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Ritorno a Montauk

Qualche riflessione attorno al film di Volker Schlöndorff nelle sale Capitol (a Bolzano) e Ariston (a Merano).
Ritorno a Montauk
Foto: upi

“Nonostante si riconoscono i propri sbagli, ci si perpetua nel rifarli appena si presenta una nuova opportunità, ma poi, più avanti negli anni, tutto d’un tratto, è la vita stessa che non ci permette più di rifarli”. Riflessione interessante, questa, che Volker Schlöndorff - regista tedesco premio Oscar col suo Tamburo di latta nel 1979, noto anche per Un amore di Swann (da Proust) e Morte di un commesso viaggiatore (da Arthur Miller) - fa in una intervista pubblicata sul settimanale tedesco «Der Spiegel» a proposito del suo ultimo film Rückkehr nach Montauk (t.l. Ritorno a Montauk, una coproduzione Germania, Francia e Irlanda) presentato alla Berlinale 2017 e ora nelle sale di Merano e Bolzano gestite dal Filmclub, in lingua tedesca perché, purtroppo, non è in distribuzione nelle sale italiane. Dico purtroppo, perché se il plot è presto narrato e in fondo si tratta dell’eterna base narrativa di un dramma, ossia “uomo tradisce donna con un’altra donna e sogna di non far male a nessuno amando lui unicamente se stesso nelle donne”, la storia cinematografica nel pieno senso di questa espressione è molto più complessa e soprattutto dotata di bellissimi dialoghi di grande poesia. Da vedere e rivedere, da ascoltare e riascoltare.

In questo film Schlöndorff torna a occuparsi di Max Frisch, lo scrittore svizzero (al quale il film è anche dedicato), morto nel 1991 poco prima di compiere i suoi ottant’anni - detto a margine, Schlöndorff ha compiuto a fine marzo i suoi settantanove… Risale infatti all’anno della morte di Frisch l’uscita di Homo Faber (titolo italiano Passioni violente) basato sull’omonimo romanzo di Max Frisch, in cui egli ha tematizzato alcuni dei punti cardine della sua opera letteraria: la relazione uomo-donna, la questione della identità personale soprattutto riguardo all’altro/a, l’elaborazione nella finzione di vicende autobiografiche. Quest’ultimo punto è nuovamente - e molto – presente anche nel nuovo film del regista, sceneggiatore, produttore e montatore, nonché protagonista della stagione d’oro del cosiddetto Nuovo cinema tedesco negli anni settanta/ottanta, perché ispirato al romanzo autobiografico di Max Frisch, Montauk, uscito nel 1975, un anno dopo l’avvenimento dei fatti di cui si narra e secondo i quali lo scrittore durante un tour negli Usa ha vissuto un fine-settimana di amour fou nel paesino Montauk sulla punta estrema di Long Island, l’isola davanti a New York, con la sua press agent, inserendo per altro nel racconto anche il tradimento della moglie con uno scrittore americano.

Tutte vicende che trovano eco nel film, ma Schlöndorff ha dichiarato che dopo tanta letteratura trasposta in altrettanti film ha voluto cambiare ottica e non riprodurre una ennesima „storia“ bensì occuparsi della personalità che inventa (e nel caso di Frisch, vive) tali storie. Chissà se l’idea chiave del film, però, quella di far tornare il suo protagonista, Max Zorn, nel nido d’amore del vero Max Frisch l’aveva presa dalla bellissima biografia sullo scrittore svizzzero a oepra di Volker Weidermann datata 2010? Per parlare di nuove emozioni e nuove parole a proposito della vicenda che sta alla base del romanzo Montauk, il critico letterario della «Frankfurter Allgmeine Zeitung» aveva chiesto all’amante di Frisch di allora, Alice Carey, di tornare con lui a Montauk per rivivere quei momenti, storici, nel presente, alla luce del senno del poi. Così Max Zorn nel film, giunto a New York, vuole assolutamente ricontattare l’amante di quindici anni prima, nonostante fosse in città con Clara, la moglie attuale. Mentre il personaggio Rebecca, avvocato di grido emigrata dalla Germania divisa negli anni settanta, interpretata maestosamente dall’attrice tedesca Nina Hoss in tutto il suo spettro emotivo che va dal gioioso passionale al distaccato dolente, rispecchia – a detta dello stesso Schlöndorff – la sua ex moglie Margarethe von Trotta (lei stessa attrice e regista famosa nonché protagonista del Nuovo cinema tedesco femminile) ma nello stesso tempo alcune tra le figure di finzione inventate via via per i suoi film, il personaggio di Max Zorn (cui presta il corpo e l’anima sognante e trasognata l’attore svedese Stellan Skarsgard) comprende tutti i tratti di colui che l’ha creato sulla pagina (Schlöndorff firma anche la sceneggiatura).

Ci sono molti paralleli, dunque, tra produzione letteraria in generale (quella di Max Frisch, il vivere in mezzo a realtà e fantasia per prontamente capovolgerla nel momento della scrittura in cui la vita si fa romanzo), produzione per immagini sul grande schermo (quella di Schlöndorff, dunque), pensiero filosofico cinematografico, ossia narrare storie di persone la cui vita ha espresso una trasformazione profonda nella percezione da parte di altri e – alla fine - le vicende vissute personalmente dallo stesso Schlöndorff. Una fitta rete di argomenti che viene resa in una altrettanta fitta tessitura di immagini e dialoghi che si rimandano dall’inizio alla fine, facendoci compiere, a noi che guardiamo il film, un viaggio nel profondo dell’anima di tanti personaggi e di tante vite, e in ultima analisi anche di noi stessi e stesse, quasi fosse un rimando contemporaneo al pirandelliano Uno, nessuno, centomila.