Kultur | La memoria selettiva

Italiani brava gente?

Come nasce lo stereotipo dell'italiano buono? Perché, per affermarsi, ha dovuto essere modellato su quello, contrapposto, del tedesco cattivo? E quali conseguenze ha questa dicotomia nella costruzione della nostra identità storica e culturale? L'ha spiegato, ieri a Bolzano, lo storico Filippo Focardi.

Ieri (24 febbraio) è stato presentato nella Biblioteca universitaria di Bolzano un volume molto importante: «Il cattivo tedesco e il bravo italiano» (Laterza), di Filippo Focardi, docente di storia presso l'Università di Padova.

Ricordate una delle prime scene del film «Mediterraneo» di Gabriele Salvatores? Un drappello di soldati italiani sbarca su un'isola greca apparentemente disabitata. Gli uomini avanzano con circospezione, quindi entrano in un paese svuotato. Dove sono finiti tutti? L'unica persona che incontrano è un prete, il Pope, che dà loro la spiegazione. Qui prima c'erano i tedeschi e hanno compiuto devastazioni di ogni genere. Vedendovi, gli abitanti hanno pensato che fossero tornati. E infatti, non appena si sparge la notizia che i soldati adesso sbarcati sono italiani, il paese torna a rianimarsi, la gente esce sulle strade, in un clima quasi di festa.

Si tratta della perfetta trascrizione di uno stereotipo – quello dell'italiano buono, tendenzialmente amico e solidale persino dei popoli che in guerra è costretto a fronteggiare, e del tedesco barbaro, spietato, per natura crudele e capace di crimini efferati – profondamente radicato nel sentire comune (degli italiani, ovviamente). Uno stereotipo comodissimo, mai indagato sistematicamente nella sua genesi e nelle sue conseguenze, almeno fino all'uscita del volume di Focardi.

Volume quindi importante, si diceva, e anzi persino necessario, perché la dicotomia in questione costituisce uno dei pregiudizi più resistenti e quasi inaggirabili posti alla base della nostra stessa identità nazionale. Di più: è possibile dire che senza l'elaborazione di una simile dicotomia, modellata, come ha spiegato l'autore, nel periodo compreso tra l'inizio della Seconda Guerra Mondiale e quello della stipulazione dei trattati di pace, sarebbe stato praticamente impossibile promuovere così speditamente il nostro Paese nel novero delle grandi democrazie occidentali. Salvo dimenticare una cosa: l'effetto narcotizzante che tale promozione ha prodotto sulla nostra memoria collettiva. Quasi un incantamento, reagendo al quale Focardi ha deciso di farci avvertire una benefica scossa.

E' urgente però mettere subito a fuoco l'aspetto centrale. L'intento di Focardi non è rovesciare il luogo comune denunciato, giungendo magari alla conclusione opposta, secondo la quale gli italiani sarebbero stati in realtà più cattivi dei tedeschi, o comunque cattivi allo stesso modo. Ciò che all'autore premeva è precisamente decostruire la logica stessa della comparazione – «il vizio del confronto», come s'intitola un suo precedente articolo –, causa inevitabile di un atteggiamento autoassolutorio e livellatrice di molte specificità. In particolare quelle che potrebbero rivelarsi utili non solo a fornire un quadro storico più oggettivo, ma a prevenire i rigurgiti di chiara impronta razzistica, o comunque di malcelata superiorità, che proprio tale rimozione continua in realtà ad alimentare.

Attraverso l'edificazione del mito dell'italiano buono (ritagliato su quello del tedesco cattivo), l'Italia repubblicana – sia di destra che di sinistra – ha potuto rimandare e alla fine impedire un proficuo dibattito sull'eredità, ancora latente e molto persistente, di fenomeni storici quali il colonialismo africano, la persecuzione degli ebrei o i massacri perpetrati dai nostri connazionali nei Balcani e in ex-Jugoslavia. Ma basti pensare anche solo al discorso pubblico locale, a lungo (e per certi versi tuttora) affezionato alla narrazione di un'occupazione sostanzialmente civilizzatrice da parte italiana del territorio sudtirolese – come continua a testimoniare la scritta apposta sul Monumento di Piazza Vittoria – per mostrarci tutto il bisogno di un'analisi autocritica. Ed è esattamente solo approfondendo con rigore il rovescio del pensiero più spontaneo, tendente a spostare continuamente l'oggetto della riflessione sulle responsabilità altrui, che noi possiamo sperare di riconoscere un giorno i nostri torti e a emendarli come si conviene.

Vasto programma, per il quale ci sarebbe bisogno dell'aiuto costante delle istituzioni e addirittura di una più ampia cornice – sicuramente post-nazionale – in modo da potersi affermare lentamente nella coscienza collettiva. Sono proprio appuntamenti come quello di Bolzano, che ha inaugurato l'attività divulgativa del Centro di Storia Regionale dell'Università di Bolzano, a metterci sulle tracce di una ricerca per molti versi ancora da compiere, ma che è davvero indispensabile tentare.

Gli storici Filippo Focardi e Andrea Di Michele