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The Great White Wonder

Nel 1967 Bob Dylan e The Band si ritirano per qualche session nelle vicinanze di Woodstock. Andrea Brillo ne ha scritto un libro. L'intervista sul “caso“ Basement Tapes.
“Con Dylan non ci si può fermare alla superficie, va documentato e studiato a fondo, più scavi e più ne scopri.“: Andrea Brillo su Bob Dylan che continua a suonare dal vivo e pubblicare album.
“Con Dylan non ci si può fermare alla superficie, va documentato e studiato a fondo, più scavi e più ne scopri.“ Andrea Brillo su Bob Dylan che continua a suonare dal vivo e pubblicare album. Foto: Raph_PH (CC-BY-2.0)
 

A prima vista appare come un libro di nicchia ma, pur rigorosamente vincolato all’evidenza del materiale sonoro di cui tratta, Basement Tales del bolzanino Andrea Brillo [Basement Tales- Bob Dylan The Basement Tapes On Disc (1968-2014) – ISBN-13‏: ‎979-12-2148304-8, € 24, lingua inglese] insiste su un momento essenziale dell’esperienza artistica di Bob Dylan, utile a capirne l’evoluzione successiva fino al recente Shadow Kingdom. Siamo in piena Summer of Love, anno 1967, quando il musicista ormai ritiratosi dalle scene al culmine della fama per un (presunto?) incidente in moto elegge a proprio laboratorio d’idee lo scantinato di Big Pink, la “grande casa rosa” di West Saugerties poco fuori Woodstock, affittata da alcuni membri del complesso The Hawks che lo aveva accompagnato nel suo ultimo tour mondiale e che presto avrebbe mutato il proprio nome in The Band.

Il vasto materiale registrato alla buona in quelle sessioni sarà pubblicato dalla CBS in una ridotta selezione appena nel 1975 e poi in forma completa nel 2014, ma il primo tentativo di assemblaggio delle canzoni operato già durante le prove dall’addetto al tape recorder, il tastierista del gruppo Garth Hudson, darà inopinatamente vita al fenomeno dei dischi-pirata, meglio conosciuti come bootleg, che presto avrebbe riguardato da vicino tutti i grandi del rock. Great White Wonder era il titolo della prima pubblicazione illegale della storia, subito piratata a sua volta, senza contare le innumerevoli altre uscite legate a quelle registrazioni (Little White Wonder, Troubled Troubador, Daddy Rolling Stone, ecc. ), tutte ampiamente documentate anche in forma fotografica dall’autore nel suo saggio e segno evidente dell’interesse che muoveva quel tipo di mercato. Sceso dal carrozzone del rock, i cui protagonisti rivaleggiano per diventare “the new thing in town”, Dylan si rivolge invece musicalmente alla tradizione dell’America più profonda, al folk, al country, ai pionieri del rock’n’roll e, che sorpresa (Lo & Behold!), scopre addirittura in quel patrimonio di suoni e liriche la chiave popolare per l’accettazione della morte.

Più che a ciò che l’America era stata, lo sguardo a ritroso del cantautore era interessato a ciò che sarebbe potuta essere o diventare, a quella che il critico Greil Marcus chiamò efficacemente la “Repubblica invisibile”: il futuro doveva dipendere dal passato e aprendosi a esso lo avrebbe tenuto vivo. La copertina del primo doppio ufficiale (“Pensavo che le canzoni le avessero già tutti” – fu il commento di Dylan alla tardiva decisione della Columbia di pubblicarlo…), con le foto di Reid Miles scattate nel 1975 a Los Angeles nello scantinato della YMCA in un’ambientazione che rimanda volutamente al disco Underground di Thelonious Monk, mette in scena buona parte dell’universo poetico e compositivo dylaniano dell’ultimo decennio, con il menestrello sull’orlo di un altro abisso di vita anche se di segno opposto a quello di metà Sessanta ma che invariabilmente lo riporterà alle sonorità della tradizione dopo la sbornia da “miglior gruppo rock del mondo” – Rolling Stone dixit – accumulata l’anno prima ancora una volta in tour con The Band.

Oltre ai membri del gruppo un po’ invecchiati, negli scatti compaiono la “big dumb blonde” in guisa di suora di Million Dollar Bash, la crudele Mrs. Henry, il nano Angelo Rossitto nei panni di Tiny Montgomery (le edizioni musicali fondate da Albert Grossman e Dylan si chiamavano Dwarf Music…), l’eschimese di The Mighty Quinn, l’odalisca, la ballerina, il mangiatore di spade, il forzuto, il cane. Compare tra i tanti anche Ed Anderson, qui paludato da reginetta di bellezza ma all’epoca sound engineer di The Band, gruppo fondamentale per la storia della musica americana che proprio dalle sessioni del 1967 qui esaminate e dal credo artistico che celavano aveva tratto la sua identità, mettendo la propria rappresentazione pittorica dipinta da Dylan stesso sulla copertina del disco d’esordio, non a caso intitolato a quell’esperienza Music from Big Pink.

 
Indagine approfondita sulla session di Bob Dylan del 1967: Il libro “Basement Tales” di Andrea Brillo.
Indagine approfondita sulla session di Bob Dylan del 1967: Il libro “Basement Tales” di Andrea Brillo. Grafica: Andrea Brillo
 

Daniele Barina: “Bootleg Series #11, The Basement Tapes [Complete]”, comporta qualche novità per un collezionista come te che già disponeva di quelle canzoni su vari supporti illegali?

Andrea Brillo: Già con la prima uscita del 1975 la CBS aveva pensato di aver chiuso l’argomento, di aver restituito il maltolto, comprensivo di locandine e pubblicità d’epoca, ma non era così come ha confermato la pubblicazione del box il cui carattere di novità sta nel saper restituire il senso di approssimazione, di cosa fatta per caso, anche se sappiamo che Dylan non fa nulla per caso essendo tutto riconducibile a una strategia di fondo. C’era comunque molta sperimentazione su nuovi temi musicali perché l’artista cercava di allontanarsi dal suo stile immediatamente precedente. 

Il cerchio si è dunque davvero chiuso?

Da marzo a ottobre del 1967, non sappiamo nemmeno bene quante ne esistano, con quale continuità e con quali modalità siano avvenute, Dylan ha deciso di cimentarsi in queste session. So per certo, in quanto contattato per fornire eventualmente del materiale utile, che ci sono persone che si stanno occupando di riordinare l’enorme mole di canzoni per dare una chiave di lettura diversa a quei nastri, cercando un filo logico rispettoso anche delle possibili scansioni temporali della loro incisione. Non so se poi la cosa si realizzerà ma ho l’impressione che Bootleg Series #11 non sarà davvero l’atto finale della vicenda. 

Si tratta a mio avviso di uno dei più bei pezzi di Dylan, allo stesso livello di un Visions of Johanna o di Sad Eyed Lady of the Lowlands, composizioni citate decenni dopo anche nella motivazione del Nobel per la letteratura assegnatogli.

Perché scriverci un libro?

Ho fatto il libro perché ho voglia di approfondire le cose. Con Dylan non ci si può fermare alla superficie, va documentato e studiato a fondo, più scavi e più ne scopri. Un aneddoto ci dice molto del clima da lavori in corso che si doveva respirare alle session e che traspare in modo chiaro dalle registrazioni. Garth Hudson un giorno vide arrivare Dylan con dei fogli arrotolati sotto il braccio e pensò subito si trattasse di qualcosa d’importante da cantare, così riuscì ad accendere il registratore perdendo solo pochi secondi della canzone che l’altro aveva rapidamente iniziato a eseguire: quel pezzo, appena accennato con la chitarra e dalle liriche ancora incerte, cui si aggiungono guardinghi uno alla volta Hudson, Manuel, Danko e infine Robertson, è I’m Not There. Si tratta a mio avviso di uno dei più bei pezzi di Dylan che sarebbe tranquillamente potuto stare su Blonde on Blonde, allo stesso livello di un Visions of Johanna o di Sad Eyed Lady of the Lowlands, composizioni citate decenni dopo anche nella motivazione del Nobel per la letteratura assegnatogli. Eppure Dylan questa cosa non l’ha più ripresa, considerando quel periodo solo di sperimentazione per buttare giù nuove idee: una bella versione di I’m Not There l’hanno fatta i Sonic Youth...

 
Nel 1975 finalmente la prima edizione ufficiale:  Comlumbia Records pubblica “Basement Tapes“ come album doppio.
Nel 1975 finalmente la prima edizione ufficiale: Columbia Records pubblica “The Basement Tapes“ come album doppio. Artwork: Columbia Records
 

Ok, ma viste le eccellenti riuscite di alcune canzoni, per quali reali motivi i Basement Tapes non furono pubblicati subito magari solo come una serie di 45 giri?

Dylan aveva deciso dopo il tour del 1966 di ritirarsi, lo fa da personaggio terzo nel mondo per importanza dopo Kennedy e Castro, stando alla rivista Esquire, da erede di Kerouac e della beat generation secondo il New York Times. Uno standing del genere ha aspetti positivi ma anche negativi, con un Dylan ridotto al lumicino dopo il tour del 1966 che aveva un gran bisogno di staccare, per dedicarsi alla famiglia e non certo per programmare una nuova serie di concerti, ecco la ragione del suo spostamento da New York a Woodstock. I Basement Tapes non furono pubblicati essenzialmente per due motivi: il primo è che per Dylan si trattava di composizioni destinate ad altri artisti perché ne traessero delle cover, il secondo è perché le canzoni erano ancora troppo vicine a quelle della trilogia elettrica Bringing it All Back Home - Highway 61 - Blonde on Blonde. Basti pensare a brani come These Wheels on Fire, I Shall be Released o Tears of Rage, ancora tanto legati al “vecchio” Dylan, quando lui è sempre stato uno dalla rapida evoluzione artistica e che ha sempre anticipato le tendenze, spesso capito solo più tardi dal pubblico nei suoi cambiamenti. Aveva in testa qualcosa di diverso che alla fine di quell’anno porterà a John Wesley Harding, poi a Nashville Skyline. A fronte di un mondo che ascoltava Hendrix, Beatles, Beach Boys, lui se ne usciva insomma con il suono della tradizione americana, nel primo di questi due dischi che a me piace molto con parabole che hanno l’effetto di autentici pugni nello stomaco. Oggigiorno ne prenderemmo semplicemente atto, ma nel contesto dell’epoca e per ciò che Dylan rappresentava allora, la mossa fu dirompente.

I suoni delle canzoni sono pensati alla maniera di Hank Williams per mancanza della batteria…

Levon Helm aveva deciso di abbandonare il gruppo, già non aveva partecipato alle date europee del tour del  1966, per lavorare sulla piattaforma petrolifera di suo fratello…

… i testi dada, le canzoni nate da un processo d’improvvisazione simile a quello dei jazzisti che devono intuire quello che sta facendo il leader o il solista del momento senza sapere bene dove si stanno avventurando, è in tal senso – come scrive il dylanologo Alessandro Carrera nella bella prefazione al volume – che possiamo considerare i B.T. come “nastri dell’inconscio”?

Assolutamente sì, sia dal punto di vista musicale, sia delle liriche, con le canzoni che risentono moltissimo della Band, tanto che l’Ann Arbour Sun parlandone le definiva un disco di The Band con Bob Dylan. La permeabilità alle influenze di quest’ultimo è ciò che gli ha consentito, non solo nei suoni, di aprirci gli occhi su quello che con la musica si poteva fare. Partito occupandosi di temi rurali nei primi Sessanta, in tre anni ha fatto sei dischi che sono altrettante pietre miliari del panorama musicale mondiale e poi c’è questo meraviglioso cambio di tematiche e sonorità, in un periodo particolare del suo processo artistico che lo aiuta a costruire le canzoni in un altro modo, più in là evidente nei Planet Waves o in Blood on the Tracks.

In barba al romanticismo del Robin Hood che restituisce al popolo ciò che gli è stato sottratto, durato giusto lo spazio di un mattino: era Great White Wonder, il primo bootleg della storia del rock.

Un demo tape delle sessioni di Big Pink fatto da Garth Hudson nel 1967 sarebbe stato l’involontario antefatto della comparsa un paio d’anni dopo dei dischi-pirata nel mercato del rock: chi ci fu dietro?

I bootleg sono nati da due hippie californiani (N.d.R.: Ken e Dub), che erano fanatici di Dylan, uno di quello folk, l’altro di quello elettrico. Appena uscito John Wesley Harding che la massa dei seguaci non sa bene come collocare, nel 1969 c’è una forte spinta perché si pubblichino i nastri incisi nella Grande Casa Rosa e in aprile Dylan esce con un altro disco country che lo vede addirittura al fianco del reazionario Johnny Cash, a significare l’abbandono ormai definitivo dell’impegno. Nel corto circuito generato dalla pubblicazione di dischi del genere e dalla curiosità di ciò che invece non era stato stampato, i due soggetti citati producendosi da soli stamparono nel giugno di quell’anno un disco totalmente illegale, senza l’autorizzazione della casa discografica e dell’artista, che diede il via a un mercato alternativo subito divenuto speculativo, in barba al romanticismo del Robin Hood che restituisce al popolo ciò che gli è stato sottratto, durato giusto lo spazio di un mattino: era Great White Wonder, il primo bootleg della storia del rock. Il disco sarà piratato a sua volta già al giro di un paio di settimane, tanto che io ne avrò una quarantina di versioni perché, oltre alla mancanza dei permessi, ai bootleg manca anche la distribuzione, dunque chi li vuole è disposto a pagarli una certa cifra e ciò spinge più d’uno a produrne. 

 

Info:

Bootleg Series #11, The Basement Tapes [Complete]: https://www.bobdylan.com/albums/bootleg-series-vol-11-basement-tapes-raw/
Bob Dylan: https://www.bobdylan.com

 
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“Già con la prima uscita del 1975 la CBS aveva pensato di aver chiuso l’argomento, ma non era così“: Nel 2014 è uscita la versione “complete” dei “Basement Tapes“, ma anche con questa edizione la fine non è raggiunta. Artwork: CBS