siamo riusciti a mantenerlo in vita. Comunque sì, sicuramente le possibilità lavorative sono legate alle dinamiche generazionali, ma ci sono dei giovani molto bravi in circolazione anche adesso. Il primo esempio che mi viene in mente è Fausto Paravidino, un famoso drammaturgo, regista e attore che ha vinto il Premio Riccione (un importante riconoscimento teatrale) molto giovane. Un’altra persona che mi viene in mente è Licia Lanera. Giorgio Strehler fondò il Piccolo Teatro di Milano a ventisei anni.

Superficialmente si può pensare che questo libro per lei non possa che essere stata un’esperienza positiva, perché in qualche modo la racconta e la celebra. Le interviste però possono diventare molto intense, simili ad una seduta di analisi e quindi non facili da affrontare. È questo il caso?

Il tema del libro è esattamente questo. Proprio qualche notte fa, in una delle mie insonnie notturne, pensavo all’uscita di questo libro come a un grande sollievo, perché tutta questa autoanalisi comporta una fatica non indifferente, nonostante la bellezza dell’esperienza. Faccio un esempio: ha presente che si dice che quando si fa un incidente passa tutta la vita davanti in pochi secondi? Ecco, per me è stata la stessa cosa, solo che questa visione è durata mesi, approssimativamente da dicembre a marzo. Alla mia età poi, se hai fatto parecchie cose, succede che molte te le dimentichi e non ci pensi più. In questo caso, dovendo rispondere alle domande di Alessandra, mi sono tornate in mente una serie di vicende che mi ha fatto sicuramente piacere ricordare, ma a volte ne sentivo il peso, che poi appunto è quello dell’autoanalisi. 

Dovendo rispondere alle domande di Alessandra, mi sono tornate in mente una serie di vicende che mi ha fatto piacere ricordare, ma a volte ne sentivo il peso, che poi appunto è quello dell’autoanalisi. 

Quando il lavoro che si svolge comporta un coinvolgimento emotivo diventa poi difficile separarsene una volta tornati a casa. Succede anche a lei?

Questa notte Jean Marc Esposito, un bravo light designer con cui ho lavorato per parecchi anni, mi ha scritto un lunghissimo WhatsApp in cui ci siamo scambiati opinioni sui personaggi teatrali che circolano ancora come fantasmi nelle nostre menti durante i giorni e le notti. Ed è così. Chi fa teatro, che sia un regista, un attore o in generale chi possiede una certa sensibilità e passione, convive con le storie che ha raccontato. Convivi con Hedda Gabler di Henrik Ibsen, che alla fine del dramma si suicida. Convivi con Medea di Euripide, che uccide i due figli per vendicarsi del marito. Poi, convivi anche con personaggi allegri come Mirandolina de La Locandiera di Goldoni. C’è da dire che nella mia galleria di fantasmi c’è un posto particolare per quelli legati a Thomas Bernhard, di cui ho curato quattro regie. Però sì, inevitabilmente da alcune storie e personaggi non ti separi, al punto che diventano dei veri compagni di viaggio.

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Il compagno di viaggio Alle spalle di Marco Bernardi, la foto di Thomas Bernhard, immenso autore austriaco, portato in scena 4 volte (Foto Tsb)

 

In “Euphoria”, una nota serie tv contemporanea, una regista teme che il proprio spettacolo smuova troppe emozioni negli spettatori e allora si domanda se non sia pericoloso. A quel punto la sua assistente le dice che l’arte deve essere pericolosa. Anche lei la pensi così?

Eh certo, sennò per quale motivo lo faremmo? Pensiamo a Danza di Morte di August Strindberg, uno dei testi più belli a cavallo tra Ottocento e Novecento e allo stesso tempo di fortissimo impatto emotivo. Lo stesso Thomas Bernhard diceva che il teatro deve turbare il pubblico, anche se c’è spesso il desiderio di uscire da uno spettacolo semplicemente divertiti.

Quando si va a teatro a volte si ha la percezione che sia già il pubblico ad essere una sorta di spettacolo, perché c’è chi si addormenta, chi si distrae e chi a volte si vuole mettere in mostra quasi più degli attori. Lei come la vede?

Bisogna ricordare che il pubblico è vario. C’è chi ama più il teatro comico e chi più quello drammatico. C’è chi va a teatro con un approccio superficiale e ci sono i veri appassionati. Comunque, anche se il teatro io l’ho vissuto più dal palcoscenico che dalla platea, nel pubblico mi sembra di vedere molta curiosità e molta disponibilità. Quelli che vanno a teatro solamente per mostrarsi come intellettuali mi sembrano una piccola percentuale.

Nel mio percorso scolastico ho sempre dato per scontato le mattine in cui si andava a teatro. La vedevo come una delle tante attività e ignoravo l’impegno che ci fosse dietro e, in questo caso, chi ci fosse dietro, cioè lei. Mi racconta un po’ questo tuo desiderio di far incontrare la scuola col teatro?

Il fatto che per lei fosse una cosa scontata è una buona notizia, perché il mio scopo consisteva nel far sì che andare a teatro diventasse la norma. Ho lavorato molto al progetto legato alle scuole, ci ho sempre creduto profondamente, l’ho fatto nascere e l’ho implementato. L’idea era quella di prendere lo spettatore in prima elementare e accompagnarlo teatralmente fino alla maturità. In questo modo si dava agli studenti l’opportunità di maturare una consapevolezza non scontata, sia come persone che come spettatori, appunto. Avere accesso a diversi spettacoli significa avere accesso a diversi linguaggi e quindi poter scegliere il tipo di linguaggio preferito da ricercare poi in futuro. È stata un’avventura molto bella che ci ha portato ad avere più di trentamila spettatori scolastici di lingua italiana in Alto Adige. Una cosa importante da sottolineare è che portando la scuola a teatro si coinvolgono tutte le persone, senza distinzione di provenienza sociale. A volte si hanno pure delle grandi sorprese, come quando presentai la stagione teatrale in un istituto tecnico di Bolzano e, parlando di uno spettacolo di Goldoni, le osservazioni più argute vennero fatte da un ragazzo cinese.

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La compagnia Gli attori Carlo Simoni, Patrizia Milani, Paolo Bonacelli con Marco Bernardi (Foto Teatro Stabile)

 

Anche la rassegna “FUORI” del Teatro Stabile, ideata da Walter Zambaldi, vuole far arrivare il teatro a più persone, in questo caso andando nelle piazze invece che nelle scuole. Cosa ne pensi?

L’opinione che ho a riguardo è del tutto positiva. Ti racconto una cosa. L’estate del 2020, in piena pandemia, il Teatro Stabile di Bolzano è stato uno dei primi in Italia a riaprire, nel pieno rispetto di tutte le leggi ovviamente, ed è stata in quell’occasione che è nata la rassegna FUORI. All’interno di quella rassegna c’era Paolo Rossi con un suo spettacolo. Una sera andai a vederlo nel quartiere di Casanova, anche proprio per capire che tipo di impatto avesse effettivamente questa iniziativa sulla cittadinanza. Ecco, ogni possibile perplessità scomparve del tutto, perché fu un’esperienza molto bella, la gente era felice e nel pubblico potevi effettivamente scorgere persone molto diverse tra di loro. Quindi sì, vedo assolutamente una continuità tra la rassegna FUORI e il progetto delle scuole. A questo proposito è fondamentale tenere a mente che il teatro, soprattutto quando è gestito con fondi pubblici, deve diventare una risorsa comune preziosa, come lo è la sanità. Va salvaguardato e portato a più gente possibile. Questa è la direzione che bisogna seguire.

Se vuoi tentare di raggiungere un’eccellenza artistica e sviluppare quindi una creatività originale ci devi mettere tutto te stesso, e questo richiede disciplina.

Nel libro si percepisce molto che la disciplina sia una parte importante del suo lavoro. A volte però la disciplina non rischia di castrare il piacere?

Come sappiamo, il diavolo sta nei dettagli, anche nell’arte. Se vuoi tentare di raggiungere un’eccellenza artistica e sviluppare quindi una creatività originale ci devi mettere tutto te stesso, e questo richiede disciplina. La disciplina richiede un’applicazione assoluta e un’alta concentrazione. Non si fa buona arte, profonda, significativa, se non ci si impegna in questo modo. Poi, il piacere che a volte si rischia di perdere nel mezzo di questa fatica lo si ritrova nella risposta del pubblico. Ma questo vale per il teatro come per la musica o anche per lo sport.

C’è stato un momento in cui ha dubitato di poter continuare a fare questo lavoro?

Un sacco di volte. Il mio primo lavoro come aiuto regista l’ho avuto nel 1973 e nel 1977 ho deciso di mollare tutto. Avevo fatto un paio di stagioni al Teatro Stabile di Bolzano, poi con Maurizio Scaparro ed altri abbiamo fondato il Teatro Popolare di Roma e proprio al secondo anno di quest’ultima esperienza ho lasciato, perché non condividevo una serie di scelte. Questo abbandono è durato un anno e mezzo durante il quale mi sono concentrato nei miei studi universitari bolognesi di filologia moderna col “maestro” Ezio Raimondi. Non avevo alcuna intenzione di tornare a lavorare nell’ambito teatrale ma, ironia della sorte, le stesse persone dalle quali avevo preso le distanze mi hanno convinto a rientrare proponendomi di andare a lavorare al settore teatro della Biennale di Venezia. Da lì si sono susseguite varie esperienze, ma ci sono state altre situazioni in cui stavo nuovamente per lasciare, finché poi non è successo, dopo trentacinque anni di direzione.

Nel libro viene svelata una tua nuova regia per uno spettacolo che debutterà nel 2025. Passerà anche per Bolzano?

È uno spettacolo tratto da un testo strepitoso di Frank Wedekind che si intitola Risveglio di Primavera. Parla della scoperta del sesso, anche in senso lato, in quella parte di vita stupenda e terribile che è l’adolescenza. Sì, sicuramente lo porteremo anche a Bolzano.

 

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Simonetta Lucchi So., 18.06.2023 - 15:22

A me, per interesse professionale,ha colpito particolarmente la frase : «abbiamo messo uno specchio sul palco rivolto verso il pubblico; ho cercato di dare un contributo per la costruzione di un’identità della comunità, cresciuta senza un dialetto, senza una forma parlata d’incontro." Il tema dialetto, di cui si parla anche in altri articoli.

So., 18.06.2023 - 15:22 Permalink