Kultur | Il libro

Zuppa d'orzo per Heidegger

La pubblicazione dei “Quaderni neri” ha riaperto il dibattito sul controverso filosofo filo-nazista. Ma in Sudtirolo se ne parlerà poco.

Ripensandoci, non sarei mai arrivato in Alto Adige (o Südtirol che dir si voglia) senza aver letto Martin Heidegger. Già l’evocazione di un titolo come Warum bleiben wir in der Provinz potrebbe essere declinato in chiave locale (Warum bleiben wir in der autonomen Provinz von Bozen, also). Tornano a mente le prime impressioni: giorni d’estate passati a passeggiare nei boschi della Pfitschtal, ideali per merende e dialoghi filosofici. Ma chi si arrampica lentamente verso l’alto ha già lasciato la macchina (cioè la modernità e la deiezione della tecnica) parcheggiata dopo una sequenza di Kehren (tutt’altro che epocali, anche se la parola è quella); e solo in un bosco – com’è noto – è possibile capire l’essenza della Lichtung come locus a (non) lucendo. Per fortuna, tornando il pomeriggio a Vipiteno/Sterzing, luoghi più prosaici avevano in serbo libri di altro tipo. Thomas Bernhard, per esempio, e la sua indimenticabile tirata contro il Kitsch ontologico-pastorale del mago (o druido) della foresta: “Tatsächlich erinnert mich Stifter immer wieder an Heidegger, an diesen lächerlichen nationalsozialistischen Pumphosenspießer…”. In tedesco, si capisce, dato che il pensiero dell’essere è intraducibile (altro che cartelli di montagna e polemiche tra adepti dell’Heimatbund e vecchi fascisti…).

Se non avessi letto Heidegger non avrei per esempio mai capito così bene uno come Leo Weisgerber, cioè l’unico “Sprachwissenschftler” citato da Eva Klotz per dimostrarci come ad ogni lingua appartiene unicamente un mondo, e che perciò, per salvare quel mondo dalla dannazione della Vermischung, bisogna circondare la lingua con una palizzata di legno buono (una palizzata fatta in casa, direbbe Bernhard). Confini ben tracciati: noi di qua, voi di là, e forse tutti quanti unterwegs zur Selbstbestimmung. Un Sudtirolo che poteva sembrare stantio solo a chi (come me) non ne aveva ancora assaporato il gusto eterno. Lo scrissi anche in un articolo retoricamente speranzoso, quando ancora frequentavo il sito di fanatici sognatori dediti alla costruzione di uno stato indipendente attorno al loro ombelico. Evidentemente non avevo capito che, ben più di Heidegger (Martin), qui bastava e avanzava Günther (Heidegger), e dunque il fondamento (visto però come Abgrund) non era il Seyn scritto e barrato alla maniera dei Beiträge zur Philosophie, bensì la ritmica dei tre capisaldi indiscussi di ogni conservazione: pigrizia, imbecillità e quattrini (peraltro, il terzo elemento serve a relativizzare, nobilitare e giustificare i primi due).

Con la pubblicazione della traduzione dei “Quaderni neri” le pagine culturali dei giornali hanno ricominciato da qualche tempo a sudare la densa rugiada heideggeriana. Ed è così che le strade dell’ermeneutica tornano a dividersi (anche se, azzardo una previsione, la discussione stavolta avrà il respiro corto e molti volumi resteranno invenduti sugli scaffali delle librerie). Da un lato i denigratori e i rottamatori, secondo i quali Heidegger è un nazista punto e basta. Dall’altro i nostalgici delle profondità buie e insondabili, nelle quali un “nazista metafisico” può persino apparire come il mallevatore di un impensato pensiero di sinistra. Nell’esile terra di mezzo pochissimi altri, come la nostra Donatella Di Cesare, colgono l’occasione per contestualizzare la rinascita dell’antisemitismo e del razzismo: “Entrambi, squalificati e tabuizzati nel passato recente, tentano di aggirare gli ostacoli. Il neorazzista non allude alla razza, tanto più che il principio della ineguaglianza biologica è stato sostituito con l’argomento dello scontro di civiltà; non dice lasciamo crepare in mare quei negri, ma fa valere l’ideale per cui ognuno deve vivere nel proprio paese. Il neoantisemita non scrive sui muri morte agli ebrei!, ma parla del business della Shoah e può giungere fino al negazionismo” (Heidegger & Sons).

E in Sudtirolo? In Sudtirolo, come detto, il vero Heidegger si chiama Günther, quindi non ci sconvolgeremo. Tutt’al più scopriremo curiosi margini gastronomici della Seinsfrage, da affidare eventualmente al marketing onnivoro della SMG. Lo sapevate, per esempio, che il filosofo era un gran mangiatore di zuppa d’orzo? Ne ha parlato proprio ieri Antonio Gnoli in un articolo, uscito su La Repubblica, abbondante di riferimenti abissali: “Il grande dispensatore di frasi a effetto si erge sull’epoca del nichilismo. Egli è lì, alla guida della sua macchina delle iperboli, di fronte all’abisso. Ne è attratto e spaventato. Scalpella il nulla. Non ha secondi fini. Frau Elfride [ma nel pezzo Frau è scritto Fräu, ndr] serve la zuppa d’orzo. Per un momento l’Esserci sembra cadere e confondersi in quella minestra saporita, tra le perline opache e dense delle quali il filosofo è ghiotto”. Mahlzeit. Io intanto vado a mangiarmi un piatto di riso in un ristorante pachistano.