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“Questa memoria non serve alle vittime”

Dalle foibe alla commemorazione della battaglia di Nikolajewka. La deriva della memoria pubblica italiana e il dolore per le proprie vittime a discapito di quelle altrui.
Francesco Filippi
Foto: Francesco Filippi

Alla vigilia della Giornata della memoria per le vittime della Shoah, dal prossimo anno si celebrerà la Giornata della memoria e del sacrificio degli Alpini. Lo ha stabilito senza obiezioni, se non di alcuni storici, il Parlamento Italiano, con il favore della SVP. Un’operazione controversa ma non a sé stante e che si colloca in mezzo al dibattito sull’uso pubblico della storia e sull’incapacità della politica di proporre antidoti ai guasti di una memoria fondata sulla centralità delle vittime. Una conversazione con lo storico Francesco Filippi sul nostro rapporto con il passato più difficile e la tempesta emotiva che ne accompagna la sua narrazione.

salto.bz: Filippi, la decisione del Parlamento di istituire la Giornata della memoria e del sacrificio degli Alpini nel giorno dell'anniversario della battaglia di Nikolajewka è stata definita, a dispetto dell’unanimità con la quale è stata votata, decisamente problematica. Qual è il contesto storico in cui si colloca questa sconfitta?

Francesco Filippi: Il nostro territorio è uno dei più affezionati al mito dei valori alpini ed è anche uno di quelli in cui si parla maggiormente della ritirata di Russia, raccontato sia dalla letteratura che dalla cultura di massa, basti pensare al grande film "Italiani brava gente". Il problema è che la battaglia di Nikolajewka non è l'inizio dell'epopea della ritirata, ma è il punto di svolta di un movimento partito molto prima, nel giugno del '41, durante la cosiddetta Operazione Barbarossa, l'aggressione delle forze dell'Asse - quindi da parte della Germania, dell'Italia e di altri alleati come la Romania e l'Ungheria - nei confronti dell'Unione Sovietica. Lo stesso Benito Mussolini l’aveva definita in maniera molto significativa, utilizzando i temini di “crociata antibolscevica” che fu nientemeno che il tentativo di distruggere lo Stato sovietico, e quindi la sua ideologia, a cui il Duce del fascismo volle prendere parte. Gli stessi alti comandi della Wehrmacht avevano dei dubbi sull'opportunità di imbarcare delle delle truppe non perfettamente inserite all'interno della macchina da guerra nazista ma su insistenza di Mussolini, Hitler accettò il contingente italiano, partito come un semplice corpo di spedizione, fino a diventare l'ottava Armata, con 230.000 uomini. La campagna di Russia fu un vero e proprio atto di invasione all’interno della famigerata guerra fascista proclamata da Mussolini nel 1940, insieme all'invasione della Grecia e della Jugoslavia. Tutte guerre dichiarate che l'Italia portò avanti come aggressore e che furono il culmine della violenza retorica fascista perpetrata da oltre un ventennio. Nello specifico Nikolaevka fu una battaglia di truppe alpine che aveva lo scopo di alleggerire il peso della pressione sovietica sul resto del corpo di spedizione. Si risolse il 26 gennaio del 1943 in un’enorme carneficina, ma che permise comunque a una buona parte dell’esercito di andarsene.

Chi ha votato la legge vuole celebrare il cosiddetto eroismo degli alpini dimostrato durante la battaglia. Possiamo davvero definirlo tale?

Quell'atto eroico, così come viene definito, è in realtà un tassello dell'enorme scommessa persa da parte dei totalitarismi di destra su quella che veniva chiamata “guerra di annientamento” di cui gli italiani furono parte integrante non solo come occupanti ma in quanto alleati dell’invasore, rendendosi responsabili di atti di “ripulitura” nei confronti di comunisti, ebrei e di altri nemici dello stato. Si macchiarono di veri e propri crimini di guerra che la storiografia italiana solo recentemente è riuscita a riportare alla luce. Quello che stupisce oggi è l’incapacità da parte del legislatore, che con i due rami del Parlamento ha votato all’unanimità a favore della legge, di comprendere il peso di questa scelta, quale sia la reale portata storica e il valore morale di quella brutale invasione. Oppure, ma è un’ipotesi a cui non voglio nemmeno pensare, è che la maggior parte di chi ha votato la legge sappia benissimo che cosa fu Nikolaevka all’interno di quello scontro tra civiltà tra il totalitarismo nazifascista e l’Unione Sovietica e abbia votato conscio del fatto di legare la memoria delle truppe alpine a un episodio di una guerra di aggressione vergognosa delle cui responsabilità questo Paese non si è ancora fatto carico.

Una cosa è certa: se si voleva rendere un omaggio alla memoria delle truppe alpine, questa cosa non è stata fatta

Considerando che la legge è stata votata anche da parlamentari dichiaratamente antifascisti, ci sarà stato sicuramente qualcuno, o qualcuna, che l'ha fatto tenendo a mente "Il Sergente nella neve" di Rigoni Stern in cui, parlando della sua esperienza, portava alla luce l’aiuto ricevuto da una parte popolazione russa durante la ritirata. Un aiuto ricevuto solo dagli italiani e non dai tedeschi, perché in fondo erano diversi: una narrazione ormai nota, in cui, in parte, il mito degli italiani “brava gente” mandata a combattere riesce a sopravvivere ancora.

È vero, non è necessario essere fascisti per votare una legge sulla memoria di questo tipo. Tuttavia rischia seriamente di aprire la porta a forme di riabilitazione del fascismo. Il punto è che quando per legge, a livello politico, si interviene in maniera così diretta e forte all'interno della costruzione della memoria pubblica di un paese, inserendo nel calendario civile un giorno in cui si è invitati, anzi obbligati, a fermarsi e riflettere su un episodio della propria storia si deve prestare molta attenzione su che cosa significa istituire momenti come questi, il peso che hanno nell’apparecchiare un discorso di memoria pubblica. Una data così controversa come il 26 gennaio difficilmente potrà riunire attorno a sé una memoria pubblica rappacificatoria. Una cosa è certa: se si voleva rendere un omaggio alla memoria delle truppe alpine, questa cosa non è stata fatta. Anzi, si è lasciata la porta aperta alle più varie strumentalizzazioni. Rigoni Stern fu testimone delle tragedia fascista in Russia, di quello che vissero le truppe alpine e di quello che accadde intorno. Una testimonianza diretta importantissima che è stata in grado di costruire l'immaginario pubblico. Le testimonianze dirette sono importanti ma non le uniche, e si integrano con quelle che sono per esempio le testimonianze altrui e le fonti che abbiamo a disposizione. Le fonti ci parlano di comportamenti che partono da quella che è la testimonianza di Rigoni Stern e arrivano fino ai rastrellamenti, alle deportazioni, alle fucilazioni, alle violenze nei confronti dei civili e al vero e proprio impegno da parte delle truppe italiane nella distruzione del substrato civile e sociale di quei territori che dovevano essere “liberati” per far posto al Lebensraum nazista. Quindi, anche in questo caso Mario Rigoni Stern, e altri come lui, hanno dalla loro parte la forza di un racconto che effettivamente è stato un racconto di grande umanità e che sicuramente ha permeato alcune fasi di quel di quel momento, ma che non è, purtroppo tutto il racconto. È un settore molto parziale, importante, ma parziale di una vicenda che inizia anni prima con una guerra d'aggressione. Sono anche altre le testimonianze che arrivano dall'invasione dell'Unione Sovietica, come quella di Nuto Revelli che cambia la propria visione durante quel conflitto e che non a caso diventa antifascista, scoprendo la forza dei valori della Resistenza attraverso la partecipazione ad una guerra sbagliata. Si sarebbero potuti scegliere tantissimi altri momenti per ricordare la centenaria storia degli alpini perché al di là di Nikolaevka, sono stati, e sono tuttora, un grande corpo che aiuta il paese nei momenti di difficoltà. Basti pensare a contributi eccezionali durante il terremoto del '76 in Friuli. Ma se proprio si volevano commemorare delle gesta belliche anche in questo caso si sarebbero potuti scegliere dei momenti con un valore militare differente. Se al voto ci fosse stata la possibilità di commemorare un episodio, per esempio, della Prima Guerra Mondiale, quando il Corpo degli Alpini, impegnato sulle montagne e sulle Dolomiti nella cosiddetta Guerra Bianca combatteva non quanto aggressore ma in quanto aggredito, sarebbero state uguali le scelte e le opposizioni? Probabilmente no, perché le sensibilità, e le insensibilità, sarebbero state diverse.

 

Con l’approvazione della legge, lo storico Carlo Greppi si era appellato agli alpini antifascisti affinché prendessero posizione. Quindi, ricordiamocelo, anche nella Resistenza gli alpini, assieme ad altri corpi militari, hanno avuto il proprio ruolo.

Assolutamente. Molti membri della Resistenza che ebbero ruoli di comando e di gestione provenivano dall'esperienza distruttiva e dissacrante della guerra fascista. Il fascismo italiano riuscì nell'incredibile impresa di perdere una guerra e di formare, al contempo, quelli che gli avrebbero fatto perdere anche la guerra civile e che diedero a loro volta un valore diverso all'idea di scontro, attraverso una propria esperienza e costruzione della violenza. Oggi il termine non va più di moda ma si chiamerebbe “guerra giusta”, cioè la violenza di chi si oppone al sopruso e alla violenza, quella ingiusta, dei totalitarismi. E la Resistenza è piena di episodi di militari che in questo senso abbracciano le armi, dai badogliani di estrema destra, fino all’estrema sinistra. Tutte persone che hanno fatto la guerra, che hanno visto come la facevano i fascisti e che pertanto la volevano vincere per evitare che quel conflitto diventasse quello che i fascisti avevano imposto in tutti i luoghi in cui sono andati. Ecco, la Resistenza è piena di questi episodi di militari che prendono le armi. Ma appunto, dai badogliani di estrema destra fino all'estrema sinistra. Gente che proprio perché aveva fatto la guerra, voleva e aveva fatto la guerra, vedendo come la facevano i fascisti, che voleva vincere la guerra civile per evitare che la guerra diventasse e la violenza diventassero quella cosa lì che i fascisti avevano imposto in tutti i luoghi in cui erano andati. Per questo scegliere Nikolaevka è il modo meno costruttivo per affrontare un tema che dovrebbe essere affrontato in questo Paese, dal momento che è stato uno dei caratteri fondanti della Repubblica nata dalla Resistenza.

La Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini non è un’operazione a sé stante ma si colloca all’interno di tutta quella che è la metamorfosi sull'uso pubblico della storia e della memoria. In questo modo la giornata della Memoria per le vittime della Shoah si trova stritolata tra quest’ultima e il controverso Giorno del Ricordo. In questo modo non rischia di venire annichilita e neutralizzata?

Io non voglio crederci. Con tutte le mie forze cerco di oppormi all'idea che questa nuova commemorazione sia stata una scelta di opportunità. Voglio credere nella casualità di questa vicinanza che però effettivamente diventa deleteria per la data del 27 gennaio, perché diluisce i fattori di memoria in un unico minestrone, accomunando paradossalmente le vittime di Auschwitz a quelli che morirono nella guerra che aveva creato e stava mantenendo aperto proprio quel campo di concentramento. In generale, io ritengo che questo Paese come altri, abbia affrontato in maniera seria, con l’istituzione negli anni 2000 della Giornata della Memoria del 27 gennaio, le politiche di memoria riguardanti alcuni temi necessari ma poi, per determinate scelte, questa memoria è scivolata da terreno comune a terreno di parte e parziale. 

A cosa si riferisce?

L'istituzione della Giornata del Ricordo nel 2004 fu una scelta che giustamente portava alla luce una questione, quella del confine orientale, che l'Italia per troppo tempo aveva accantonato. Tuttavia questa ricorrenza non ha costruito un sentire comune all'interno della società italiana, per quelle che sono le complesse vicende del confine orientale, come chiamate dalla legge stessa, ma ha costruito una narrazione di parte, in cui gli italiani sono sostanzialmente solo vittime, semplificando strumentalmente quanto è accaduto e costruendo l’ennesimo momento di memoria divisiva.

Una legge che parla di esaltazione del sacrificio e difesa della sovranità in un mondo post nazionale non contribuirà a far fiorire ragionamenti ampi e comuni su quelle che sono le responsabilità italiane nei confronti di un passato che non passa

Sarà così anche per il 26 gennaio?

Non posso prevedere il futuro, ma posso immaginare che la scelta e i modi con i quali si è arrivati a una legge che parla di esaltazione del sacrificio e difesa della sovranità in un mondo post nazionale non contribuirà a far fiorire ragionamenti ampi e comuni su quelle che sono le responsabilità italiane nei confronti di un passato che non passa. Sarà, al contrario, l'ennesima occasione perduta e l'ennesimo modo per dare l'opportunità a qualcuno di ricordare la propria piccola e parziale memoria a discapito di una più grande memoria comune, per quanto complessa, sfaccettata e diversificata  che sia. La memoria condivisa non esiste, ma io credo che questo Paese possa essere abbastanza maturo per avere delle memorie in grado di convivere all'interno di uno schema comune riguardante la visione del passato e la modalità di saperlo leggere attraverso un sistema di valori che ci permetta di costruire una società più ampia, più giusta, nel nostro caso tutti scritti nella Costituzione nata dalla Resistenza.

Un’altra celebrazione, come quella dei 150 anni di Unità d’Italia arrivò in un momento in cui, attraverso le spinte secessioniste della Lega di allora, quell’unità tipica dello stato nazione veniva messa fortemente in discussione. È quindi corretto affermare che tutta una serie di commemorazioni sono funzionali al mantenimento e al nutrimento, soprattutto in momenti di debolezza, di sentimenti nazionalisti?

Dobbiamo partire da un presupposto molto semplice, ai limiti del semplicistico: se della gente che ha a cuore la memoria si riunisce per obbligare attraverso una legge tutti a ricordare significa che la paura di fondo è quella che il ricordo svanisca. E quindi sì, tutte le giornate di memoria sono in qualche modo dei tentativi di costruire un calendario civile attraverso cui un'intera società parla e racconta sé stessa. Per quanto riguarda il calendario civile degli italiani, negli ultimi settant'anni troviamo una serie complicata di scelte e di svolte che hanno portato la memoria di questo Paese a diventare quantomeno frammentaria. Non è un caso che le due più grandi date del calendario civile degli italiani, il 25 aprile e, seppur in misura minore, il 2 giugno vengono definite date divisive. 

Ed è così?

Il 25 aprile è una data divisiva perché divide alcune scelte valoriali fondamentali e imprescindibili, ovvero il fascismo dall'antifascismo, la dittatura dalla democrazia. Essendo l'Italia una Repubblica democratica, mi sembra ai limiti dell'ovvio dire che si debba giustamente celebrare la giornata in cui un intero popolo libera se stesso da quelle che sono le catene della schiavitù fascista. Per quanto riguarda il 2 giugno, si tratta di una scelta istituzionale che una Repubblica con i propri valori, è legittimata a portare avanti. Nel momento in cui si è capito che la forza di questo calendario civile poteva essere insita anche in questo tipo di giornate purtroppo si è vista una proliferazione di queste giornate. Dopo il 27 gennaio del 2001 sono fiorite molte giornate di memoria importanti, ma che in qualche modo, essendo tutte costruite sulla falsariga di una memoria celebrata attraverso un ricordo fittizio e che spesso non ha respiro per costruire il significato di questo ricordo, sono semplicemente delle giornate in cui ci si ferma un attimo a riflettere su qualcosa che spesso bene nemmeno si conosce. E questo è drammatico, perché la proliferazione di questo tipo di giornate porterà inevitabilmente a un'assuefazione nei confronti di questo tipo di celebrazioni e quindi direttamente alla perdita di valore generale dell'idea delle giornate di memoria, sempre più diluita. E questo mi fa riflettere e un po’ mi rattrista. Diluire significa anche collegare delle giornate di memoria a degli eventi che per forza di cose non possono essere parte della memoria di tutto un Paese, perché sono troppo settorializzate e troppo poco raccontate. La memoria del sacrificio delle truppe alpine e tutti gli altri articoli di questa legge rischiano di essere paradossalmente un boomerang per la memoria stessa degli alpini, che rischia di essere staccata da memoria più ampia di un'intera società per diventare ancora una volta una memoria di parte che gli alpini potrebbero ritrovarsi a dover ribadire anno dopo anno, con la difficoltà di spiegare il perché. Ecco, io temo che questa diventi una sorta di corsa ad accaparrarsi ognuno il proprio giorno, per sostanzialmente ricordare a se stessi e non a tutta una società, la propria memoria che non sono non viene condivisa, ma che addirittura diventa una memoria chiusa e autonarrante, ognuno a ricordare il proprio giorno ma non ricordando più nulla insieme.

Negli ultimi mesi abbiamo spostato a Est il nostro sguardo, visti gli eventi drammatici che si stanno susseguendo in Ucraina. Con la dissoluzione di quello che è stata l'Unione Sovietica abbiamo assistito ad alcuni processi molto interessanti rispetto a quella che è la costruzione dei vari nazionalismi, anche attraverso l’utilizzo di un certo tipo di ricordo: la stessa Ucraina per legge definisce Olocausto l'Holodomor, la carestia che si abbatté dal 1932 al 1933 causando diversi milioni di morti. Ma in certi casi sono stati riabilitati a eroi nazionali anche criminali di guerra compromessi col nazismo, come lo stesso Stepan Bandera. Quale ruolo ha la memoria storica dunque nel processo di costruzione dello stato nazione, in questi casi in chiave fortemente anticomunista?

Su questa fame di passato che innerva il presente, della costruzione di una nazione di chi veramente deve vivere proprio un nation building, non posso fare a meno di sorridere e pensare che ad Affile, nel Lazio, lo Stato italiano permette a un Comune di tenere in piedi un mausoleo a Rodolfo Graziani, che fu un criminale di guerra ovunque prese parte: dalle guerre coloniali di Libia ed Etiopia, durante la seconda guerra mondiale e con l'esperienza della Repubblica Sociale Italiana. Badoglio, uomo controverso che che autorizzò l'uso dei gas in Etiopia, ha ad oggi intitolato il suo paese natale in Piemonte, Grazzano Badoglio.  Quindi direi che gli ucraini, e in generale gli stati nati dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica, arrivano buoni ultimi all'interno della costruzione di un proprio pantheon. Ed effettivamente ognuno, come si dice, fa il pane con la farina che ha: nel momento in cui si vuole porre a livello di memoria pubblica degli accenti più o meno positivi e più o meno oppositivi nei confronti di situazioni di politica attuale - penso ai difficilissimi rapporti che già prima di questi ultimi eventi c'erano tra lo Stato ucraino e lo Stato russo - è terribilmente scontato che attivisti della memoria, chiamiamoli così, dell'una o dell'altra parte, vadano a pescare quegli episodi che nella storia sottolineano questa o quella scelta. E quindi anche criminali conclamati o figure, come appunto Bandera, eufemisticamente controverse all'interno del panorama di quella complessissima vicenda che è la seconda guerra mondiale combattuta sul fronte orientale, si trovano ad essere elevati agli altari della memoria, sostanzialmente per una scelta di politica più che attuale. 

La storia è molto complicata da valutare e per questo dovrebbe essere maneggiata da professionisti

… in cui l’uno vale l’altro

In generale c'è molta confusione. Nel 2019 una commissione all'interno del Parlamento europeo votò la proposta di una controversa legge equiparatoria di tutti i totalitarismi. Non è un caso che questa proposta sia stata portata avanti soprattutto, ma non solo, da deputati provenienti dai paesi di nuova acquisizione ex sovietici. Ma le parole che usiamo, a seconda del contesto, assumono significati diversi. In Italia, come in altri paesi, la proposta ha fatto scalpore perché banalmente il comunismo significa Berlinguer e non Stalin e perchè l’esperienza di un determinato tipo di sinistra è evidentemente diversa dal regime totalitario staliniano. L'unica cosa da fare è prendere atto di una realtà molto drammatica ma al contempo molto rassicurante ovvero che nella storia c'è tutto: puoi trovare i fascisti buoni, e pure i nazisti buoni, sebbene siano decisamente pochi. Ci puoi trovare ogni tipo di episodio in grado di sostenere questa o quella idea all'interno di una costruzione politica. La storia è molto complicata da valutare e per questo dovrebbe essere maneggiata da professionisti. Il secondo passaggio è che, essendo la storia passata, essa non riporta colpe e quindi non può essere utilizzata come una clava sull'oggi. Nessuno di noi che vive il presente è responsabile per i massacri avvenuti in Africa, nella fine dell'Ottocento. Banalmente perché non c'eravamo. Però c'è la responsabilità, quella sì. La responsabilità della coscienza di questo passato ricade su tutti quelli che questo passato lo ricordano. 

Quali sono le sfide dell’Europa che ambisce ad avere una propria storia, e quindi memoria, in comune?

Innanzitutto comprendere la grande differenza tra colpa e responsabilità. Uscire da una politica di memoria che nasce dopo la Seconda guerra mondiale e con Norimberga - in cui qualcuno viene additato e i figli e nipoti di questo qualcuno continuano potenzialmente ad esserlo - per ambire a una politica della responsabilità, cioè ricordare in maniera scientificamente strutturata per comprendere, attraverso il passato, dei fenomeni che nel presente e nel futuro potrebbero essere parte integrante della nostra vita. Tuttavia, mentre i cannoni continuano a martoriare i corpi delle persone in nome di un'idea così vecchia, stupida e poco basata come quella dell'identità nazionale, proprio in questo momento nel cuore dell'Europa, mi sembra una sfida veramente utopistica.

La responsabilità della memoria serve ai possibili carnefici, che possono scegliere se esserlo o meno ed è questo che va veramente ad incidere sul nostro presente, sul nostro futuro

Ci abbiamo girato intorno, ma non l'abbiamo mai nominato del tutto, ovvero il paradigma delle vittime e del vittimismo con il quale arriviamo a celebrare tutte queste giornate. L’Italia, parafrasando Giovanni De Luna, è una Repubblica fondata sul dolore delle vittime e di chi le commemora. E ognuna di queste vittime rimane affezionata al proprio status, anche a sinistra, creando una sorta di competizione tra le vittime stesse. Non è un caso che il presidente ucraino Zelensky sia stato bacchettato dalla Knesset israeliana durante un suo intervento in collegamento, in cui paragonava l’Olocausto nazista all’invasione russa. Oltre a questa macabra competizione, anche in questo caso si appiattisce e si diluisce la complessità del reale. Quali paradigmi dunque diventa necessario adottare per affrontare la questione della memoria in maniera più lucida e meno emotiva?

Da dieci anni accompagno con gioia faticosa ragazze e ragazzi di tutta la regione, ma anche dal Tirolo, in luoghi come Auschwitz. Ma questo tipo di memoria in realtà non serve alle vittime. I grandi massacri del passato ci insegnano che non scegli di essere vittima, ma qualcuno fa di te la vittima. Celebrare la memoria delle vittime è importante, ma come avvertimento: io ho accompagnato migliaia di giovani che, nel terribile schema della soluzione finale, vittime non sarebbero state: la responsabilità della memoria serve ai possibili carnefici, che possono scegliere se esserlo o meno ed è questo che va veramente ad incidere sul nostro presente, sul nostro futuro. La memoria degli orrori del Novecento serve soprattutto a ricordare che mentre accadevano quegli orrori la stragrande maggioranza delle persone non faceva nulla oppure partecipava a vario titolo allo sterminio. Il destino delle vittime è segnato dai carnefici, quindi noi dobbiamo agire su chi possibilmente potrebbe a vario titolo diventarlo: non aprire la bocca di fronte ad un sopruso è automaticamente un'accettazione del sopruso. E questo non è solo un torto alla vittima, ma un aiuto al carnefice. L'essere attivi all'interno della memoria di quello che è stato significa essere consapevoli dei meccanismi che portano a questo. Penso con terrore al fatto che tra una generazione, mio nipote potrà fare viaggi della memoria molto simili a quelli che faccio io. Però in altri luoghi, ai confini dell'Unione Europea o in Libia, e che magari arrivi da me a chiedermi non tanto perché non fossi stato una vittima ma cosa feci per non essere carnefice.

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Massimo Mollica So., 17.04.2022 - 18:05

In merito al fatto in sè credo che il PD nazionale si sia ravveduto e abbia compreso l'errore.
Detto questo, tali "commemorazioni", al giorno d'oggi, trovano il tempo che trovano. Tutto è annacquato dal rumore assordante dei social e nei media troviamo la voce di persone alla Orsini che dovrebbero rappresentrare la libertà e invece sono solo mediocrità.
Il vero tema di oggi è se dal 24 febbraio il mondo è cambiato e come. E questo cosa significa per me, per la mia terra, per quel mondo occidentale che ci rappresenta,nel bene e nel male. (in Salto forse se ne parlerà fra 10 anni, forse)
Perché la libertà di cui ho goduto, che è il frutto del sacrificio della vita di molti, mi fa ben comprendere quello che stra giustamente afferma l'intervistato alla fine. Che di fatto, da appartenenti al primo mondo (e qui in questa terra appartenente a una sorta di privè ancora più privilegiato), siamo stati carnefici in molti aspetti. E non solo nel negare (e facendolo pure con cattiveria) la dignità a chi ha provato a venire qui, ma anche stra fregandocene del suo diritto a rimanere nel luogo in cui è nato. Nel non capire, inoltre, che abbiamo lasciato a un pazzo dittatore fare i suoi porci comodi (Cecenia, Siria, etc.) e nonostante questo ci siamo legati a lui per interessi economici in campo energetico.
Sulla carta siamo coloro che propugnano maggiormente i diritti umani ma sotto sotto c'è del marcio.

So., 17.04.2022 - 18:05 Permalink
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△rtim post Mo., 18.04.2022 - 14:49

Kriminelle Gewalt damals, wie heute: Da kann es kein Negieren, Relativieren, geschweige denn, ein Legitimieren, auch nicht durch die Einführung eines weiteren italischen Ehrentages am 26.01., geben. Da hat Francesco Filippi völlig recht. Dem offiziellen Italien geht es offenbar anscheinend nicht darum, sich da selbst (endlich) ehrlich zu machen. Im Gegenteil.
Ein weiterer hochoffizieller Tag also der Festigung des staatlich verordneten Geschichtsnegationismus und Revisionismus in Italienund damit auch in Südtirol, das ja in seiner realen Selbstverwaltung bekanntermaßen nicht mal selbstständig eine Flix-Bushaltestelle innerhalb Bozens ohne vorherige Genehmigung aus Rom verlegen kann.
Ein reflektierter und kritischer Umgang mit Geschichte sieht jedenfalls anders aus.
Sehr selbstoffenbarend, was auch Unterberger hier von sich gab/gibt und es dann nicht mal für Stimmenthaltung reichte. Wie das?
Nur Mangel an Mut zum aufrechten Gang?
Ob selbstverschuldete Engführungen, so meint sie sich offenbar sogar rechtfertigen zu dürfen oder aus Interesse an der Nominierung für eine röm. Position: Im Zeitalter der Gleichzeitigkeiten hat es nun für sie für einen weiteren Posten gereicht. Unbedeutend, ob nun verdient oder nur bestraft, eine solche röm. Ernennung unter solchen Annahmen auch nur zu erwägen anzunehmen.
Denn die Opfer krimineller Gewalt, egal, wann und durch wen sie Opfer wurden, sie haben/hätten es immerhin verdient, eine glaubhafte und vertrauenswürdige Interessensvertretung zu haben.
Besonders in den Institutionen der Politik.
Vgl. auch:
https://www.salto.bz/it/article/08042022/elogio-allinvasore

Mo., 18.04.2022 - 14:49 Permalink
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Martin Piger So., 01.05.2022 - 21:26

Cara signora Brunelli,
sarebbe interessante sentire dal signor Filippi, che cosa intende quando dice che il corpo degli Alpini nella Guerra Bianca combatteva non in quanto aggressore ma in quanto aggredito.
Fino adesso (erroneamente?) credevo che anche in questa guerra fosse vero il contrario.

So., 01.05.2022 - 21:26 Permalink