Kultur | premio nobel

Viva Bob Dylan

Chi se ne frega se Alessandro Baricco si è permesso di dire che Bob Dylan non c'entra con la letteratura: riflessioni di un dylaniato.
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Foto: salto

I più se lo aspettavano ormai quasi vent'anni fa, tanto di quel tempo che ormai probabilmente avevano anche smesso di aspettarselo, e invece, pur non dipendendo direttamente da lui, Bob Dylan è riuscito ancora una volta a stupire, venendo insignito del Premio Nobel per la letteratura 2016, mica paglia!
Un premio Nobel non è certo una cosa su cui scherzare, eppure è la prima tentazione che viene, così nel giorno dell'assegnazione del Premio, essendo venuto a mancare Dario Fo, uno dei commenti che ho letto più spesso, nei tamtam telematici via SMS o Whatsapp, è stato “Morto un Nobel se ne fa un altro”.
Certamente molto più divertente il tweet che annunciava che dopo il Nobel a Dylan per la letteratura era stato premiato anche Keith Richards col Nobel per la chimica!

“Certamente molto più divertente il tweet che annunciava che dopo il Nobel a Dylan per la letteratura era stato premiato anche Keith Richards col Nobel per la chimica!”

Al di là delle battute – belle o brutte che siano – per ogni dylaniato che si rispetti, e non solo per i dylaniati, la notizia è di quelle davvero belle, perché – diciamolo – le canzoni di Bob Dylan, almeno una volta le abbiamo ascoltate tutti e se a qualcuno può non piacere il suo modo di cantare non è detto che per partito preso non debbano piacere anche le canzoni.
E a fare la differenza, nelle canzoni dell'ex ragazzotto di Duluth, sono state proprio le parole.
La musica rock, la musica pop contemporanea o semplicemente la musica americana (questa la definizione formulata dagli accademici del Nobel), da un certo momento in poi hanno cercato di avere dei contenuti che andassero al di là della musica: se non ci fosse stato Dylan probabilmente quei contenuti non sarebbero mai arrivati, o comunque sarebbero giunti molto dopo: non è un caso che all'epoca della svolta elettrica del novello Nobel John Lennon abbia dichiarato alla stampa che «Dylan mostra la via da seguire» o, ancor più esplicitamente, citando il discorso di Bruce Springsteen in occasione dell'ammissione di Dylan alla Rock'n'Roll Hall Of Fame, se Elvis ha liberato i nostri corpi, Bob Dylan ha liberato le nostre menti.

Poco importa se adesso i suoi concerti sono l'ombra di quelli di quindici anni fa o addirittura di quelli del 1966 e del 1975 (per il vostro cronista i migliori), e ancor meno importa se i suoi ultimi dischi contengono dei rifacimenti poco interessanti di canzoni di Frank Sinatra: Dylan è così da sempre, non si è mai fatto catalogare, incanalare, se ne è sempre fregato, o ha dato l’impressione di fregarsene, dei giudizi andando avanti a modo suo, e già questo è un fattore premiante.
Per quanto mi riguarda, ho smesso di comprare i suoi dischi da quando canta Sinatra, e credo che questi ultimi dischi li comprino solo i collezionisti e coloro che si fanno abbindolare da critici incompetenti che ne scrivono bene perché ormai l'imperativo è che di Dylan si può parlare bene e basta.
Oggi però è giusto sì parlarne bene, ma non abusarne, perché quando accadono eventi del genere la tendenza di massa è che tutti diventano esperti dell'argomento del giorno, avete mai notato ad esempio come tutti diventino commissari tecnici quando ci sono i mondiali di calcio, o skipper navigati quando si tiene la Coppa America?

“Quando accadono eventi del genere la tendenza di massa è che tutti diventano esperti dell'argomento del giorno, avete mai notato ad esempio come tutti diventino commissari tecnici quando ci sono i mondiali di calcio, o skipper navigati quando si tiene la Coppa America?”

E se a Dylan possiamo imputare di avere avuto di tanto in tanto dei cali d'ispirazione (e chi non ne ha?), non possiamo negare che a più riprese le sue canzoni sono tornate ad essere penetranti sia a livello musicale che testuale, pensiamo ai suoi eclatanti ritorni periodici con dischi come Blood On The Tracks, Infidels, Time Out of Mind o il più recente Tempest: con Bob Dylan può cambiare la voce, possono cambiare i suoni, ma a rimanere è, e sarà sempre, una grande scrittura, ogni qualvolta avrà qualcosa da dire. Non solo in musica per altro, se la sua opera prima, Tarantola (edita da Mondadori nei primi anni settanta) sembra un pallido e indecifrabile tentativo di emulare i poeti della beat generation, Chronicles volume 1, un personale approccio al genere autobiografico, risulta fin dalle prime righe una prosa letteraria d'alto livello.
E chi se ne frega se Alessandro Baricco si è permesso di dire che Bob Dylan non c'entra con la letteratura: per quanto mi riguarda Baricco è uno che scrive molto bene ma non ha storie da raccontare, ergo il suo giudizio non ha valore.
Da amante di Dylan di lungo corso non posso che gioire, gioire e ancora gioire, sperando che l’assegnazione di questo Nobel 2016 possa incuriosire altre persone e portarle ad apprezzare questo cavallo libero e selvaggio che alla bella età di settantacinque anni riesce a non farsi imprigionare, e che queste persone possano unirsi a me gridando forte in coro: VIVA BOB DYLAN!

 

Paolo Crazy Carnevale, bolzanino, classe 1962. Da anni si è trasferito dalla torbida Bolzano nella più vivibile e fantasiosa Bozen Town, confinante con l’Arizona di Tex Willer e la disneyana Paperopoli. Ha pubblicato i suoi primi racconti sulla rivista Sturzflüge, che ha visto anche il battesimo del suo personaggio più noto, il contorto e cinico poliziotto Manni Franzensfeste, nel 1987. Ha pubblicato sette volumi, tre dei quali dedicati al suddetto detective privato. Ha ricevuto segnalazioni e premi in numerosi concorsi letterari, tra cui il primo posto che gli ha fruttato una pubblicazione con la Sperling & Kupfer nel 2001. Scrive di musica, ma non solo, su periodici locali e fanzine nazionali.