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Il tabù della violenza ostetrica

La violenza ostetrica riguarda moltissime donne ma rimane un fenomeno sottostimato e poco indagato, a causa della visione patriarcale che attanaglia la salute femminile.
Violenza ostetrica
Foto: Doxa

Si è celebrata da poco la ricorrenza della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, un 25 novembre che dovrebbe rappresentare il bilancio di un lavoro annuale costante, ma che spesso si trasforma in un esercizio di retorica, attraverso discorsi di circostanza e vuoti post sui social, aspettando il ritorno alla quotidianità, fatta di scarse risorse, appelli inascoltati e generale ignoranza sulle complesse e diverse forme di cui è composta la violenza sulle donne. Il termine “violenza sulle donne” infatti racchiude numerosi tipi di abuso, così diffusi in tutti i contesti, da far percepire quanto il problema sia una questione principalmente culturale, legata alla lettura della figura femminile che, nei secoli, la società patriarcale ha voluto darne.

Tra le categorie di violenze da pochissimo tempo si è finalmente iniziato a parlare di violenza ostetrica, definita per la prima volta nel 2007 dalla “Ley Organica sobre el Derecho de las Mujeres a una Vida Libre” in Venezuela come: “Lappropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario, che si esprime in un trattamento disumano, nell’abuso di medicalizzazione e nella patologizzazione dei processi naturali, avente come conseguenza la perdita di autonomia e delle capacità di decidere liberamente del proprio corpo e della propria sessualità, impattando negativamente sulla qualità della vita della donna”.

Tale definizione, sebbene non ancora in uso ufficiale nel lessico del diritto internazionale, ha cominciato a circoscrivere un fenomeno particolarmente complesso, di non facile descrizione. Le indagini su queste pratiche abusanti sono iniziate verso la fine degli anni ’90 nel continente americano, e si sono poi diffuse anche in Europa, ma solamente nel 2014 l’OMS ha redatto una dichiarazione sull’argomento. In seguito, nel 2019, sono arrivate la risoluzione del Consiglio d’Europa e il rapporto ONU e anche in Italia è stata lanciata una campagna per conoscerne i numeri.

Un’indagine di DOXA-OVOITALIA, condotta sul periodo 2003-2017, ha restituito un quadro sconfortante, con circa 1 milione di donne, in 14 anni, ad aver subito violenza ostetrica, esplicatasi attraverso abusi verbali e fisici, episiotomie a tradimento, manovre non consensuali…ma secondo diversi esperti questi numeri sottostimano il fenomeno. La difficoltà nasce spesso dalla stessa definizione, che non coinvolge solamente il momento del parto, ma include tutti i trattamenti che riguardano la salute femminile. Le donne sono abituate a recarsi dal ginecologo molto più spesso di quando gli uomini vedano un andrologo, ma non sempre sono consapevoli di quali pratiche rappresentino un abuso.  Troppo spesso infatti si considerano come normali, in quanto facenti parti della professione, procedure invasive, atteggiamenti irrispettosi o mancata comunicazione.

Il retroterra culturale permea ancora tutta la medicina moderna e negli ultimi anni le campagne contro il sessismo hanno svelato quanto gli stereotipi pesino su tutti i trattamenti. Le nuove frontiere della medicina personalizzata hanno dimostrato che i farmaci agiscono in maniera diversa tra uomini e donne, ma questi vengono ancora testati principalmente su uomini bianchi. Diversi articoli di riviste scientifiche indicano come le donne siano meno credute quando manifestano dolori e ricevano quindi assistenza più tardi rispetto ai pazienti maschi. Inoltre agli uomini vengono somministrati più facilmente antidolorifici, mentre le donne sono curate con calmanti, seguendo il doppio stereotipo della donna più soggetta ad isterismi ma allo stesso tempo più incline a sopportare il dolore. In questo scenario la salute riproduttiva femminile non fa eccezione; al contrario è proprio in merito alla maternità e alla sfera sessuale che ruotano le questioni patriarcali più difficili da scardinare.

Le discussioni in merito all’aborto e alla contraccezione indicano ancora quanto la donna non sia considerata come un soggetto, ma in funzione della sua capacità riproduttiva, con un focus, di conseguenza, concentrato sulla natalità e non sul benessere olistico della madre. Nell’ambito della libertà sessuale poi gli atteggiamenti diventano ancora più giudicanti e moralisti, tanto che in diversi casi donne e ragazze lamentano di vivere con molta apprensione il consueto controllo ginecologico.

Le molte sfaccettature della violenza ostetrica sono quindi di difficile indagine, spesso anche a causa dei questionari, che non riescono ad intercettare il trauma delle vittime. Raccontare e rivivere una violenza richiede empatia e vicinanza e non tutte sono disposte a rivivere le esperienze passate senza un adeguato supporto emotivo. Inoltre si tende ancora spesso a minimizzare le difficoltà della gravidanza e della maternità, attraverso una retorica di falsa perfezione delle gioie materne, che relega tutte le emozioni negative in senso di inadeguatezza quasi mai confessata.

 

Una testimonianza da Bolzano

 

I fattori sopradescritti influenzano quindi particolarmente le indagini statistiche, ma i dati che sono già sono disponibili dimostrano una diffusione abbastanza capillare del fenomeno, che non risparmia nessun territorio, neanche la provincia di Bolzano. I racconti delle donne e, a volte, anche del personale sanitario altoatesino restituiscono un’immagine tutt’altro che idilliaca, con un personale ospedaliero poco sensibile alle delicate condizioni delle neomamme.

Come nel caso di Elisa, una giovane mamma, trovatasi a partorire nel periodo della pandemia all’ospedale centrale di Bolzano: “Il parto in sé non è stato particolarmente complicato, ma i giorni immediatamente successivi sono stati terribili. Ho avuto difficoltà nell’allattamento, ma il personale ospedaliero si è dimostrato sbrigativo ed insensibile, liquidando la questione come un problema di inadeguatezza personale. In seguito al parto si sono poi verificate delle complicazioni, che mi hanno portato ad affrontare dei nuovi interventi, in un vortice di incontri con diversi ginecologi della struttura, sia uomini che donne, i quali hanno ripetutamente minimizzato il mio dolore, fino a negare la conoscenza che io stessa avevo del mio corpo, in nome di una superiorità professionale assolutamente non riscontrata. Durante l’ultimo intervento l’intero personale ha ignorato il mio dolore e le mie difficoltà, tanto da arrivare a perpetrare dei trattamenti senza procedere con una comunicazione adeguata. Nonostante il mio corpo riflettesse ampiamente la mia paura e la mia tensione, non ne è stato tenuto conto, nessuno nella stanza è intervenuto, anzi l’intera operazione si è svolta in fretta, come a voler chiudere un lavoro da smaltire. Quest’esperienza mi ha profondamente traumatizzato, non solo per il dolore fisico che ho provato per mesi, ma anche per il trauma psicologico che mi è stato arrecato. Purtroppo so che il mio non è un caso isolato, ma le altre mamme hanno difficoltà a parlare, e io stessa ne sto uscendo dopo un lungo periodo.”

Il muro di solitudine che circonda le madri sta iniziando ad essere scalfito, grazie anche al lavoro instancabile dei centri d’ascolto e dei consultori, che spesso però non vengono finanziati e si trovano a dover combattere con carenza di fondi e personale. Un’importantissima opera di vicinanza a donne e madri viene svolta da strutture come AIED Bolzano o da Il Melograno di Bronzolo, che dimostrano la propria partecipazione e il loro aiuto alle donne della provincia tutto l’anno. Ma ormai non è più il 25 novembre, possiamo aspettare il prossimo anno per ricordarcene.