Gesellschaft | L'intervista

“Ho pregato di riuscire a fermarmi”

Tamara Lunger sull’incidente al Gasherbrum con Simone Moro, gli errori inanellati, l’incertezza del futuro, l’onda lunga degli haters e un nuovo desiderio di solitudine.
Tamara Lunger
Foto: Facebook

È tornata a casa, in Alto Adige, Tamara Lunger, 33enne top climber, e la storia che riporta indietro dalla sua ultima spedizione, rimasta incompiuta, è di quelle da blockbuster hollywoodiani. Insieme al noto compagno di cordata, il bergamasco Simone Moro, dopo una meticolosa preparazione nella camera ipobarica di Eurac Research, ha voluto tentare in inverno (impresa mai riuscita in questa stagione) il concatenamento del Gasherbrum I e Gasherbrum II, due vette di ottomila metri nella catena montuosa del Karakoram. Ma qualcosa è andato storto. Sabato 18 gennaio crolla un ponte sopra a un crepaccio, Moro precipita e Lunger riesce a trattenerlo. “Rischiavo di perdere la mano - racconta l’alpinista bolzanina -, ma mi convincevo che ne saremmo usciti vivi”. 

 

 

salto.bz: Lunger, sono trascorsi più di dieci giorni dall’incidente in alta quota, quali sono le sue condizioni fisiche?

Tamara Lunger: Mi sto riprendendo. All’inizio non sentivo più la mano, ma ora sta migliorando anche se devo ancora recuperare la piena sensibilità al pollice che per qualche minuto ha sostenuto i 90 chili di Simone e dell’attrezzatura dopo la sua caduta nel crepaccio. 

Partiamo dal principio, la spedizione si è rivelata più complicata di quella che avevate previsto, non è così?

È un icefall molto complicato, non c’è dubbio, e le scosse di terremoto hanno probabilmente peggiorato la situazione rispetto a qualche anno fa. In realtà abbiamo iniziato trovandoci di fronte un ghiaccio abbastanza compatto, poi abbiamo incontrato dei piccoli crepacci che più salivamo in quota e più si allargavano. Andavamo in una direzione e poi ci accorgevamo che la via era ostruita e allora ne aprivamo un’altra, sempre con le antenne dritte per controllare a ogni passo che sotto di noi ci fosse il ghiaccio e non il vuoto. In un giorno, per dire, abbiamo fatto appena 150 metri di sviluppo. Era tutto un enorme labirinto. 

Ho pensato di avere solo due opzioni: o precipitavamo nel vuoto tutti e due oppure dovevo tener duro e lasciare che la mano venisse schiacciata. Mi immaginavo già all’ospedale mentre me la amputavano

I dettagli dell’incidente sono noti ma c’è un punto nel racconto che risulta ancora controverso: una volta assicurato il suo compagno di scalata con un mezzo barcaiolo (il nodo che frena la caduta, ndr), mentre manovrava la corda cos’è successo?

Stavo effettuando il nodo, avevo praticamente aperto l’asola per poter infilare il moschettone, e proprio in quel momento Simone fa il primo passo, il ponte di neve cede e lo vedo cadere giù, per 20 metri, nel baratro, io vengo trascinata via come da un cavallo imbizzarrito, con la corda che stringeva prima il pollice e poi la mano. È stato tutto molto veloce, non ho avuto il tempo di prendere la piccozza dall’imbrago, pregavo solo di riuscire a fermarmi, e sono volata praticamente fino all’orlo del crepaccio. A quel punto ho tirato fuori la piccozza, ho provato a fare il “corpo morto” per creare un ancoraggio sulla neve con l’altra mano, tentato di fare un nodo prusik, e la mano incastrata intanto faceva un male cane. Ho gridato a Simone “Taglia la corda, taglia la corda o perdo la mano”. Lui era 20 metri sotto e facevamo fatica a comunicare. Talmente tanta era la paura di cadere giù che non mi venivano più le parole in italiano e gli ho detto “Taglia la corda se sei su una ‘piazzola’”, lui però ha sentito solo la prima parte della frase. E ha detto “Cazzo, se taglio la corda ci lascio la pelle”. Il dolore era così atroce che mi avvicinavo sempre di più verso la voragine allo scopo di allentare un po' la morsa e questo rendeva le cose più complicate a Simone che stava cercando di piantare una vite da ghiaccio. Alla fine ce l’ha fatta. Con un anello di cordino è riuscito a salire un po’ e a sgravare la corda, così io sono riuscita a liberare la mano.

Cosa le è passato per la testa in quei momenti?

Ho pensato di avere solo due opzioni: o precipitavamo nel vuoto tutti e due oppure dovevo tener duro e lasciare che la mano venisse schiacciata. Mi immaginavo già all’ospedale mentre me la amputavano. Ho notato però che la mia reazione stavolta è stata molto diversa rispetto al Nanga Parbat, quando caddi per 200 metri atterrando per fortuna sulla neve fresca. Non mi sono fatta prendere dal panico. Rischiavo di perdere la mano, ma mi convincevo che ne saremmo usciti vivi.

 

 

La fortuna è di poterla raccontare, questa storia.

Ecco, la fortuna ha avuto un ruolo fondamentale. Se solo il crepaccio fosse stato morfologicamente differente saremmo rimasti fregati. Se Simone si fosse rotto qualcosa durante la caduta per me sarebbe stato molto più difficile manovrare la corda con una sola mano e la bocca, come poi ho fatto.

Lei stessa ha ammesso che di errori ci sono stati. Poca prudenza, per esempio?

Abbiamo sottovalutato la situazione. Anche una volta assicurati non ci siamo mai detti “Ok, vai”, è stato sempre tutto molto spontaneo. È capitato durante quei giorni di mettere delle viti da ghiaccio nei punti più pericolosi. E quello dove è accaduto l’incidente non mi sembrava tale. Avevo anche le ciaspole ai piedi. Poi fra gli errori che abbiamo commesso c’è stato il fatto che Simone non ha seguito la mia traccia, ed era la prima volta che uno dei due non lo faceva; e io avrei dovuto chiudere prima il mezzo barcaiolo. 

Non so se incidenti come quello che ci è capitato sono dei segnali, se devo smettere con gli invernali altrimenti ci lascio la pelle o se devo insistere. E la risposta ancora non ce l’ho

C’è una lezione da imparare, qui?

Per me scalare una montagna è come un gioco, mi sento come una bambina che fa quello che le piace fare, non provo paura. Questo può essere un fattore positivo, ma sicuramente un episodio del genere mi ha aperto gli occhi di nuovo. Non è tutto così easy come credo io.

Direbbe che quest’esperienza ha segnato il suo rapporto con Moro?

Non penso che fra noi sia cambiato qualcosa. Quando lui è finito nel crepaccio ho fatto del mio meglio per governare la situazione, considerando che ero senza piccozza né ramponi. Nel momento in cui doveva iniziare a risalire mi ha detto “Ora mi devi giurare che mi hai assicurato bene, perché devo scalare su uno strapiombo e non voglio morire”. Era comprensibilmente preoccupato ma quando alla fine è riuscito a uscire dal buco ha visto che avevo fatto tutto nel modo giusto e per sdrammatizzare mi ha detto che avevo passato l’esame di auto-soccorso.

 

 

Anche il ritorno a casa è stato burrascoso.

Sì, dopo essere tornati al campo base di Gasherbrum ci siamo spostati a Skardu e da lì volevamo prendere un aereo per Islamabad, ma molti voli erano stati cancellati per via del maltempo. Aveva nevicato molto e la gente del posto non vi è abituata. Nessuno aveva le gomme invernali e non c’erano i mezzi spazzaneve, gli incidenti erano perciò frequenti. Abbiamo deciso di affittare un fuoristrada così da percorrere almeno una buona dose di chilometri, fra strade dissestate e in alcuni tratti a una corsia sola. Poi abbiamo preso un pulmino e in circa 48 ore siamo arrivati a Islamabad. Quattro giorni fa sono tornata in Alto Adige ed è stato un “dolce” rientro, una mia amica mi ha fatto una sorpresa facendomi trovare pizza e torta a casa.

 C’è chi ha detto che l’incidente ce lo siamo inventato, mi viene quasi da piangere a sentire determinate cose. Mi chiedo: ma certa gente con quali valori cresce?  Non ne posso più di queste cattiverie

Nel suo post Facebook pubblicato appena dopo l’incidente ha scritto: “Forse devo cambiare le mie mete?”, quel punto interrogativo vale ancora?

Ho provato tre invernali e nessuno è andato a buon fine. Anzi due volte quasi ci restavo secca. Chi dice che tutti possono tentare queste imprese non sa di cosa parla. Non faccio mai la stessa spedizione due volte, per una forma di rispetto verso la montagna, quindi non credo che ci riproverò con il concatenamento del GI e del GII. Pochi mesi fa sono andata a fare trekking in Mongolia e a volte penso che avventure di questo tipo, i lunghi attraversamenti, le esplorazioni, pur con i loro ostacoli, siano più nelle mie corde, sono situazioni a cui forse posso adattarmi di più. Ma il fatto è che esperienze come questa non hanno lo stesso valore di un ottomila, riuscire a scalarlo per me è un successo indicibile. Ero convinta che stavolta sarebbe andato tutto bene. Non so se incidenti come quello che ci è capitato sono dei segnali, se devo smettere con gli invernali altrimenti ci lascio la pelle o se devo insistere. E la risposta ancora non ce l’ho.

Di cosa è stanca?

Delle continue polemiche. Simone viene attaccato per ogni cosa che fa, c’è molta invidia nei suoi confronti. Questa volta c’è chi ha detto che l’incidente ce lo siamo inventato, mi viene quasi da piangere a sentire determinate cose. Mi chiedo: ma certa gente con quali valori cresce? Dicono che la carriera di Simone è in discesa, non gli perdonano il successo, insinuano che oggi lui voglia solo far credere di essere intenzionato a conquistare le vette più alte ma poi debba sempre inventarsene una per poter tornare a casa prima. Di certo non spendo tutti quei soldi per una farsa, il denaro non cresce sugli alberi. Non ne posso più di queste cattiverie. Ora ho bisogno di pace. Perciò dato che ho la possibilità di scegliere sceglierò di scalare da sola, la prossima volta.