Gesellschaft | Festival Economia

La convivenza insegnata dalle piante

Il botanico Stefano Mancuso al Festival dell'Economia: "La tecnologia non risolve i problemi ambientali, va cambiato il paradigma e il modo in cui percepiamo il mondo".
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Foto: lw

Tutto esaurito, almeno virtualmente, per Stefano Mancuso, ospite al Festival dell’Economia. Direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale dell’Università di Firenze e autore di bestseller come "La Nazione delle Piante" lo scienziato ha dialogato ieri mattina, venerdì 25 settembre, con l’editore Giuseppe Laterza durante la seconda giornata del Festival, quest’anno intitolato “Ambiente e crescita”.

La fama di cui gode il botanico è derivata dal suo peculiare approccio di studio al mondo vegetale, alla continua ricerca di modelli e soluzioni volti a migliorare il rapporto tra l’Uomo e l’ambiente che lo circonda.

La prima analisi comparativa verte immediatamente sulla pandemia e l’importanza di quelle che in economia vengono definite le esternalità, ovvero l’effetto diretto di ogni nostra azione sul mondo che ci circonda che, per il botanico, si sono fatte particolarmente evidenti durante il lockdown: abbiamo capito che le nostre azioni avrebbero potuto prevenire o proliferare il contagio e si è agito di conseguenza. Tale lungimiranza - secondo Mancuso - va applicata anche in campo ambientale: “Ogni nostro comportamento ha ripercussioni immediate sul consumo di risorse, la produzione di CO2 e su tutto ciò che sta accadendo al pianeta. Questo ci porterà incontro a dei fenomeni di un’entità ben maggiore e ben più dilatati nel tempo rispetto quanto ha rappresentato la pandemia ma - sottolinea - non riusciamo a percepire un nesso di causalità tra ciò che combiniamo oggi e quello che sarà tra trent’anni. Dovremmo usare la stessa serietà che abbiamo mantenuto durante il lockdown per capire che la riconversione dei nostri comportamenti avrà effetti sul futuro”.

Altolà anche al feticcio degli economisti e dei fan del cosiddetto capitalismo verde in merito al potere salvifico della tecnologia: “Se non cambiamo i comportamenti, la tecnologia non è una soluzione. C’è una convinzione comune che dice che non dobbiamo preoccuparci dei parametri ambientali, come l’aumento delle temperature e la diminuzione delle risorse, perché la tecnologia riuscirà a trovare una soluzione. Questo è un pensiero primitivo - spiega Mancuso - è lo stesso che si è adottato dall’inizio della rivoluzione industriale: confidare nella tecnologia per aumentare l’efficienza del carbone e risolvere così le preoccupazioni in merito al suo possibile esaurimento. Il risultato? Un paradosso perché la materia prima diventava a buon mercato e i consumi finirono per aumentare”.

La precarizzazione della reperibilità delle risorse non riguarda più soltanto il carbone pertanto, ribadisce il botanico, diventa oggi come non mai necessario analizzare i problemi nel profondo e nella loro totalità: “Guardare al pianeta come una casa comune, non come un luogo di materie prime pronte ad essere sfruttate”.

 

 

Un cambio di paradigma che potrebbe venirci suggerito proprio dal mondo vegetale. Mancuso fa notare come l’organizzazione della società rifletta la nostra struttura anatomica: un cervello che governa e degli organi specializzati che eseguono. Un tipo di organizzazione molto fragile, perché è sufficiente compromettere uno degli organi per far decadere l’intero corpo.
Ma le piante no perchè ponendo al centro il valore di comunità “hanno diffuso sull’intero corpo ciò che gli animali hanno concentrato in pochi organi”. Un sistema organizzativo diffuso dunque che consente di affrontare e risolvere i problemi, che permette a una pianta di essere predata quasi nell’interezza garantendone comunque la sopravvivenza e perseguendo così l'unico vero obiettivo di una specie: la sua prosecuzione. “Un’altra credenza comune - afferma Mancuso - è che Darwin sostenesse la legge del più forte, un atteggiamento gladiatorio tra specie che rasenta l’assurdo biologico. L’essere umano si crede migliore, ma quest’idea non trova nessun riscontro in biologia. La nostra è una specie giovane, per essere considerati alla pari delle altre dovremmo sopravvivere altri quattro milioni di anni. Se ci estingueremo prima significa che tutto ciò che ci rendeva orgogliosi ha in realtà rappresentato uno svantaggio evolutivo. Gli animali utilizzano il movimento per allontanarsi dal problema e non risolvono alcunchè. Essi rappresentano solo lo 0.3% della vita sul pianeta - conclude - questo numero ci mostra la rilevanza degli essere viventi e ci fa capire che le piante sono un modello straordinario da cui prendere soluzioni”.