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Proletari in divisa

Di naja si moriva, anche in Sudtirolo: Sergio Sinigaglia racconta il libro “S'avanza uno strano soldato. Il movimento per la democratizzazione delle Forze armate”.
Proletari in divisa, PID, Roma
Foto: Tano D'Amico/Facebook

Un libro dedicato a Franco Travaglini, “compagno che ci ha lasciato il 24 marzo 2021 e la cui scomparsa ha dato il via a questo progetto. Fu il padre nobile del movimento, tra i primissimi a occuparsi della democratizzazione delle Forze armate”, racconta uno dei tre autori, Sergio Sinigaglia, dal 1976 al 1978 redattore del quotidiano “Lotta Continua”. Facendo leva sulla tesi della storica friulana Deborah Gressani, è così nato S’avanza uno strano soldato. Il movimento per la democratizzazione delle Forze armate (1970-1977), ed. DeriveApprodi. “Ci fu una prima fase del movimento”, prosegue Sinigaglia, “in parte clandestina e in parte no, riconducibile ai Proletari in divisa: un’emanazione di Lotta Continua, che portò la prima ventata di ribellione nelle caserme, con scioperi del rancio e proteste spontanee. Perché di naja si moriva, per le condizioni materiali delle caserme, o di meningite. E poi c’erano istanze anti-repressive, la funzione di sentinella rispetto a tentativi di colpi di stato”. La seconda fase prese avvio con il colpo di Stato dell’11 settembre 1973 in Cile, “oggetto di dibattito e riflessione”, e la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo nel 1974 “dove le forze armate esercitarono una funzione rivoluzionaria senza spargimenti di sangue”. L’11 settembre del 1974 si tenne a Roma una manifestazione della sinistra extraparlamentare, “decine e decine di soldati marciarono in pubblico con il pugno chiuso. Compagni che sfidarono le gerarchie militari, la polizia politica, la questura. Ciò sancì un salto di qualità enorme per il movimento”.

 

Sergio Sinigaglia
Il libraio e giornalista marchigiano Sergio Sinigaglia: è co-autore del libro "S'avanza uno strano soldato".

 

SALTO: Sinigaglia, torniamo un attimo indietro e ci parli un po’ di lei.

Sergio Sinigaglia: Ho quasi 69 anni e sono in pensione. Ho lavorato per 23 anni, fino al 2001, nella Cooperativa Libraria Universitaria di Ancona, che è la mia città. Da 6 anni vivo a Senigallia, perché mia moglie è originaria di lì. Sono stato anche giornalista, collaborando con testate di vario genere, dato che in passato avevo avuto un’esperienza professionale per il giornale di Lotta Continua, mentre dal gennaio 2002 al novembre 2013 ho lavorato in una società di comunicazione. Sono da sempre un attivista sociale, a partire dagli anni ’70 e passando per il movimento cosiddetto “No Global”. Il mio riferimento è il circuito dei centri sociali: a Senigallia sono impegnato nel “Arvultura”. Ho scritto anche altri libri sugli anni Settanta.

Nelle caserme, racconta, era vietato fare politica. Permaneva una struttura gerarchica fascista che aveva ereditato i quadri dal regime, una struttura fortemente nazionalista e perciò molto autoritaria. Qualcuno reagì a tutto questo, ma pochi se lo ricordano…

È un movimento che è stato rimosso, sconosciuto soprattutto a chi ha meno di 50 anni, mentre chi appartiene alla mia generazione lo conosce almeno in parte. Questo libro è il tentativo di valorizzare un'esperienza che a mio avviso è tra le più positive e importanti di quegli anni. Un progetto nato casualmente, ma non ancora esauriente: bisogna tenere conto che molti protagonisti di allora non ci sono più e non è facile ricostruirne la storia. Certo, c’è l'archivio di Lotta Continua, ci sono le fanzine. Ma per esempio a Livorno un nostro compagno della sede di Lotta Continua aveva fatto un lavoro particolare (e non semplice) sui Parà, notoriamente un corpo difficile, e in particolare sulla formazione dei “Parà democratici”. Sui Lagunari pure non abbiamo nulla. C’è infine il Sud, anche se il grosso stava al Centro-Nord, in particolare in Friuli per via della Guerra fredda. Il nostro lavoro può essere anche uno stimolo per ulteriori ricerche e approfondimenti.

Come mai su altri movimenti dell’epoca (femminista, studentesco, operaio) c’è effettivamente molta produzione saggistica e letteraria, mentre è minore su quest’argomento?

In effetti anche la saggistica migliore non ha trattato questa vicenda, se non all'interno magari di singoli capitoli dentro monografie o autobiografie. Una saggistica in ogni caso minoritaria, perché purtroppo la narrazione che s’è formata in questi decenni è legata a questo concetto (pessimo) di “Anni di piombo”. Come diceva un mio caro amico, il giornalista Loris Campetti, in realtà è il piombo che si è portato via i nostri anni. Personalmente, non ho una visione apologetica né unilaterale di quel periodo, che fu anche pesante e drammatico. Però una narrazione unicamente a tinte fosche è del tutto errata, perché sono stati anche anni di conquiste importanti. Erri de Luca, in un documentario su Lotta Continua andato in onda su Raiplay, alla classica domanda sugli Anni di piombo, ha proposto di parlare di “Anni di rame”, nei quali i movimenti davano energia, elettricità. Una definizione secondo me molto efficace.

Il piombo si portò via i nostri anni. Ma i movimenti davano energia, furono anche 'Anni di rame'

 

Proletari in divisa, PID
"Da quando son partito militare...": il libro, a cura dei Proletari in Divisa, raccoglie testimonianze dirette sul servizio di leva, lettere, cronache delle lotte contro l'istituzione militare, l'isolamento dei soldati, la "fascistizzazione dello stato" e i legami allora strettissimi tra esercito ed estrema destra. La sezione finale è dedicata alla controinchiesta sulla tragica morte di sette alpini avvenuta in Val Venosta nel febbraio 1972.
 

 

Un movimento che ha ottenuto delle conquiste?

La rivendicazione principale, ovvero il diritto all’organizzazione, in quel periodo non è stata accolta. Però in compenso alcune istanze minori lo sono state: da quella di uscire senza più abiti militari a una maggiore tolleranza rispetto a una serie di agibilità democratiche all’interno delle caserme. Soprattutto c'è stato poi un ricambio di quadri professionali rispetto a quelli legati al regime fascista, in favore di quadri tecnici più moderni, atlantisti però anche apparentemente un po' più “democratici”. Quindi alcune cose sono cambiate. Infine, come noto, nel 2001 il servizio di leva è stato abolito ed è passata la linea dell'esercito strettamente professionale, in un contesto nel quale fortunatamente le strategie della tensione e i rischi di golpe sono scomparsi — anche perché ormai abbiamo i fascisti al governo…

Perché Friuli e Sudtirolo sono importanti all'interno di questa vicenda?

Sono stato in Friuli dopo il servizio di leva per fare lavoro politico fuori dalle caserme. Lì c’era la maggior parte dell’esercito italiano. Una testimonianza (che non abbiamo inserito nel libro) parla del Friuli come “la Mirafiori dei soldati”. Pure in Trentino-Alto Adige c'erano 22 mila militari. Il fronte del Nord-est aveva questa presenza del servizio militare che, nel bene e nel male, ha pesato notevolmente sul tessuto civico, economico e sociale di queste aree territoriali, che hanno vissuto lotte e mobilitazioni. Come ci insegna l'esperienza della classe operaia del Nord degli anni ’70, la grande concentrazione di nuovi lavoratori, con l’operaio-massa, aveva prodotto le lotte che conosciamo. Allo stesso modo, la concentrazione di soldati di leva ha prodotto istanze di base che si sono sviluppate e affermate.

Il Friuli fu 'la Mirafiori dei soldati'. La concentrazione di soldati di leva ha prodotto istanze di base che si sono sviluppate e affermate.

L'episodio tragico dell’Alta Venosta (sette soldati morti sotto a una valanga durante un’esercitazione, il 12 febbraio 1972) fu un passaggio estremamente significativo…

La Val Venosta fu un evento molto significativo ed emblematico del fatto che “di naja si moriva”. Per un ragazzo che s’inseriva in un contesto nuovo, noi eravamo dei privilegiati, perché militanti: dove andavamo trovavamo un riferimento esterno alla caserma, anche amicale. “Avevamo i compagni” sebbene in una prima fase fosse più pericoloso. I ragazzi che arrivavano dalla Sicilia o dalla Puglia e si trovavano in Friuli, in Valle d'Aosta, in Alto Adige, vivevano un trauma e in più si trovavano in condizioni materiali molto gravi, in caserme fatiscenti dove si moriva, si prendeva la meningite. E poi c'erano le esercitazioni, che spesso si concludevano drammaticamente. Quella in Alta Venosta non si doveva fare, le condizioni meteo erano proibitive, e nonostante questo fu dato l'ordine di andare, così morirono sette alpini tra cui c’erano militari di leva. Fu un evento piuttosto forte, con risonanza nazionale poiché per il movimento fu l’ulteriore dimostrazione dei rischi che si correvano facendo il servizio leva. Anche Alexander Langer diede un contributo importante al movimento, insieme a Franco Travaglini.

 

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La prima pagina dell'Alto Adige: morirono travolti da una valanga nella Zerzertal un 27enne (Duilio Saviane) e sei 21enni (Domenico Marcolongo, Romeo Bellini, Davide Tognella, Gianfranco Boschini, Valdo del Monte, Luigi Corbetta).

 

C’è un’interessante triangolazione di eventi che lei ha citato: il golpe militare in Cile con la deposizione di Allende, la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo e infine il terremoto del Friuli. Come e perché questi tre eventi hanno impattato sul Movimento?

Il Cile ha prodotto una riflessione ampia e profonda nella sinistra internazionale e nazionale. In Lotta continua, per esempio, ci fu la convinzione che un governo di sinistra favorisse le lotte e non le soffocasse. Tant'è vero che noi arrivammo — nonostante lo scontro politico con il Partito Comunista che caratterizzava l'estrema sinistra di allora — alla parola d’ordine del PCI al governo. Per i movimenti, il Cile fu soprattuto la conferma che nel momento in cui la sinistra pratica delle politiche di avanzamento, poi si interviene usando i militari. Quello che stava in parte accadendo con la “strategia della tensione”, anche se nel 1973 s’era frenata questa dinamica omicida e s’apriva una nuova fase. Rispetto alla strategia del movimento dei soldati (e non solo), il timore di una precipitazione o di uno scontro stava evaporando. Anche per questo il movimento dei soldati puntò più su una strategia graduale e “riformista”, tra virgolette, quindi non più allertandoci nel caso s’arrivasse a uno scontro frontale (dove i soldati giocavano un certo ruolo) bensì una strategia più sindacale, riformista appunto. Si chiamò “Movimento dei soldati democratici” proprio perché si voleva dare la dimensione articolata e “di massa” che il movimento stava assumendo. La “Rivoluzione dei Garofani” in Portogallo, fu un’ulteriore conferma, con la spinta dell’anti-colonialismo in Mozambico, Angola e Guinea. Fu “l’anti-Cile”: l'unità tra popolo e soldati poteva portare a un progresso.

Il Portogallo fu “l’anti-Cile”: l'unità tra popolo e soldati poteva portare a un progresso.

E il terremoto in Friuli del 1976?

Un evento tragico come il terremoto del Friuli fu determinante, rispetto alle gerarchie militari che volevano tenere i soldati chiusi in caserma e mandare a operare solamente i quadri professionali. I soldati invece vollero andare nelle zone terremotate per aiutare la popolazione civile, e si creò così un forte connubio tra società civile e soldati. Prima ancora ci fu la giornata del 4 dicembre: una chiamata nazionale di lotta, importantissima perché fu un evento unico e culminante prima di una graduale fase di riflusso. Noi lo chiamavamo “sciopero nazionale”, in realtà fu una serie di singole iniziative in tutte le città in cui il movimento era presente. Alla Spezia facemmo un incontro pubblico sul primo tentativo di riforma delle Forze armate, che noi contestavamo perché non accoglieva sufficientemente le nostre richieste (infatti poi fu modificata ulteriormente). Altrove ci furono iniziative di lotta.

 

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„Di naia si muore“: la controinchiesta di Lotta Continua sulla morte degli alpini in Alta Val Venosta.

 

La riflessione sull’esercito è quanto mai attuale. Come giudica ad esempio la sospensione del servizio di leva, ora che al governo c’è chi vorrebbe ripristinarlo?

L’abolizione dell’esercito di leva lo giudico positivamente, perché la leva era per molti traumatica (al di là del fatto che per me è stata l'esperienza politica più importante, insieme a una più recente occupazione di case ad Ancona). Non c'è dubbio però che questo passaggio abbia accelerato l'uso professionale dell’esercito. Non siamo più a rischio golpisti, però come sappiamo le guerre si fanno e oggi abbiamo eserciti professionisti che fanno la guerra — spesso e volentieri come eserciti di occupazione. È l’altra faccia della medaglia. Detto questo, credo che un esercito (per esempio europeo) possa avere una funzione di riequilibratore, di interposizione: di fronte a una pulizia etnica, bisogna frapporsi per impedire stragi di civili. Fu il caso dell’ex Jugoslavia. Ma sono e restano eccezioni che confermano la regola.

 

 

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Alessandro Stenico So., 17.09.2023 - 10:35

Il Governo Andreotti con il sostegno estero del PCI, poco dopo l'assassinio di Aldo Moro, approvò una prima riforma del servizio di leva obbligatorio.
Dal 1978 i militari di leva furono autorizzati ad andare in libera uscita in abiti civili. Tale autorizzazione venne concessa con la legge 11 luglio 1978, n. 382, «Norme di principio sulla disciplina militare»
Era uno dei primi successi, sotto la spinta pacifista e libertaria dei giovani coscritti.
Ma fu durante il governo Berlusconi II che si fissò la sospensione delle chiamate per lo svolgimento del servizio di leva a decorrere dal 1º gennaio 2005. Egli anticipò il decreto legislativo del governo Amato II.
Qui in Sudtirolo pochi rimpiangono quel periodo, anche se per molti giovani uomini di entrambi gruppi linguistici rimase uno dei pochi periodi di vita condivisa.
Ai nostri confini più vicini dall'Austria alla Svizzera, permane la coscrizione obbligatoria, così come in altri paesi europei: Danimarca,Estonia, Finlandia, Lituania, Svezia (qui anche per le donne), Cipro e Grecia.
La reintroduzione della leva obbligatoria così come ventilato da Salvini non solo «non risolverebbe i problemi del comparto difesa italiano» ma rischierebbe, al contrario, di «creare complicazioni organizzative nei Comandi».
«Per risolvere i problemi del comparto militare è importante puntare sulla qualità, sulle competenze e sulla preparazione, non solo sulla quantità di personale»

So., 17.09.2023 - 10:35 Permalink