Società | Discriminazione

Tollerare chi non tollera?

La normativa penale di contrasto alla discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi
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Foto: Pixabay

“Basta usurai – basta stranieri”, recitava un volantino elettorale diffuso in Italia. E un esponente politico: “Sinti e Rom hanno una certa cultura tecnologica nello scassinare gli alloggi della gente onesta”, sicché mettere una mano sul portafogli per essere sicuro che non te lo portino via sarebbe “un riflesso pavloviano dettato da un’esperienza secolare”.

Libertà di espressione? Oppure discriminazioni rilevanti penalmente?

Di queste due affermazioni si è occupata la Corte di cassazione. Perché in Italia è presente una normativa penale di contrasto alla discriminazione. Per ora, limitata a quattro motivi: etnia, “razza”, origine nazionale e religione.

 

I delitti contro l’uguaglianza

 

Il contrasto penale alla discriminazione ha avuto inizio in Italia con la legge n. 651 del 1975, che ha ratificato la convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. La normativa è stata modificata nel 1993 dalla cosiddetta legge Mancino, per venire quindi recentemente incorporata nel codice penale. Due sono le disposizioni cruciali.

La prima la si trova all’art. 604-ter del codice, il quale aggrava fino alla metà la pena per chi abbia commesso un qualsiasi reato per motivi di discriminazione razziale, etnica, nazionale o religiosa. Si tratta pertanto di una aggravante, che aumenta pesantemente la sanzione per chi delinque per tali quattro motivi.

La seconda disposizione è il reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa, previsto all’art. 604-bis del codice penale. Questo prevede più condotte, tra loro molto diverse.

 

La violenza discriminatoria

 

La norma punisce innanzitutto chi “istiga a commettere, o commette, violenza o atti di provocazione alla violenza” per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Con “istigare” si intende, in questo contesto, indurre una persona a commettere concretamente un’azione. La sanzione prevista (la reclusione da sei mesi a quattro anni) è la stessa sia per chi commetta violenza, sia per chi istighi a commetterla; nonostante, a rigore, la gravità del comportamento sia diversa. L’istigazione sarà però rilevante, secondo la giurisprudenza, soltanto quando ad essa segua un “concreto pericolo” di atti violenti.

 

Gli atti di discriminazione

 

Dopodiché, la disposizione punisce chi “istiga a commettere, o commette, atti di discriminazione” per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Non è specificato cosa si intenda con “atti di discriminazione”, sicché si usa far riferimento all’ampia definizione fornita dalla convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. Questa vi fa rientrare qualsiasi distinzione che abbia lo scopo o l’effetto di compromettere l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Spetta ai giudici contemperare la genericità della norma – e i principi di pari dignità e non discriminazione che essa esprime – con altri importanti diritti e libertà: in particolare, con la libertà di espressione. La sanzione prevista è la reclusione fino a diciotto mesi, o la multa fino a 6.000 euro.

 

La propaganda dell’odio razziale o etnico

 

Nella stessa misura viene punito anche chi propagandi idee “fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico”. La norma è limitata a tali due motivi di discriminazione – razza ed etnia – in quanto la soglia di punizione è fortemente anticipata, sanzionando già chi esprima determinati pensieri. L’odio razziale o etnico, ha detto la Cassazione, non sarebbe tuttavia un qualsiasi sentimento di antipatia o insofferenza, bensì un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori.

 

L’aggravante di negazionismo

 

Infine, nel 2016 è stata introdotta una aggravante speciale per chi commetta azioni discriminatorie o violente negando, gravemente minimizzando o facendo l’apologia della Shoah, di genocidi o di crimini contro l’umanità, a condizione che ne derivi un pericolo concreto per la società. La pena è la reclusione da due a sei anni.

 

Non è tutto qua

 

La disciplina punisce pure la partecipazione ad organizzazioni che abbiano come scopo l’incitamento alla discriminazione o alla violenza. Ulteriori previsioni di contrasto a fenomeni discriminatori più precisi si rinvengono poi in altre parti dell’ordinamento penale: ad esempio, la legge-quadro sulla disabilità del 1992 aggrava la pena per alcuni reati se commessi contro persone con disabilità. Pure la legge c.d. “Codice rosso” del 2019 ha voluto tutelare maggiormente coloro che subiscono violenza domestica o di genere. Nonostante non menzioni espressamente l’intento discriminatorio, la legge ha aggravato le pene per certi reati di cui vittima sono spesso donne e soggetti vulnerabili: ad es. la violenza sessuale, lo stalking o i maltrattamenti contro familiari e conviventi.

Il Parlamento sta inoltre studiando un ampliamento dei delitti contro l’uguaglianza: se ora vengono punite discriminazioni e violenze basate su motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, la proposta vorrebbe estendere la normativa anche a discriminazioni vertenti sul sesso, il genere, l’orientamento sessuale e la disabilità. Di questo si tratterà la prossima settimana.

 

Contrastare la discriminazione, tutelando le libertà del singolo

 

Il giusto desiderio di assicurare effettive condizioni di uguaglianza ad ogni persona non deve far perdere di vista che vi sono pure altri importanti interessi pubblici e privati che richiedono tutela. Se da una si pone la tutela della popolazione da atti violenti, nonché la pari dignità e l’uguaglianza di ogni persona, dall’altra sono da tutelarsi, in particolare, la libertà di religione e quella di espressione. In quest’ultima rientra anche – e soprattutto – la libertà di proferire opinioni non in linea con il sentire comune.

Tutti tali diritti e libertà trovano protezione negli atti fondamentali del nostro ordinamento: dalla Costituzione italiana, al diritto internazionale – in particolare nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo –, fino alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che è parte del “diritto costituzionale” dell’Unione.

 

Bilanciare i diritti e limitare l’intervento penale

 

Tutta la questione consiste, in ultima analisi, in un bilanciamento tra interessi diversi e, astrattamente, tutti importanti. I diritti e libertà del singolo vanno bilanciati con quelli del prossimo e con gli interessi della collettività, facendo attenzione che tale bilanciamento sia ragionevole e non vada a limitare in maniera indiscriminata una posizione a favore di un’altra. Ciò non deve sorprendere: il concetto di limite è infatti insito in quello di diritto. In particolare, la libertà di espressione conosce un limite invalicabile nel rispetto dei valori fondamentali di una società democratica. Tutta la disciplina penale va pertanto interpretata nella maniera che meglio permetta di contemperare i vari interessi.

Dopodiché, l’intervento penale andrà circoscritto alle situazioni più gravi, dove l’offesa sia particolarmente seria e non sia possibile fornire efficace tutela con altri strumenti meno invasivi. Il diritto penale deve essere un rimedio estremo, non la regola per risolvere i conflitti sociali. Per rendere possibile ciò, è necessario che nelle altre situazioni di discriminazioni “minori” e latenti – le quali, ripetendosi nel tempo, producono un humus che sostiene la diffusione della violenza e della discriminazione – sia la società a darvi risposta, contrastando attivamente questi comportamenti.

Se si vuole preservare lo Stato di diritto non si può infatti accettare che importanti settori della popolazione non tollerino il prossimo, perlomeno quando ne scaturisca un pericolo effettivo per la tenuta dell’ordine sociale. È il paradosso della tolleranza formulato dal filosofo Karl Popper: se una società aperta al dialogo e al pluralismo vuole sopravvivere, non può tollerare chi non tollera. La legge e il diritto penale sono lo strumento per i casi più gravi: in tutte le altre situazioni, spetta alla società contrastare culturalmente le discriminazioni presenti al suo interno.

 

P.S.: Con un’articolata motivazione, il volantino “Basta usurai – basta stranieri” è stato ritenuto che non violi la normativa penale anti-discriminazione (sentenza della Cassazione n. 36906/2015). L’espressione sui Sinti e Rom, invece, sì (sent. n. 32862/2019).