Bühne | L'intervista

Marcorè e "La buona novella"

L'attore andrà in scena a Bolzano dal primo al 4 febbraio con il lavoro dedicato a De André. "Lo spettacolo parla della figura femminile attraverso la Madonna, parla del potere, dei suoi soprusi e della sua arroganza".
neri marcorè
Foto: Tsb
  • SALTO: “La Buona Novella” è l’album che il cantautore Fabrizio De Andrè ha pubblicato nel 1970. Com’è cambiata la società dal ‘70 ai giorni nostri e quanto le canzoni di quell’album sono ancora attuali? 

    Neri Marcorè: La società degli anni '70 l'ho conosciuta tramite i racconti dei miei genitori, perché sono nato nel 1966. Credo che quella dei primi anni Settanta fosse un'Italia per certi versi un po' più spensierata, anche se si stava già avvicinando a quelli che poi sarebbero stati gli anni di piombo. Ad un certo punto ci fu la prima crisi energetica che in parte fu vissuta in maniera divertita. Mi ricordo che quando avevo sei anni circa, si circolava per le strade senza macchina, ma con le bici. era una sorta di divertimento, anche se logicamente era un momento di crisi. L'Italia era forse più spensierata e comunque con una gran voglia di crescere e di migliorarsi, di sviluppare una maggiore istruzione, conoscenza e cultura. Va comunque detto che con il passare degli anni c'è stato anche un inasprimento dello scontro delle ideologie che si è fatto poi sempre più potente e drammatico. Il nostro è un paese che è cambiato moltissimo in questi cinquantanni; c'è stata la rivoluzione digitale, la politica è cambiata, la società di conseguenza è diventata molto più consumistica, realizzando quella che era la previsione di Pasolini. Sicuramente è stata un'Italia che si è lasciata corrompere dal desiderio di edonismo reaganiano, per riprendere un'espressione tipica degli anni '80/'90. In quel periodo si è cercato di abbandonare l'impegno, a volte anche pesante, degli anni '70. Trovo che oggi l'Italia sia meno spensierata, anche se cerca di vedersi leggera; sotto sotto c'è molta più preoccupazione per quello che è cambiato, specie nel mondo del lavoro. Infatti le prospettive per i giovani si sono ristrette e tutto ciò che viene dalla digitalizzazione ci porta a un costante e progressivo isolamento. Questo accade perché ognuno per conto suo ha la percezione di avere tutto ciò che serve e tende a rinchiudersi. Quella degli anni '70 era una società più vivace. Non dico più aperta o più chiusa, in quanto anche lì c'erano sicuramente delle chiusure, ma mi pare di capire che ci fosse più spensieratezza. Forse la vita era un po' più semplice da decodificare. L'impressione che ho è questa, anche se quegli anni lì non li ho vissuti da adulto. 

    Una delle canzoni più famose dell’album è “Il Testamento di Tito”. Chi è Tito per noi? Chi è o chi sono, secondo lei, gli emarginati di cui avrebbe cantato oggi, Fabrizio De André se fosse ancora vivo? 

    Tito è l'emblema di quel tipo di persona che prende consapevolezza di sé, dei propri errori e riconosce la strada per la salvezza. In quel caso specifico, simbolicamente rappresentata dal riconoscimento di Gesù come immagine dell'amore e del bene, per chi crede in Dio. In generale il riferimento è alla consapevolezza di sapere che dentro di noi ci sono, in maniera manichea, il bene e il male mescolati e che di conseguenza sta sempre a noi scegliere da che parte andare. Nessuno di noi è puro al cento per cento e neanche malvagio al cento per cento. Proprio per questo c'è sempre la possibilità di prendere una direzione o un'altra, anche in base a ciò che attrae di più. Sarebbe bello sapere di chi avrebbe cantato oggi De André, se fosse ancora vivo. Forse farebbe un dischio sui giovani e sulle prospettive che possono avere i ragazzi di oggi. Per quanto liberi, disinibiti e "liberi" -forse in apparenza- più di quanto fossimo noi e chi ci ha preceduto, subiscono una situazione sociale non così aperta e ricca di possibilità. Le prospettive in verità sono molto più ristrette. Ad esempio quando io ho finito l'università avevo l'impressione di poter fare qualsiasi tipo di lavoro e che, anche rinunciando ad un impiego, avrei potuto trovarne tantissimi altri. Adesso mi sembra che invece, oltre ale retribuzioni basse, rispetto ad un tempo c'è la sensazione che se non ti attacchi a quel lavoro offerto o, se non rinunci ad una parte dei tuoi desideri per scegliere qualcosa che ti faccia sopravvivere, tanta strada non la fai. Ovvio che ci sono le eccezioni, ma la linea generale mi sembra quella. Questo potrebbe essere un tema o una categoria di cui potrebbe occuparsi De Andrè oggi. 

  • La buona novella: Sette gli artisti in scena. Foto: Tot La Pera
  • Sembra quasi che Fabrizio De Andrè con il repertorio che ci ha lasciato, abbia già descritto e anticipato, ciò che è stata la società di un tempo e ciò che è quella di adesso. Se fosse ancora vivo, secondo lei, cosa direbbe del mondo in cui viviamo? E soprattutto, avrebbe ancora qualcosa da dire?

    Avrebbe sicuramente qualcosa da dire, come ha sempre avuto qualcosa da dire. Quindi direi che non mancherebbe di far sentire la sua voce originale e fuori dal coro. Sicuramente avrebbe sempre la caratteristica dell'originalità e il privilegio dell'intelligenza. Non so cosa direbbe del mondo in cui viviamo perchè non sono De Andrè. Se fossi in grado di interpretarlo e di prendere in prestito il suo pensiero e la sua voce, in questo momento farei altro. Probabilmente mi metterei a scrivere canzoni o testi teatrali e invece non ho la presunzione di rispondere. 

    Nella canzone “Tre Madri” viene narrato il dolore che prova un genitore quando perde il proprio figlio. Un dolore, anche oggi, comune a molte famiglie. Lui parla di un dolore non idealizzato, di un dolore umano, sincero e profondo. Dov’è finito questo dolore autentico, e soprattutto intimo, in una società dove spesso i mass media non solo non rispettano il dolore, ma gareggiano per accaparrarsi le dichiarazioni di chi ha subito il lutto? 

    Sinceramente non credo che ci sia molta differenza tra il modo di fare giornalismo adesso, rispetto a quello che si faceva anni fa. Ricordo benissimo che, anche a fronte di tragedie, si cercava in ogni caso di avere la voce di chi quel dolore lo aveva vissuto. C'era anche lì la corsa, in maniera più benevola forse, ad andare a cercare la testimonianza diretta. Il dolore alla fine c'è sempre stato, ma credo che possa essere cambiata un po' l'esibizione del dolore. Questa è una società in cui si tende ad esporre un po' tutto, attraverso i media e i social. Forse è venuta un po' a mancare quella premura, quel riserbo che una volta ci portava ad essere un po' meno sguaiati nell'esibire i sentimenti; che fossero dolore o altro. Adesso la società dell'apparenza fa sì che anche questo finisca nel tumulto di tutto ciò che si espone. Magari si pensa che il dolore possa essere attenuato se esibito o che quel dolore, possa essere compensato dalla gratificazione che ti viene dall'esporsi da un palcosccenico virtuale, al proprio pubblico. Spesso ci si aspetta da quest'ultimo solidarietà, ma sappiamo bene che poi anche in casi drammatici, c'è sempre l'opinione pubblica che si divide in quelli che si esprimono con totale solidarietà e quelli che invece attaccano in tutto e per tutto. 

  • Neri Marcorè: L'attore in scena dall'1 al 4 febbraio al Comunale di Bolzano. Foto: Tot La Pera

    Fabrizio De Andrè cantava del suo tempo e, senza saperlo, anche del nostro. Se ad oggi, un ragazzo di 30 anni scrivesse un album ispirandosi ai Vangeli Apocrifi, secondo lei avrebbe avuto tanto successo? 

    Nel mondo della musica è cambiato talmente tanto che non so se avrebbe o meno successo, ma ad oggi scrivere un disco e avere la possibilità di farlo ascoltare e di farsi notare, in questa proliferazione di voci, è complicato. Quindi evidentemente chi riesce a farlo, è perché tocca delle corde che fanno presa su chi ascolta, che siano giovani o meno giovani. Diciamo che riuscire a parlare al cuore e alla testa delle persone non è mai facile, altrimenti avrebbero successo tutti. Certo c'è da dire che bisogna considerare anche l'argomento. I vangeli apocrifi, infatti, anche a suo tempo destarono scalpore. L'uscita del disco non fu apprezzata o comunuque non fu compresa per quello che poteva e voleva essere. Infatti quell'album aveva l'intento di parlare di rivoluzione e del più grande rivoluzionario della storia, come De Andrè ha sempre detto. Si parlava di rivoluzione nel momento in cui il mondo post '68 parlava di rivoluzione, quindi attraverso l'allegoria e la metafora lui parlava esattamente del tempo presente. C'è sempre bisogno di un scatto in più di ascolto, di intelligenza, di spirito critico per comprendere quello che immediatamente siamo abituati a catalogare come sbagliato, storto o inutile. Non so se oggi avrebbe avuto successo, ma ogni epoca ha le sue difficoltà.

  • Come mai è stato scelto di rappresentare proprio l’album “La buona novella”?

    La proposta di rappresentare "La buona novella" viene dal regista Giorgio Gallione con il quale l'anno prossimo festeggerò i vent'anni di collaborazione. Ogni volta che siamo in scena con uno spettacolo, pensiamo sempre a cosa fare nelle stagioni successive. Tuttavia questo è uno spettacolo che lui aveva già messo in scena molti anni fa e che ha pensato di riproporre con modalità ed interpreti differenti, proprio perché la figura della donna è, giustamente, sempre più centrale nei dibattiti. Infatti ad oggi si parla molto di più del suo ruolo e di quello che socialmente le è sempre stato attribuito e soprattutto, di come lo spostamento e l'emancipazione stessa della donna, porti gli uomini a sentirsi spiazzati e privati di un privilegio. Fino a poco fa, tutto questo era ovvio. Il motivo dello spettacolo, quindi, è quello di poter parlare di potere e della figura della donna nella società attuale, attraverso allegorie e metafore come aveva fatto Fabrizio De Andrè a suo tempo.

    Cosa si dovrà aspettare il pubblico che assisterà allo spettacolo?

    Il pubblico lo abbiamo testato l'estate scorsa, quando abbiamo esordito ad Ancona e poi ancora a Milano. Devo dire che ha reagito in maniera molto positiva e coinvolta. Questo spettacolo è un viaggio nel mondo mistico, religioso, ma non solo. Parla della figura femminile attraverso la Madonna, parla del potere, dei suoi soprusi e della sua arroganza, in tutti i tempi e luoghi. Possiamo dire che non è una rappresentazione teatrale che lascia indifferenti, ma chi lo ha visto ne ha apprezzato la fattura sia tecnica, da parte di noi sette in scena, ma anche contenutistica. Certamente Fabrizio de André è una colonna portante e solidissima con il suo disco "La buona novella".

  • La buona novella in scena

    Lo spettacolo andrà in scena dall'1 al 4 febbraio 2024 presso il Teatro Comunale di Bolzano. I biglietti sono disponibili a questo link: https://www.teatro-bolzano.it/produzioni/archivio/1609-la-buona-novella-la-buona-novella . La coproduzione del TSB riprende il secondo anno di tour da Bolzano. In scena, a fianco di Marcoré, Rosanna Naddeo, e i musicisti e cantanti Giua, Barbara Casini, Anais Drago, Francesco Negri e Alessandra Abbondanza