Gesellschaft | Potere e narrazione

Sull'uso politico della storia

Il «progetto egemoniale e di razzismo culturale del fascismo in Africa orientale» che ha «informato le politiche genocidali della Germania nazista nell’Est europeo» come esempio di teorizzazione della paternità del fascismo sul nazismo.
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Mostra autonomia, percorso espositivo di p. Magnago
Foto: immagine installazione pubblica elaborata da Luca Marcon
  • Lunedì 6 novembre 2023 al TreviLAB di via Marconi a Bolzano è stato presentato il libro «Camicie nere in Alto Adige» di Maurizio Ferrandi e Hannes Obermair per la casa editrice Edizioni alphabeta Verlag.
    Nel corso dell’incontro, condotto da Gabriele Di Luca, gli autori hanno risposto a diversi quesiti posti loro da parte del moderatore. Considerato che i punti oggetto delle domande sono comunque rinvenibili nell’articolo uscito in pari data sul portale salto.bz a firma congiunta Ferrandi e Obermair e intitolato come il libro «Camicie nere in Alto Adige», per esigenze di sintesi e soprattutto chiarezza appare opportuno riferirsi a quest’ultimo per la disamina di quanto ivi dichiarato. Nello specifico, relativamente al paragrafo che segue:

    Una originale rivisitazione degli studi sul fascismo è poi dovuta al paradigma postcoloniale che grazie agli studi di Mia Fuller e Roberta Pergher ha iniziato a riguardare anche l’Alto Adige. Entrambe le autrici, con un approccio antropologico, si concentrano sull'impatto fisico, economico e mentale che la dominazione italo-fascista ha avuto sulle minoranze sia all’interno della penisola sia nelle terre d’Africa occupate. Ne nasce un quadro assai interessante che vede nelle asimmetrie sistemiche in entrambi i casi un punto di raccordo delle politiche razziste del regime. Seppur questo assunto è stato recentemente avversato dalla scuola più tradizionale, esso risulta valido se messo in relazione con gli studi più avanzati dell’area angloamericana che hanno messo in evidenza come proprio il progetto egemoniale e di razzismo culturale del fascismo in Africa orientale abbia informato le politiche genocidali della Germania nazista nell’Est europeo. Anche il movimento anticoloniale si è recentemente occupato delle tracce razziste presenti a Bolzano.

    Come è immediatamente evidente al lettore, nel paragrafo si attribuisce alle ricercatrici citate l’identificazione di un «punto di raccordo delle politiche razziste del regime» attraverso il riconoscimento di «asimmetrie sistemiche in entrambi i casi» rilevate dall’analisi dell’impatto «fisico economico e mentale che la dominazione italo-fascista ha avuto sulle minoranze sia all’interno della penisola (leggi anche sudtirolesi, NdA) sia nelle terre d’Africa occupate»: ovvero, e sgomberando il campo da qualsiasi fraintendimento, sudtirolesi e neri africani da ricondurre nell’alveo di una visione razzista comune da parte del regime mussoliniano.
    In subordine ad una autenticità ed una fondatezza di quanto assegnato a Fuller e Pergher - le quali non risulta siano state direttamente interpellate - tutte da dimostrare, la tesi attribuita alle due ricercatrici verrebbe financo validata dalla messa in relazione con «studi più avanzati dell’area angloamericana» che avrebbero – il condizionale è d’obbligo - «messo in evidenza come proprio il progetto egemoniale e di razzismo culturale del fascismo in Africa orientale abbia informato le politiche genocidali della Germania nazista nell’Est europeo».
    Premesso che dall’esposizione non risulta suffragata alcuna concatenazione – ovvero, rapporto di causa ed effetto - possibile tra «il progetto egemoniale e di razzismo culturale del fascismo in Africa orientale» e «le politiche genocidali della Germania nazista nell’Est europeo», la falsità dell’enunciazione è invece subito dimostrabile tramite una semplice ricerca storica da effettuarsi proprio nello stesso continente oggetto dell’analisi delle politiche coloniali mussoliniane.
    Ad indicare la strada da seguire ci pensa Hannah Arendt, autrice dell'opera pubblicata nel 1951 e intitolata «Le origini del totalitarismo», citando quale premessa della Shoah l’evento chiave noto come «il genocidio del II Reich»: ovvero, lo sterminio di circa centomila esponenti delle tribù Herero e Nama, ribellatesi al dominio germanico del Kaiser Guglielmo II, avvenuto nella colonia africana oggi nota come Namibia tra il 1904 e il 1907.
    Nel 1985 il cosiddetto rapporto Whitaker delle Nazioni Unite ha formalmente riconosciuto l’opera di sterminio citata come il primo vero atto genocidario del ventesimo secolo, mentre per le caratteristiche dell’evento, lo stesso è stato ribattezzato dagli storici come «l’Auschwitz africana».
    Ma quale può essere il vero trait d’union tra due eventi geograficamente e temporalmente così distanti – il genocidio delle tribù degli Herero e dei Nama e la Shoah del popolo ebraico – oltre al fatto di essere stati commessi e condotti da rappresentanti dello stesso popolo germanico?
    E anche qui il contributo dell’opera di Arendt si rivela fondamentale. In entrambi i casi abbiamo la sperimentazione medica su cavie umane: sperimentazione che come evidenzia la filosofa autrice di "The Human Condition" (IT “Vita activa”), non può che passare attraverso il cosiddetto processo di “nientificazione” dell’individuo. I componenti delle tribù Herero e Nama rinchiusi nel campo di concentramento di Shark Island (in tedesco: Konzentrationslager auf der Haifischinsel vor Lüderitzbucht) sono oggetto, da parte di un equipe condotta dall’antropologo germanico Eugen Fischer – tra i cui futuri allievi si troverà Josef Mengele, successivamente noto come l’angelo della morte di Auschwitz – di esperimenti medici su esseri umani “nientificati”, o, come permette di capire Edmund Husserl attraverso le “Méditations cartésiennes” (IT "Meditazioni cartesiane"), individui i cui corpi vivi/Leib sono ridotti a corpi oggetto/Körper, esperimenti di fatto tesi a dimostrare la superiorità di una presunta razza ariana quasi trent’anni prima della presa del potere da parte di un Adolf Hitler che all’epoca non era ancora maggiorenne.
    Senza voler considerare – evidenza che sarà l’oggetto di uno specifico intervento sul tema - l’assoluta straordinarietà del cambio di paradigma nella lettura della storia che emerge dall’analisi degli eventi descritti – qui riportati comunque in estrema sintesi - laddove il nazismo non può più essere visto come un unicum ma, anche nel solco degli scritti di Hannah Arendt, George Mosse, Götz Aly, Daniel Goldhagen, Jan Kershaw e Bettina Stangneth solo per citare i più noti, una delle più probabili tra le possibili evoluzioni sociopolitiche della nazione germanica dopo la costituzione dell’impero germanico del 1871 e la sua frantumazione in esito alla Prima guerra mondiale, lo scopo di questo articolo è evidenziare un fenomeno che verrà chiarito dalla pluralità di risposte date alla domanda che segue.

    Perché un falso ora a tutti manifesto quale la correlazione tra il «progetto egemoniale e di razzismo culturale del fascismo in Africa orientale» e «le politiche genocidali della Germania nazista nell’Est europeo» può essere e viene propalato come vero e assodato da parte della pubblicistica locale?

    Il significato dell’evento in sé diviene pienamente comprensibile se ricondotto all’interno di un più ampio processo di manipolazione politica della storia locale di quota parte delle élites intellettuali della Gemeinschaft sudtirolese e di quelli che potrebbero essere definiti i suoi fiancheggiatori altoatesini e ha a che fare con la necessità di depotenziare la natura dell’adesione di detta comunità agli ideali e alle pratiche nazionalsocialisti dopo il superamento definitivo, ad opera degli storici e degli intellettuali non schierati, del paradigma cosiddetto vittimistico, ovvero dei sudtirolesi perseguitati da entrambi i regimi mussoliniano e hitleriano e, in quanto separati a titolo definitivo dalla madrepatria, aventi di conseguenza l’irrinunciabile diritto all’applicazione del cosiddetto principio del risarcimento perpetuo.
    Ed è proprio in questo senso che sono da valutare tutta una serie di interventi di natura “revisionistica” – qui ovviamente intesa nel suo significato deteriore – che vanno dall’irricevibile equiparazione nazismo-fascismo ad un presunto antisemitismo fascista ante litteram inteso quale creditore di una specie di cauzione ideologica nei confronti del nazismo fino a giungere a ciò che senza alcuna riserva si può definire una vera e propria aberrazione intellettuale quale quella rappresentata dal voler sostenere dandola per scontata una correlazione tra il «progetto egemoniale e di razzismo culturale del fascismo in Africa orientale» e «le politiche genocidali della Germania nazista nell’Est europeo».
    Se si vuole cercare una sorta di data simbolica dell’inizio di questo tanto scaltro quanto surrettizio processo di manipolazione, essa va identificata nell’intervento dichiarato di storicizzazione e depotenziamento del bassorilievo di Hans Piffrader sull’ex casa del fascio di Bolzano. Nel 2017, in esito ad un concorso di idee per la trasformazione della facciata del Palazzo degli Uffici finanziari, sul bassorilievo viene apposta in tre lingue – ladino, tedesco e italiano – una versione modificata della nota frase di Hannah Arendt:

    «Deguni ne à l dërt de ulghé /Niemand hat das Recht zu gehörchen/Nessuno ha il diritto di obbedire».

    Le motivazioni della scelta dichiarate dai vincitori del concorso sono che la frase citata «non rimanda unicamente ad un confronto con i diktat delle dittature e la “banalità del male”. Sollecita contemporaneamente una riflessione di grande rilevanza etica sul coraggio civile, come consapevolezza del cittadino alla difesa ed al rispetto delle regole democratiche del vivere comune».
    Ciò che invece nessuno rileva riguardo alla scelta effettuata è il collegamento tra due elementi non in discussione.
    Il primo, che la frase di Hannah Arendt origina durante una conversazione radiofonica con lo storico tedesco Joachim Fest, trasmessa dall'emittente Südwestfunk il 9 novembre 1964 ed è conseguenza di una specifica presa di posizione sul suo ruolo nella Shoah da parte del criminale nazista Adolf Eichmann nel corso del suo processo a Gerusalemme del 1961 al quale Arendt assiste.
    Il secondo, che la filosofa autrice de «Le origini del totalitarismo» ha sempre operato una distinzione sostanziale tra il regime fascista e quello nazista iscrivendo nella specifica categoria dei totalitarismi per le sue peculiari caratteristiche solo il secondo e rubricando il primo come autoritarismo.
    La lettura combinata dei due elementi citati è essenziale perché secondo il pensiero di Arendt è unicamente il concetto di obbedienza così come costitutivo del regime totalitario hitleriano che unitamente alla sua Weltanschauung fondata sul primato di una razza superiore (che per logica conseguenza presuppone sempre l’esistenza di una o più inferiori) da preservare a qualsiasi costo può potenzialmente portare e ha di fatto portato alla pratica della Shoah mentre non è possibile prevedere lo stesso risultato per il regime autoritario mussoliniano. Utilizzare la frase di Hanna Arendt per un, a questo punto presunto, unico scopo di storicizzazione e depotenziamento costituisce un’operazione il cui obiettivo non palesato e non rilevabile ad una lettura che non sia più che attenta è per i motivi sopra descritti anche il perseguimento di uno status per così dire di indifferenziazione della diade fascismo/nazismo, ovvero di omogeneizzazione strumentale delle rispettive singolarità.
    Sempre riguardo all’identificazione di eventi simbolo, il punto che si potrebbe invece definire di non ritorno è rappresentato da uno dei contenuti della mostra permanente sulla storia dell’autonomia dell’Alto Adige in piazza Magnago a Bolzano, dove, nell'ultima installazione del percorso espositivo è riportato il testo che segue (dall'immagine di apertura dell'articolo):

    «Nella storia sono solitamente gli uomini ad emergere, mentre le donne compaiono solo in secondo piano. Tuttavia, ci sono delle eccezioni: Viktoria Stadlmayer (grassetto NdA), ad esempio, svolse un ruolo fondamentale nelle trattative autonomistiche per conto del Governo regionale del Tirolo, mentre Waltraud Gebert Deeg, Andreina Emeri e Lidia Menapace furono determinanti per l'attuazione dell'autonomia. Il futuro sarà sempre più coniugato al femminile?»

    La vera eccezione a cui il testo non fa però alcun cenno è costituita dal fatto che delle quattro donne citate una vanta un passato significativo nel regime hitleriano.
    Divenuta membro del partito nazionalsocialista nel 1938 su sua stessa richiesta in qualità di “Alte Kämpferin” (“Vecchia combattente), nel 1941 Viktoria Stadlmayer consegue un dottorato di ricerca a Vienna sotto la guida del professor Heinrich von Srbit, pangermanista e attivo antisemita studioso di storia moderna che nel 1938 ha già salutato l’ “Anschluss” (l’annessione dell’Austria al III Reich) come «die Verwirklichung des tausendjährigen Traums der Deutschen» (“la realizzazione del sogno millenario dei tedeschi”) iscrivendosi contestualmente al partito nazista con la tessera n. 6.104.788. In seguito all’occupazione della provincia di Bolzano da parte dell’esercito hitleriano conseguente all’armistizio dell’Italia del 8 settembre 1943, con la creazione della cosiddetta “Alpenvorland” ("Zona d’operazione delle Prealpi”) Stadlmayer si trasferisce da Innsbruck a Bolzano assumendo la direzione locale di una sezione della “Alpenländischen Forschungsgemeinschaft” (“Comunità di ricerca sui territori alpini”, sospetto Brain-Trust della politica völkisch nazionalsocialista) e collaborando con le autorità naziste in merito alla cosiddetta politica demografica fino alla fine della Seconda guerra mondiale.
    Lasciando ai lavori di Rolf Steiniger, Robert Gismann e altri gli ulteriori approfondimenti sulla figura di Viktoria Stadlmayer, anche in relazione alla sua conoscenza ovvero verifica dell'ipotesi di coinvolgimento diretto, in qualità di esperta di politica demografica (e già autrice, nel 1987, di una citazione relativa ad un inaccettabile paragone tra Auschwitz e Hiroshima), nella deportazione degli ebrei residenti in provincia di Bolzano compiuto dai nazisti con la collaborazione attiva dei sudtirolesi, il fatto che una "Vecchia combattente" e perciò come da lei stessa affermato meritevole di adesione al partito nazionalsocialista nonché collaboratrice del medesimo sia formalmente citata quale titolare di «un ruolo fondamentale nelle trattative autonomistiche per conto del Governo regionale del Tirolo» omettendo tutto quanto visto sopra, rappresenta di fatto sia l'istituzionalizzazione del processo di sdoganamento in fieri del passato nazista sudtirolese che l'efficacia del processo di manipolazione politica della storia locale.

    Nota del 02/01/2024
    Il titolo originale dell'articolo era «Par condicio à la Südtirol». L'ho cambiato con «Sull'uso politico della storia» perché più congruente con il testo e perché il primo è più adatto ad un nuovo articolo che scriverò prossimamente in merito all'equiparazione nazismo/fascismo di matrice sudtirolese.

    (© Luca Marcon - tutti i diritti riservati. Gli altri articoli dell'autore sono reperibili qui)

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Luca Marcon Sa., 02.12.2023 - 14:55

Antwort auf von pérvasion

Con tutto il rispetto che si può avere per l'intellettuale Primo Levi - io stesso considero "Se questo è un uomo" e soprattutto il molto meno noto "I sommersi e i salvati" tra i libri più importanti che abbia mai letto - è evidente come in questo caso sia incorso in un errore sostanziale.
Senza dover scomodare a fine di prova di nuovo le opere citate nel mio articolo - le quali, va detto, sono concordi e costanti nel riconoscere le differenze costitutive assolute tra fascismo e nazismo - per capire il senso e soprattutto lo scopo di richiami come quello a cui qui replico basta citare lo storico Enzo Traverso (https://history.cornell.edu/enzo-traverso):
«Historical comparison, however, is not a “neutral” and innocent intellectual procedure, insofar as it participates in building collective memories. Saying that Auschwitz was a “copy” of the Gulag [...] obviously suggests that the “bad guys” of the story were the Bolsheviks; the Nazis, on this telling, become simple epigones: they were corrupted by the original and true inventors of totalitarian evil.»
Scopo che, peraltro, è esattamente quello descritto nell'articolo.

Nota
(La citazione di Enzo Traverso in italiano)
Il comparativismo storico, tuttavia, non è un procedimento intellettuale «neutrale» e innocente, in quanto partecipa alla costruzione di memorie collettive. Dire che Auschwitz sia una «copia» del Gulag [...] suggerisce ovviamente che i «cattivi» della storia siano i bolscevichi. In base a questa narrazione, i nazisti diventano semplici epigoni: sono stati corrotti dagli originali e autentici inventori del male totalitario.

Sa., 02.12.2023 - 14:55 Permalink
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Luca Marcon Di., 02.01.2024 - 15:45

Il titolo originale dell'articolo era «Par condicio à la Südtirol». L'ho cambiato con «Sull'uso politico della storia» perché più congruente con il testo e perché il primo è più adatto ad un nuovo articolo che scriverò prossimamente in merito all'equiparazione nazismo/fascismo di matrice sudtirolese.

Di., 02.01.2024 - 15:45 Permalink