Kultur | SALTO Gespräch

“Il teatro è sociale per natura”

Antonio Viganò, direttore artistico del Teatro La Ribalta, traccia un bilancio su 14 anni di rassegne e 10 di compagnia, presentando l'ultima rassegna: "Corpi eretici".
Antonio Viganò
Foto: teatro la ribalta - kunst der vielfalt
  • 14 anni fa iniziavano le rassegne della compagnia teatrale. Dopo 4 anni di attività, creazioni, formazione e laboratori svolti assieme, le persone che compongono il gruppo hanno deciso di diventare attori e attrici professionisti, lavoratori e lavoratrici dello spettacolo a tutti gli effetti. 10 anni fa nasceva a Bolzano la prima cooperativa teatrale professionale, la Cooperativa Accademia Arte della Diversità, costituita in maggioranza da uomini e donne in situazioni di disagio psichico e fisico. “Nei protocolli venivano chiamate persone svantaggiate", ricorda Antonio Viganò, regista e attore pluripremiato, diplomato alla Scuola d’Arte del Piccolo Teatro di Milano. Tra vari ruoli svolti, fonda nel 1984 - con Michele Fiocchi – il teatro “La Ribalta” in provincia di Lecco. Dalla loro formazione, costituiscono una novità importante nel panorama culturale italiano, con riflessi diretti anche sulle politiche di inclusione sociale. A ricordarlo e dare continuità artistica a questa formazione, con i vari cambi avvenuti negli anni, è proprio Antonio Viganò, che abbiamo avuto modo di intervistare.

  • Foto di gruppo per Corpi eretici:: la compagnia del Teatro la Ribalta ritratta da Monica Bonomini. Foto: Monica Bonomini
  • SALTO: Signor Viganò, come è nato e successivamente si è sviluppato il teatro La Ribalta?

    Antonio Viganò: Nasciamo come una compagnia rivolta al teatro per l’infanzia e gioventù, passiamo un periodo in Francia, dove io conosco la prima compagnia professionale costituita da uomini e donne in situazioni di handicap, ‘Compagnie de l’Oiseau-Mouche’. Un incontro importante che mi segna rispetto alla sensibilità e piacere di incontrare l’altro, che in quel caso erano persone con disagio psichico. Da lì in poi, dopo tanti tentativi, arrivato a Bolzano riesco a costituire una compagnia simile a quella de’ ‘l’Oiseau Mouche’.

    Com’è arrivato in Sudtirolo?

    Io non sono di Bolzano, vivo da 18 anni in questa città. Ho portato assieme a me un desiderio di lavorare con uomini e donne affetti da disagio psichico, mentale, fisico o in una situazione di emarginazione sociale. Ho intercettato l’organizzazione ‘Lebenshilfe’ e  l’associazione ‘THEATRAKI’ a cui interessava aprire delle attività di laboratorio, per vedere se si potesse sviluppare qualche attività a Bolzano nel campo del teatro e della danza con alcune persone che avevano voglia di misurarsi dentro questa scommessa presunta. 

    Accompagnato da una figura artistica molto forte, Julie Anne Stanzak, che ha seguito per tanto tempo la mia esperienza artistica, con la quale provo un rispetto profondo oltre ad avere un rapporto di amicizia e lavoro, sono derivate le prime collaborazioni con Bolzano Danza. Siccome tutte le volte che andavamo in scena trovavamo grandi consensi e grandi stupori rispetto alla possibilità, a un certo punto anche un po’ stanchi di sentirci dire che eravamo molto bravi, ci siamo detti: dateci la possibilità di costituire una compagnia in forma professionale, per poterci mettere alla prova fino in fondo! E non solo dentro un ambito, diciamo, ricreativo del sabato o della domenica, ma con una professionalità. E qui a Bolzano abbiamo trovato questa possibilità, grazie al Comune.

  • Lo specchio della regina:: uno dei lavori messi in scena dal Teatro la Ribalta. (Foto: Vasco Delloro) Foto: Vasco Delloro
  • Si parla di Bolzano, 14 anni fa, dove vengono fatti i primi passi verso quello che è diventato oggi il progetto. 10 anni fa viene fondata la cooperativa “Accademia Arte della diversità – Akademie Kunst der Vielfalt”.  Vuole dirci qualche parola sui passaggi che hanno dato inizio a questo progetto, partendo magari dalla scelta del nome?

    È in realtà una scelta infelice che mi porto dietro da tanto tempo. Infelice perché La Ribalta richiama in teatro le luci che sono in proscenio. La Ribalta all’inizio nasce come una compagnia di clown, che di certo non necessita della quarta parete stando molto in avanti sul palco, con lo sguardo sempre rivolto verso il pubblico ed è questo il motivo del nome. È poi diventato bilingue, una volta arrivato a Bolzano, per rappresentare al meglio la compagnia al fine di evitare una suddivisione etnica nel nome, minando l’obbiettivo di valorizzare le diversità. Dall’inizio volevamo avere un richiamo al fatto che ci fossero attori e attrici di entrambi i gruppi linguistici, italiano e tedesco all’interno del gruppo per valorizzare le diversità. Aspetto per noi importante.

    Prima di Bolzano ha fatto altri tentativi di iniziare progetti simili?

    Ho girato molto l’Italia, sono stato docente a Lecce, dove si è provato a costruire una cooperativa, non riuscendoci. Una possibile risposta la trovo nella dimensione più laica che è presente a Bolzano – forse data dall'influenza tedesca – che aiuta poiché meno protettiva, meno consolatoria, meno assistenziale di quella cattolica. Lo vedo nella compagnia, dove gli attori tedeschi hanno una libertà di movimento maggiore rispetto agli italiani, le cui famiglie sono più protettive ed eccessivamente buone, talmente buone da poi ingessarli dentro la condizione. A volte quel buonismo può fare molto male.

    Né indulgenze, né forme compassionevoli, né tantomeno parametri speciali da parte di chi guarda. La compagnia chiede di essere giudicata solo ed esclusivamente per il suo lavoro, per la capacità di comunicare e raccontare usando gli strumenti che l’arte teatrale offre. Come vuole raccontarsi questa compagnia?

    In una compagnia teatrale gli spettacoli o sono belli o sono brutti, al di là che le persone all’interno siano borghesi, portatori di handicap, carcerati… Il nostro percorso vuole essere senza nessun tipo di protezione pedagogica o terapeutica poiché altrimenti ci limiterebbe dentro un ambito che non è il nostro, non abbiamo le competenze. Il nostro lavoro con chi fa parte della compagnia inizia da molto lontano, ma sapevamo di aver bisogno di mettere questi uomini e donne che avevano voglia di misurarsi a contatto con quell’arte e a contatto immediato con delle grandi artisticità. Il più delle volte in altri contesti quando si lavora con delle persone in situazione di handicap, nel teatro e nella danza, trovo molto deboli le figure professionali che diventano i loro maestri. È anche un sottomercato, quello del sociale, del teatro sociale. Noi, invece, sin da subito abbiamo capito che avevamo bisogno di figure professionali come Julie Anne Stanzak e Antonella Bertoni nel nostro percorso.

  • Superabile:: una delle opere teatrali del Teatro la Ribalta / Kunst der Vielfalt. (Foto: Marzia Rizzo) Foto: Marzia Rizzo
  • Partendo da lontano, come detto, poiché gli attori e le attrici non escono da scuole di teatro, bisognava dare dei mezzi adeguati per riuscire ad arrivare ad essere lavoratori e lavoratici professioniste.

    Mi viene un rimando alla parola ‘handicap’ e al senso etimologico del termine, ovvero la sorte del biglietto nel cappello. Ci sono, ad esempio, le corse dei cavalli ad handicap che prevedono la partecipazione di cavalli di età e razza diversa. Per fare in modo che tutti i cavalli presenti alla gara possano vincere non li fanno partire sulla stessa linea di partenza, sennò alcuni partirebbero con un vantaggio, costringendo altri a gareggiare solo per partecipare. Da qui le partenze ad handicap, la linea di partenza viene differenziata a seconda del cavallo, dando la possibilità a chiunque di poter vincere. Ecco, ci sembrava che questo paragone potesse essere benissimo applicato anche agli umani. Se io devo dare la possibilità a delle persone di poter ambire e concorrere dentro questa grande corsa, cioè, diventare professionisti del teatro, se li metto al pari degli altri, non ci arriveremo mai. Vi è il bisogno di essere portati in avanti e di averti dato strumenti molto, molto più alti di quelli che può avere chiunque intraprenda questa carriera.

    Sul vostro sito (come durante questa intervista) è emerso il concetto di "teatro sociale", che cosa si intende?

    Vi è un dibattito dentro al teatro. Ho paura che mettendo aggettivi come d’arte, etico, sociale, un po’ il teatro si tradisca, la parola teatro si sminuisce e diventa sempre più importante quella accanto. Allora bisogna distinguere le funzioni e il senso del teatro. Io toglierei tutte queste etichette. Penso che queste parole siano anche dei recinti, ministeriali o di abitudine, ma anche dei recinti economici, di relazione politica. Io toglierei tutte queste aggiunte anche perché, se posso chiamare un teatro ‘sociale’, ciò comporterebbe l’esistenza di un teatro asociale. Il teatro è sociale di natura, non può essere nient'altro, non c'è ragione perché non sia sociale. Qualsiasi teatro deve partire da questa ambizione. Noi forse assumiamo una responsabilità maggiore. Quella che riguarda i nostri obiettivi delle nostre promesse fatte all'inizio, ovvero modificare lo sguardo sul tema dell'etica o della diversità. È un atto politico importante che noi dobbiamo sapere garantire: non possiamo permetterci di essere deboli dal punto di vista artistico. Nel momento in cui esiste una debolezza in scena che non sa trasformare e superare una condizione - quella a cui le persone ti rimandano, essere un soggetto sociale handicappato - attraverso il nostro lavoro, non facciamo altro che alimentare nello sguardo dello spettatore, l'idea che essere diverso, in questo caso con handicap, sia una qualche possibilità in meno, non qualche possibilità in più. Questo non significa allenare i nostri attori a essere quello che non sono o ammaestrarli a una pratica che li nega. L'idea è fare in modo che quella condizione possa trascendere e andare oltre la loro condizione, perché c'è una comunicazione che arriva usando lo strumento teatro che è superiore a qualsiasi altra definizione sociale che leggono imposta lì.

    Questa maggiore responsabilità porta con sé delle innovazioni sul modo di fare teatro, sul come non ci sia finzione...  

    Noi riconosciamo a chi entra in scena la condizione che porta con sé, perché la vediamo. Se entra sul palcoscenico una persona non vedente con un bastone bianco e degli occhiali neri entra in scena un attore che porta con sé un pezzo della sua storia. Quel corpo è già un corpo narrativo, in quanto ha già un racconto. Altre persone che non hanno un bastone e gli occhiali, è durante lo svolgimento del lavoro che le riconosciamo. Quando io dico che non ci sia finzione, non va inteso come una mancanza di padronanza della finzione teatrale. Gli attori fingono. Il concetto che vorrei far arrivare è simile a quello esposto da Fernando Pessoa in una celebre poesia, in cui dice che il poeta è un fingitore che finge così tanto quel dolore da sentirlo davvero. Di questo sono capaci i miei attori e le mie attrici: avere una tale sensibilità a sentire ciò che gli viene proposto, farselo proprio a tal punto da arrivare a farsi attraversare da quell’emozione.