Kultur | Dal blog di Vanja Zappetti

Rolling Stones a Roma: Io c'ero

Degli amori, dei padri, dell'amicizia, delle tribute band come sintomo incolpevole del declino del rock, della differenza tra archetipo e stereotipo e di ciò per cui valga la pena vivere.
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PROLOGO

Il concerto è a Roma, lontano.
Costa un sacco di soldi, sommando biglietto e trasferta.
Va tutto esaurito in quattro giorni peraltro, dicono gli organizzatori. 
E però.

Però si dà il caso che ce lo si riesca a guadagnare, questo concerto. Spunta la chance di un lavoretto, niente di qualificante, anzi un che di massacrante a ben guardare: vendere birra e bibite, camminando tra la folla assiepata in attesa del concerto, all'americana. Sotto il sole cocente. Dieci ore. Con una vasca da dieci chili al collo.

Ma ok, si fa.

Anzi, pure con un certo entusiasmo, perché la febbre da evento speciale sale, e la voglia è tanta.
Quindi si avvisano gli amici potenzialmente interessati, qualche posto disponibile c'è, più d'uno s'associa volentieri, addirittura tocca lasciarne qualcuno a casa perché l'ha saputo troppo tardi, o non ha i requisiti.

Siamo in quattro: un plurilaureato docente, un consigliere comunale e quasi provinciale, un direttore d'ufficio universitario ed un dottore di ricerca in storia moderna e contemporanea. A fare un lavoretto massacrante da studenti sottopagati. Per i Rolling Stones.

That's truly f*ckin' rock'n roll, baby.

 

IL CIRCO MASSIMO

Una meraviglia. Il solo entrarci.

Certo le ripette sulle quali si siederà la gente, ciò che nell'antichità sosteneva le gradinate da 200.000 persone, sono piuttosto ripide.

E scoprire che il pozzetto per i rifornimenti si trova in cima ad una di queste, fa scattare in testa un elenco di santi che nemmeno mia prozia Immacolata conosceva così bene. Ma vabbè, ci siamo, balliamo.

Il palco è splendido, il sistema audio spettacolare anche solo a vedersi, e via via le ore passano, le birre si vendono, si incontrano persone che non si vedevano da anni, provenienti dai più disparati posti dello stivale. 

"Ma cazzo fai, vendi birra, tu?" - "Eh, amor... it's only rock'n roll, but I like it!"
Pause poche, sudore abbondante, il pensiero al concerto che verrà.

Poi di colpo sono le 20.00, parte John Mayer che apre la serata e ci si rende conto che, in piena trance agonistica, il tempo è volato.
Ed è volata anche la birra, esaurita (incredibile, il capo ha decisamente bisogno di un project manager, come si fa ad esaurire la birra in pieno centro a Roma quasi due ore prima dell'inizio del concerto?!?).

Si fa appena in tempo ad espletare un po' di burocrazia che Mayer finisce, gli Stones iniziano.

 

CONCERTO

Bomba.

Effetti e luci, come da attese, ma senza strabordare. Una voce a scandire l'intro, "Friends, Romans, Countrymen, would you please welcome the Rolling Stones!"

Jumpin' Jack Flash, per iniziare. Invitando nella storia i 70mila e più presenti, un tuffo istantaneo nel mito.

E poi via a sciabordare, Let's Spend The Night Together, It's Only Rock'n'roll e gioiellistica varia di casa Jagger/Richards.

Il concerto lo vedo a fianco di uno dei miei più grandi amici, uno di quelli con cui hai condiviso gli anni dell'università, i primi, quelli da studente affamato di esperienze. Uno di quelli che hanno tenuto tuo figlio in mano a due giorni di età, o che sei andato ad abbracciare quando a sua volta è diventato padre, uno di quelli che vedi oggi una volta ogni paio d'anni quando va bene, perché la vita ti ha riportato altrove. Un grande fan dei Rolling Stones, ed il semplice fatto di essere lì in quel momento assieme, dopo una faticata enorme fatta da entrambi per esserci, ognuno a 700 differenti km dalla propria casa, aumenta il piacere. Ed il fatto di essere ad un metro da miasmatici bagni chimici non disturba, anzi, rende il tutto ancor più rock'n'roll.

Poi il pensiero vola ad un amico enorme che non c'è più, Fausto, con il quale gli ascolti adolescenziali di cassettine Rolling Stones furono mille:  avrà assistito al concerto ballando e saltando in qualche dove, non ne ho dubbi. E con lui mio padre, che non era fan degli Stones, no. Nemmeno troppo dei Beatles, peraltro. Santana, ecco. Ma al di là del gusto, avrebbe goduto un mondo nel sapere suo figlio così felice, di quella felicità che solo un genitore può conoscere. E poi ancora il pensiero ai vari amori, quelli che hanno lasciato ricordi belli o meno belli, quelli finiti e quelli in evoluzione, tutte donne che un concerto dei Rolling Stones l'avrebbero visto volentieri.

Jagger si muove avanti e indietro su una passerella enorme, macinando metri come una gazzella senza fermarsi mai. Parla in italiano, senza nemmeno leggere, da frontman senza pari. D'altronde, è Mick Jagger. Dice che l'Italia batterà l'Uruguay 2-1 e vincerà i mondiali, e 30.000 mani a toccarsi le scaramanzie non sono evidentemente bastate. Ha una voce decisamente in forma. Settant'anni, quasi settantuno. Età non raggiunta da alcuno dei miei nonni. E questo sembra un ballerino da Studio 54. Non credo sia stata la vita salutista, no. Certo Keith Richards un po' anzianotto lo è. O meglio, sembra un personaggio da Signore degli Anelli, Keitholas. O lo zio vecchio della Regina Elisabetta. Ma caduto in una botte di acido da piccolo, per i colori sgargianti e l'attitudine hippy rock. Ecco, una delle prime considerazioni: arriverò - a Dio piacendo - a settant'anni e continuerò a vestirmi come più mi garba e più mi garbava quando ne avevo venti. Magari non suonerò davanti a 70.000 persone, ma questo c'entra meno. 

E proprio mentre penso a ciò, d'improvviso un'illuminazione: durante Honky Tonk Women, Jagger si permette un "city" pronunciato in maniera tale che se l'avesse pronunciato il cantante di qualsiasi tribute band sarebbe stato licenziato in tronco. Un "city" che suona come un cockneyssimo "seehdeeeh", straordinario istante di personalizzazione, lingua(ccia) viva e non lingua morta. Qui nel video, al minuto 1.08 

Strepitoso, nel suo essere attimo così inifinitamente piccolo e contemporaneamente così significativo. La dimostrazione che nessuna tribute band mai raggiungerà il proprio necessario obiettivo, la replica; semplicemente perché l'obiettivo è inafferrabile. Gli Stones non suonano perfetti. Ed è bellissmo così, perché si parla di arte, di comunicazione, non di copisteria a moduli sonori. Archetipo vs stereotipo.

E ciò ovviamente vale per qualsiasi altra band originale, quantomeno nella musica l'eccezione crea la specialità, la regola porta al manierismo. E purtroppo mi rendo conto contemporaneamente di non aver mai sentito il vero Bach e che di giovani Rolling Stones non ce n'è più, o quasi. E la considerazione vola al successo commerciale e popolare delle imitazioni, di esecutori a volte anche tecnicamente bravissimi, che però sono il chiaro sintomo della stagnazione artistica, drammatica, del rock. E temo che ciò che è successo alla musica classica, ascesa e declino creativo nel giro di qualche secolo, stia succedendo al rock in qualche decade. Rock is dead, dicevano già 30 anni fa. Sicuramente una mazzata gliel'ha tirata internet con la depauperazione del valore intrinseco che ha prodotto. Sicuramente farò del mio meglio per mantenere alta l'attenzione sugli spiragli di luce che appaiono di quando in quando. Ma certo non posso definirmi ottimista a riguardo.

 

EPILOGO

Una scaletta epocale, poco spazio a brani minori, anche se chiaramente qualche sacrificio ha luogo (Paint It Black, porca paletta). 

Una sequenza di storia della musica, suonata a più di 50 anni dal primo concerto della band, in modo vivissimo, rude come il rock deve essere, con chitarre alte e perfino sguaiate, energia a quintali e tutto corredato dalla chiara consapevolezza che si ha a che fare con dei settantenni. I Glimmer Twins Jagger/Richards che quando semplicemente li vedi interagire di sguardi e pensi a cosa da quell'intesa è scaturito, direttamente e indirettamente, vieni trafitto e fatto vibrare dal demone del rock. E lo schivo Charlie alla batteria, che ancora si fa sentire un bel po'. E Ron Wood, che siccome fa parte della band da solo 40 anni allora è condannato al ruolo del pischello. E una band eccellente, ci mancherebbe altro, a spalleggiare il tutto, con tanto di Lisa FischerMick Taylor e Bobby Keys. Una Midnight Rambler enorme, Sympathy For The Devil da far accapponare la pelle e pietrificare le corde vocali dei settantamila che cercano di prendere bene le note dell'"ooh ooh" senza ovviamente riuscirci. E poi la piccolissima pausa prima dei bis, You Can't Always Get What You Want con introduzione ad hoc del Coro Giovanile Italiano ed il finalone, tanto scontato quanto atteso, di I Can't Get No (Satisfaction), una delle canzoni più importanti - al di là del gusto - della storia della musica leggera e non. E l'immagine finale, dal palco, è un Keith Richards che bacia e accarezza la sua chitarra (07.38 qui ), a mo' di rituale di ringraziamento nei confronti di colei che gli ha concesso di essere lì quella sera, ed altrove nei 50 e più anni precedenti.

Tutto finito, tutto vero, tutto continua nel suo ricordo, ed io, distrutto ma entusiasta, ricorderò.

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Profil für Benutzer Christoph Franceschini
Christoph Fran… Sa., 28.06.2014 - 09:34

C e tanta gente Che scrive di musica Senza sentirla veramente (nel Senso di fühlen). Ho visto i Stones negli ultimi 30 anni una dozina di volte. Non sono andato a roma, pero il tuo articolo mi e una consolazione belissima. Il pezzo e piu Che degno di un lick sporco di kieth, del beat zoppicante di charlie e del Cockney di Mike. Grazie vanja e voglio leggere di piu (Rock) su Salto.
Its only zappetti, but we like it!

Sa., 28.06.2014 - 09:34 Permalink