Gesellschaft | Scuola

Inclusione: fatti oltre gli slogan

Perché il Tar del Lazio ha bocciato il nuovo PEI? Come si fa una scuola più equa? Parla Heidrun Demo, docente dell’unibz che in questi giorni ospita un convegno a tema.
Hinweis: Dies ist ein Partner-Artikel und spiegelt nicht notwendigerweise die Meinung der SALTO-Redaktion wider.
Scuola
Foto: Unsplash

Una scuola inclusiva: più facile a dirsi che a farsi. Caso esemplare quello degli studenti con disabilità i quali, nella lunga fase del lockdown che imponeva l’insegnamento a distanza, sono stati fra coloro che hanno sofferto di più un certo tipo di pratiche didattiche. Non che con l’inizio del nuovo anno scolastico e il ritorno in classe “a regime” i guai siano finiti.

Molto rumore si è fatto sul nuovo PEI (Piano Educativo Individualizzato), bocciato il 14 settembre 2021 dal Tar del Lazio con sentenza n. 9795, che ha dichiarato l’annullamento del Decreto interministeriale n.182/2020 approvato il 29 dicembre scorso e di tutti i suoi allegati per “illegittimità”.

Tale decreto, insieme al nuovo modello di PEI, ha avuto il merito di spingere le scuole ad attivare la progettualità necessaria per mettere in pratica alcune novità legislative introdotte già alcuni anni prima con il decreto 66/2017, come spiega Heidrun Demo, professoressa di Pedagogia e didattica dell’inclusione all’unibz.

“In sostanza - avverte la docente - i processi culturali che ha attivato non devono essere ora fermati dalla sentenza del Tar che lo ha annullato perché le loro radici sono nel decreto precedente che continua a restare in vigore”.

 

Il nuovo PEI

In cosa consiste questo modello? Diverse sono le innovazioni che contiene, due quelle particolarmente rilevanti secondo Demo: “Dalla nuova proposta è chiaro che il modo in cui la persona con disabilità impara e partecipa alle attività della scuola è visto come il risultato dell’interazione fra le abilità connesse alle sue caratteristiche individuali e il modo in cui è organizzata la classe o la scuola, che può facilitare o invece barrierare i processi. Ecco che allora, per fare un buon Piano Educativo Individualizzato, è necessario - prosegue la docente dell’Università di Bolzano - pensare a ciò che l’alunno deve imparare, ma anche a come si deve modificare il contesto della classe in modo che non presenti ostacoli. In questo senso, il lavoro sui PEI può attivare una riflessione più generale su quanto le metodologie e i materiali didattici siano inclusivi”.

Il secondo aspetto evidenziato è la centralità che viene riconosciuta alla ‘voce’ delle alunne e degli alunni. “Nelle nuove indicazioni legislative, infatti, è chiaro che il PEI deve tenere conto dei desideri e delle inclinazioni dell’alunno con disabilità, così come espressi dal bambino o dal ragazzo stesso. Pensare alla progettazione come qualcosa che avviene in un dialogo fra adulti e bambini o ragazzi è un’idea importantissima sia per uno strumento di progettazione individuale dedicato agli alunni con disabilità che in senso più generale per la classe tutta”.

 

Le criticità

Sebbene il nuovo PEI e più in generale il decreto 182/2020 a cui il nuovo modello del Piano è stato allegato avesse, attesta Demo, avviato molti processi positivi per lo sviluppo dell’inclusione, non mancano anche alcuni aspetti critici, gli stessi citati nel ricorso portato avanti da un gruppo di associazioni organizzate nel Comitato #NoEsonero e su cui si è espresso l’organo della giustizia amministrativa del Lazio.

Nel mirino, fra gli altri, alcuni elementi di carattere più giuridico, ma anche altri più pedagogici. “La questione più spinosa riguarda la possibilità di esonero degli alunni con disabilità da alcune materie previste nel curricolo della scuola. Secondo queste associazioni l’esonero aprirebbe la strada a forme di esclusione. Condivido con loro la convinta opposizione ad ogni forma di esclusione a scuola - riferisce la docente -. E, certo, se l’esonero è visto come momento in cui tutta la classe lavora insieme e solo l’alunno con disabilità fa qualcosa di completamente diverso, magari perfino in un’aula diversa e solo con l’insegnante di sostegno, allora i rischi di esclusione sono molto alti. Credo, però, che l’inclusione scolastica debba passare da una maggiore flessibilità della proposta formativa per tutti e che questo possa passare anche attraverso al riconoscimento che non tutti i traguardi siano significativi per tutti gli alunni”. E ancora: “Penso che una scuola inclusiva dovrebbe permettere che alunne ed alunni coltivino le loro inclinazioni e preferenze e dovrebbe quindi prevedere che i compagni di classe possano fare cose anche molto diverse in alcuni momenti per poi ritrovarsi su progetti comuni in altri. Mi piace pensare che le migliori esperienze di integrazione di alunni con disabilità possano indicare una via in questo senso”.

Una scuola inclusiva richiede un forte ripensamento del modo in cui si insegna

Il convegno

Di scuola più equa e ricerca di nuovi orizzonti si sta discutendo proprio in questi giorni al convegno onlineDidattica e inclusione scolastica - Inklusion Im Bildungsbereich” curato dal Centro di Competenza sull’Inclusione Scolastica di unibz che si chiuderà il prossimo 29 ottobre. Per gli organizzatori - fra i quali figura la stessa professoressa Demo - “una scuola inclusiva richiede un forte ripensamento del modo in cui si insegna. I dati di ricerca ci raccontano, purtroppo, che in Italia oltre il 70% del tempo scuola è organizzato in modo frontale: un insegnante che dialoga contemporaneamente e allo stesso modo con tutto il gruppo classe. Ma tutte le più attuali teorie sull’apprendimento dicono con chiarezza che ognuno ha un proprio unico modo di apprendere - chiosa la docente universitaria -. Ne consegue che è importantissimo pensare ad ambienti di apprendimento che permettano ad alunne ed alunni di seguire percorsi di apprendimento plurali, come succede per esempio nel contesto di un laboratorio, dove tutti sono impegnati su una materia simile, ma facendo cose differenti e supervisionati da un ‘maestro’ che dia feedback e possa offrire supporto quando necessario. In un contesto così c’è posto per modi diversi di apprendersi, ma anche per talenti e difficoltà differenti”.

Sul piano delle idee nell’ambito del convegno ci si confronterà, ad esempio, sul gioco come strumento da integrare nella didattica per promuovere occasioni di apprendimento motivante e significativo. Oppure, per quel che riguarda i più grandi, sarà interessante pensare - conclude Demo - “a come attività di orientamento possano sostenere una riflessione da parte di ragazze e ragazzi, con o senza disabilità, dei proprio desideri, talenti, sogni nell’ottica di pensarsi adulti e fare scelte che possano ‘dare gambe’ ai propri progetti”.