Centralismo
Foto: w
Politik | Avvenne domani

Palla al centro

Un vento centralista scuote le autonomie locali.

Perso nella tempesta pandemica che scuote dalle fondamenta le istituzioni politiche di mezzo mondo, quelle italiane comprese, rischia di passare quasi inosservato il venticello di rinnovato centralismo con il quale si punta a spazzar via, in parte o del tutto, regionalismo, federalismo, autonomie. Se le accuse contro la gestione inefficace troppo differenziata delle misure anti Covid da parte delle varie regioni sono arrivate a lambire anche un paese di solidissima tradizione federale come la Germania, si immagini come in Italia il processo sommario contro le autonomie stia marciando a pieno ritmo negli editoriali giornalistici e nelle riflessioni di coloro che si occupano delle possibili riforme istituzionali.

Non stiamo parlando, sia ben chiaro della semplice evocazione da parte del Premier Draghi della cosiddetta clausola di supremazia che dovrebbe ricondurre ad unità il confuso pasticcio dei criteri di vaccinazione da parte delle regioni, ma di un vero e proprio progetto di restaurazione del centralismo romano.

Un primo segno di questa tendenza, a ben vedere, è dato dalla scomparsa totale nel dibattito politico della questione riguardante l’ampliamento delle autonomie richiesto, in base ad un preciso iter costituzionale, da alcune regioni del centro-nord, due delle quali, Lombardia e Veneto, avevano ritenuto di dare maggior forza a questa istanza appoggiandola ai risultati di un referendum consultivo tra la popolazione che aveva raccolto maggioranze schiaccianti.

Per diversi mesi, dal 2017 in poi, la questione era stata apposta in termini sempre più ultimativi dalle regioni interessate e dal partito, la Lega, che in quelle regioni deteneva le quote di maggioranza e che di quel tema aveva fatto uno dei temi principali, assieme a quello della lotta anti-immigrati, della propria azione politica. La pressione era andata crescendo anche durante i mesi del primo governo Conte, quello nato sull’alleanza tra leghisti e 5Stelle e la questione era stata una tra quelle che avevano visto su fronti opposti i due partiti di governo. Poi, uscita la Lega dall’esecutivo, la questione delle autonomie maggiorate ad alcune regioni aveva cessato di sembrare un’urgenza indifferibile, per poi scomparire totalmente dal tavolo delle decisioni politiche con lo scoppio della pandemia. Non se ne trova traccia, in pratica, nemmeno nel programma dell’ultimo governo salito da poco in carica. A ricordare che la questione dell’autonomia da Roma era considerata vitale, ad esempio, per il popolo veneto, resta solo qualche sporadico accenno delle dichiarazioni politiche dei leghisti di quella regione e il malinconico conteggio con il quale il telegiornale di una delle emittenti private venete più fedeli alla linea del governatore Zaia segnala ogni sera quanti giorni sono ormai passati invano da quel fatidico voto di popolo. L’altra sera il malinconico conteggio era arrivato a 1220 giorni, ma è probabile che la cifra sia destinata ad aumentare di parecchio.

Non si parla, dunque, o si parla pochissimo del progetto di aumentare il carico di competenze autonomistiche alle regioni del centro-nord, ma si parla invece abbastanza della necessità di intervenire sul famoso Titolo V della Costituzione per rimediare, dicono commentatori e costituzionalisti, al pasticcio combinato esattamente vent’anni fa quando, sulla spinta della maggioranza di centro-sinistra, fu approvata e confermata con un referendum una riforma che ha ampliato notevolmente le competenze regionali. Era, nelle intenzioni di chi la volle e di chi la fece approvare, una risposta tesa a smontare le velleità indipendentiste che germogliavano vigorosamente, all’epoca, soprattutto nelle regioni del Nord e che trovavano ancora una volta nella Lega, a quel tempo ancora governata da Umberto Bossi, un esagitato megafono.

Ora su quella riforma e più in generale sul sistema delle autonomie regionali si appuntano le critiche di chi sostiene che con questo decentramento dei poteri il livello di efficienza del governo delle cose non è affatto aumentato e che anzi la continua conflittualità tra centro e periferia sia una delle cause principali che rendono il sistema Italia farraginoso. Non è solo una critica legata alla gestione dell’emergenza sanitaria che da un anno circa sconvolge il nostro paese, anche se va rilevato come dopo una prima fase di contenzioso, a tratti furibondo, tra i poteri centrali e le regioni, in quest’ultimo periodo si vada nettamente affermando la tendenza a centralizzare il più possibile le decisioni e le valutazioni, con una resistenza, da parte dei poteri locali, che pare affievolirsi di giorno in giorno.

La via altoatesina.

In questo quadro di risorgenti tendenze centralistiche l’Alto Adige deve muoversi in un momento particolarmente difficile. È chiaro che la Provincia potrà continuare anche in futuro a chiamarsi fuori, in linea di principio, dal dibattito sul regionalismo e sul decentramento a livello nazionale, invocando, come sempre è stato fatto anche in passato, la specialità assoluta di un’autonomia che trae la sua ragion d’essere da un accordo internazionale e il suo motivo di esistere nell’esigenza di tutela delle minoranze linguistiche. Sono punti fermi che pongono Bolzano in una situazione del tutto particolare rispetto alle altre regioni e financo alla vicina provincia di Trento che, con l’Alto Adige, condivide un assetto giuridico istituzionale ma che non può vantare le stesse forme di ancoraggio internazionale. È però altrettanto vero che, nel processo di ampliamento del regionalismo italiano si è ben inserita anche quella fase di allargamento sostanziale dell’autonomia altoatesina, diretta a realizzare la cosiddetta “Vollautonomie” che, piaccia o meno, in ultima analisi si allarga di molto rispetto al recinto originario delle norme volute e pensate per la tutela della minoranza. Nei decenni più recenti, infatti, la richiesta continua e reiterata di nuove competenze è stata basata, vista la difficoltà di un collegamento diretto con la salvaguardia delle minoranze e con il dettato dell’Accordo di Parigi, con il principio squisitamente politico secondo il quale Bolzano avrebbe meritato di ereditare dal centro sempre più poteri per il semplice fatto che era in grado di gestirli meglio, sia delle altre regioni che dello Stato centrale.

È un concetto ribadito continuamente come un “mantra” religioso soprattutto negli anni più recenti del governo di Luis Durnwalder, ma che non manca di essere esposto ancor oggi ogni volta che se ne presenti l’occasione. A contraddire, almeno in parte, questa tesi ci sono però i fatti. Le vicende politiche di questi ultimi anni e in particolare quelle di questo ultimo drammatico periodo hanno dimostrato come a volte questa ostentata superiorità soffra qualche contraddizione. Né sembra avere gli effetti d’un tempo il vezzo di soffocare le critiche alle cose che non vanno, etichettando quelle pronunciate o scritte in lingua tedesca come un tradimento dell’unità di popolo necessaria a proteggere la minoranza e quelle in lingua italiana come dettate dalla nostalgia dell’era Mastromattei. Solo per citare un esempio che affiora quasi ogni giorno dalle cronache, non c’è stato bisogno della pandemia per capire che il sistema sanitario altoatesino soffre di gravi carenze ad onta degli investimenti su di esso riversati nel corso del tempo.

Anche se si muove su un proprio binario, a volte parallelo a volte divergente da quello delle altre regioni la politica dell’autonomia che verrà praticata da Bolzano nei prossimi mesi non potrà quindi non tener conto, quindi, del mutato clima a livello nazionale. Sul tavolo, oltre all’elenco delle nuove competenze da strappare a Roma, questioni di non poco conto come quella, ormai irrisolta da tempo immemorabile, della concessione per l’Autobrennero. Una cartina di tornasole con la quale potrà essere misurato anche il rapporto con la vicina provincia di Trento che, ad onta di qualche dichiarazione al tempo stesso generica e rassicurante, sembra congelato in una reciproca indifferenza.

Tra meno di un anno cadrà il cinquantesimo anniversario dell’approvazione dello Statuto di autonomia ancora vigente. Ci saranno, come del tutto giusto, commemorazioni e celebrazioni. Non sarebbe male inserire nel processo di ricostruzione di quegli avvenimenti, dei quali pare a volte si sia smarrita la memoria, anche qualche riflessione sullo stato di salute di quelle istituzioni, sulla loro ragion d’essere in un mondo profondamente cambiato e non solo per la maledizione di un virus.

Bild
Profil für Benutzer Karl Gudauner
Karl Gudauner So., 28.03.2021 - 14:22

L'analisi coglie benissimo il problema di un crescente furore centralistico nei giornali nazionali, purtroppo sostenuto senza alcuna esitazione anche da quotidiani che su altri fronti dimostrano spirito critico rispetto a spinte reazionarie e restaurative nonché un'apertura mentale europeista. Richiamandosi unicamente alla "specialità" della garanzia internazionale della nostra autonomia i nostri rappresentanti politici rinunciano a mettere in campo tutti i meccanismi e gli argomenti legati al secondo pilastro della stessa, ovvero il decentramento del potere tra stato ed enti locali. E questo atteggiamento si specchia in un tanto inappropriato quanto fuorviante cambiamento della strategia con cui le regioni a statuto ordinario chiedono più competenze. Dopo le spinte federaliste della Lega di Bossi da qualche anno anche il governatore del Veneto Zaia chiede più "autonomia" rifacendosi all'elenco di competenze della provincia di Bolzano. Ma in sostanza le regioni a statuto ordinario devono puntare sul decentramento come chiave per ottenere un nuovo setting della distribuzione delle competenze tra stato e regioni. Nell'opinione pubblica a livello nazionale il termine autonomia suscita velleità separatiste, anche riconducibili alle lunghe controversie legate alla nostra autonomia, di volta in volta rilanciate strumentalmente in questa chiave dai partiti e dai media. Se si tornasse a parlare di decentramento sarebbe molto più facile impostare un confronto pacato e fruttifero e cogliere quello che è l'essenza della devolution: una redistribuzione delle competenze tra stato e regioni, superando le opacità e le criticità dell'assetto attuale, accompagnata da regole precise sulla collaborazione tra i vari livelli istituzionali. È proprio quest'ultimo aspetto essenziale, cioè la necessità di un rapporto di reciproca fiducia e di collaborazione leale e costruttiva tra stato e regioni ovvero, nel nostro caso, tra stato e provincia, che alcuni paladini della nostra autonomia superficialmente trascurano.

So., 28.03.2021 - 14:22 Permalink
Bild
Profil für Benutzer Massimo Mollica
Massimo Mollica Mo., 29.03.2021 - 09:09

La chiave, secondo me, è propiro dimostrare che l'autonomia è l'unica strada percorribile, anche per affrontare una pandemia. Perché di principio autonomia significa responsabilità. E ha poco a che fare con la storia alto atesina sudtirolese. Soprattutto dove poi il centralismo europeo ha fallito con i vaccini. Anche poerché l' Europa di fatto non esiste più, e noi facciamo finta che esista. E l'autonomia dev'essere provinciale perché ogni provincia ha la sua pecularietà. Lo stato centrale deve solo definire gli standard e coordinare. E chi sgarra paga multe.

Mo., 29.03.2021 - 09:09 Permalink