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Gesellschaft | Avvenne domani

Scrivere di suicidio

Si ripropone un'antica questione: parlare, e come, della scelta di chi decide di togliersi la vita?

Sono passati ormai quasi trent'anni da quel settembre del 1990 quando il problema del suicidio giovanile in Alto Adige esplose in tutta la sua drammaticità. Tre ragazzi abitanti in una delle zone più periferiche della provincia decisero di togliersi la vita, assieme, respirando i gas di scarico di un'auto. Nelle settimane successive vennero altri episodi che indussero molti a puntare il dito contro gli organi di informazione, che avevano ovviamente riportato con grande evidenza l'avvenuto, accusandoli di aver scatenato una sorta di delirio di imitazione.

Quello del rapporto tra l'informazione e il fenomeno del suicidio è uno dei terreni più delicati nei quali capita di doversi inoltrare quando si affrontano i problemi legati alla diffusione di notizie di un certo genere. È una questione di grande rilevanza sociale e di immediata urgenza professionale per chi opera nel campo del giornalismo, su qualsiasi mezzo esso venga praticato.

Se ne riparla in questi giorni, in Alto Adige, sulla base di uno studio scientifico centrato in particolare proprio sul fenomeno dei suicidi giovanili, ma va detto che il problema è antico, così come è annosa la questione su quale sia l'approccio corretto nel trattare, sui giornali, in radio e in televisione, oggi anche sulla rete, problemi così particolari.

Varrà la pena ricordare, tanto per inciso, che fu il regime fascista a bloccare, durante il ventennio, ogni tipo di notizie riguardanti persone che si toglievano la vita. In precedenza, e per confermarlo basterebbe sfogliare anche le annate dei quotidiani pubblicati nel vecchio Tirolo, i suicidi erano regolarmente segnalati, con l'eccezione ovviamente di quelli che, coinvolgendo personaggi di un certo rilievo, venivano tenuti rigorosamente nascosti. Mussolini, per bloccare questo genere di notizie, come del resto quelle della cosiddetta "cronaca nera" voleva semplicemente impedire che i giornali riportassero un'immagine della società poco compatibile con quella dipinta dalla propaganda di regime. Sotto il fascismo non si poteva essere depressi così come non ci si poteva abbandonare  alla violenza e alla malvagità.

Forse per reazione alla museruola che aveva impedito loro di parlare liberamente della cronaca nera per così tanti anni, i giornalisti italiani, a partire dall'immediato dopoguerra,riempirono i loro quotidiani con i resoconti più truci. Anche qui basta scorrere le annate dei giornali per rendersi conto di come ogni remora fosse caduta. Anche per i suicidi non erano previste eccezioni. Gli avvenimenti venivano raccontati nel modo più crudo, con ampie digressioni sulla personalità dei protagonisti, indicati regolarmente con nome, cognome e indirizzo di casa.

Il concetto di privacy, che oggi domina il lavoro di chi fa informazione, era del tutto sconosciuto e non vi era ancora traccia di quelle regole deontologiche stringenti che, oggi come oggi, obbligano i giornalisti a misurare attentamente sostantivi ed aggettivi quando scrivono gli avvenimenti che coinvolgono singole persone. Il processo attraverso il quale questi principi sono venuti ad essere fissati sulla carta e, più ancora, a diventare patrimonio generalmente osservato da parte di tutti gli operatori dell'informazione è abbastanza recente ed è venuto a realizzarsi anche a causa del dibattito suscitato da avvenimenti drammatici come quelli del settembre 1990 in Alto Adige e delle polemiche ad essi seguite.

Se la questione di come trattare giornalisticamente il tema dei suicidi è quindi annosa, non meno antico è il tema sulla particolare incidenza del fenomeno di coloro che si tolgono la vita della società altoatesina.

Va fatta una premessa: le statistiche sui suicidi, specie quelle rilevate nei decenni passati, vanno prese con molta cautela. È più che fondato il sospetto che in parecchi ambienti sociali, dove i condizionamenti sociali e la presenza di un radicato credo religioso assegnavano al gesto di togliersi la vita uno stigma fortemente negativo, ogni sforzo venisse profuso nel nascondere all'ufficialità, e quindi anche alla statistica, le vere cause di morte di una persona. Anche tenuto conto di questo elemento, comunque, è abbastanza accettato il dato secondo il quale il numero dei suicidi tende a salire man mano che da sud ci si sposta verso nord. Non deve stupire troppo quindi il dato secondo il quale, in Italia, l'Alto Adige presenta un numero di suicidi rilevati superiore a quello di altre regioni. I dati statistici  sull'andamento del fenomeno  sono reperibili facilmente per quanto riguarda l'Italia consultando l'archivio dell'ISTAT, mentre per quel che riguarda la situazione mondiale è di particolare interesse un documento elaborato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità sulla salute mentale.  I dati relativi all'Alto Adige sono riportati infine su una pubblicazione dell'ASTAT.

Il grido di allarme lanciato recentemente e rinnovato proprio in questi giorni da una rete di associazioni che si propone di porre un argine al fenomeno dei suicidi giovanili e che chiede impegno e risorse per un lavoro approfondito da condurre nella scuola e nelle famiglie, non sposta assolutamente il problema di come trattare questo tema sui mezzi di comunicazione.

In questo, come molti altri casi,  l'imperativo fondamentale è quello di ignorare ciò che vorrebbe il vasto pubblico dei lettori di giornali, dei telespettatori, degli ascoltatori di trasmissioni radiofoniche o di coloro che traggono informazioni dalla rete. Più gli avvenimenti sono drammatici, e il suicidio di un giovane lo è in massimo grado, più su quel fatto si esercita una curiosità morbosa nutrita oltremisura dal modo con il quale certe fonti hanno preso a trattare la cronaca nera negli ultimi decenni. Penso soprattutto a certe trasmissioni televisive che quotidianamente servono al loro pubblico un nefasto pastone fatto di particolari sanguinosi e pettegolezzi para giuridici. Più giustificato, ma non per questo da soddisfare, il desiderio umano di capire che cosa si nasconde dietro un gesto così estremo per allontanare da sé il molesto timore che un evento così drammatico possa toccare anche il proprio mondo di affetti.

Da queste considerazioni , unite all'obbligo fondamentale del rispetto verso la sfera privata di chi compie un gesto di questo genere e delle persone a lui legate da vincoli familiari o affettivi, nasce dunque la regola fondamentale, abbastanza rispettata nel giornalismo odierno, secondo la quale dei suicidi, come singoli avvenimenti di cronaca, non si dà notizia, a meno che, per la qualità di personaggio pubblico di chi li mette in atto o per le modalità particolarissime con cui vengono attuati, il diritto/dovere di cronaca non prevalga sulle motivazioni al silenzio che abbiamo esposto.

Un esempio valga per tutti: il suicidio diventa fatto pubblico, anzi politico, quando chi lo compie decide di parlarne, come è avvenuto in Italia recentemente in diversi casi, per reclamare il diritto a por fine alla propria esistenza.

Occorre questo punto domandarsi, e l'iniziativa di queste settimane dei gruppi altoatesini porta in questa direzione, se il non parlare mai dei singoli casi di suicidio possa portare ad un'ignoranza diffusa sulla gravità del fenomeno, ad una sottovalutazione dei suoi aspetti particolari come quello, appunto, dei suicidi giovanili.

Il pericolo esiste e quindi va accolto l'invito a discutere e soprattutto a fare qualcosa di concreto per cercare di intercettare il malessere prima che divenga tragedia. Chi scrive resta convinto, e a rafforzare questa convinzione sono le esperienze professionali vissute proprio a partire da quei tragici avvenimenti del settembre 1990, che la parola suicidio, sui mezzi di comunicazione di massa, andrebbe utilizzata con estrema cautela, nel minor numero di occasioni possibile. Sbaglierò ma continuo a ritenere che la suggestione che conduce ad imitare i comportamenti altrui resti un pericolo reale.

Prendiamo ancora una volta in considerazione il problema dei giovani. È indubbio che il suicidio è lo sbocco forse più terribile di un percorso di disagio personale probabilmente assai prolungato nel tempo, ma non è sicuramente l'unico. L'utilizzo di sostanze psicoattive, l'alcolismo precoce, l'isolarsi dal resto della comunità per vivere solamente sui "social", sono altre e non meno preoccupanti manifestazioni di questa "fatica di vivere" che strazia l'anima di chi invece dalla vita avrebbe tutto da attendersi. È un aspetto del male oscuro della nostra società che non risparmia nessuno. Da uno studio sui suicidi in Alto Adige realizzato non molti anni fa emergeva però un dato non meno allarmante: il maggior numero di atti disperati coinvolgeva (credo che le cose nel frattempo non siano cambiate) uomini in età avanzata, abitanti nelle zone periferiche, rimasti soli, ad esempio, per la morte della moglie. Anche in questo caso, come in quello dei suicidi giovanili, il gesto estremo non è che la spia di un fenomeno sociale molto più ampio che, anche quando non arriva alle sue conclusioni più drastiche, è il riassunto di un' impotente solitudine e di un'infelicità senza prospettive.

Forse più che del fenomeno dei suicidi in sé, è su tutto questo i mezzi di comunicazione dovrebbero indagare, ed è di tutto questo che la comunità dovrebbe farsi carico.