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Quel campanile nel mondo

Trina, protagonista del romanzo “Resto qui” di Marco Balzano, racconta il trauma di Curon Venosta: una comunità tra due opzioni, sommersa dal fascismo e dal progresso.
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Foto: Wikipedia

Ti dirò quello che è successo qui a Curon. Nel paese che non c'è più”. Un campanile emerge dal lago. Una presenza sinistra, immortalata dai selfie dei turisti sul pontile. Sembra di risentire l'odore delle stalle, di udire lo scampanio delle mucche, il vento dal valico di Resia che soffia sui masi. “Resto qui” del Premio Campiello 2015 Marco Balzano (Einaudi, 2018, pp. 192) è la lunga lettera di Trina alla figlia Marica, “scomparsa” come il suo paese nell'Alta Val Venosta, sommerso dalle acque del lago artificiale. Narra la durezza della vita contadina, il lavoro nei campi, la cura delle bestie, un'economia di sussistenza. E racconta l'amore tra lei ed Erich, l'unico uomo che le sia mai piaciuto. Trina non crede in Dio ma nelle parole, vuole diventare maestra, magari andarsene da Curon, ma la madre non ne vuole sapere di libri e di pensieri. Erich invece vuole restare lì per sempre a fare il contadino, portare a pascolare mucche e pecore, dare una mano nella falegnameria del padre di Trina.

 

La storia incombe sul Sudtirolo: l'avanzata del fascismo, l'italianizzazione dei nomi, il divieto di parlare e insegnare la lingua tedesca. Roma rispolvera il progetto della diga, avanzato per la prima volta nel 1911, quando questi pascoli erano ancora Austria. A rimettere mano al progetto sono gli imprenditori della Montecatini, cui fa gola “l'oro bianco” capace di illuminare le nuove industrie di Merano e Bolzano. Erich ne parla al padre di Trina con preoccupazione – e la passione di un novello Michael Gaismayr: “I contadini continuano a bere, a fumare, a mescolare le carte. Quello che non vedono non esiste, dagli un bicchiere di vino e non pensano più a niente”. Dal canto suo, Trina studia l'italiano con le sue amiche Barbara e Maya nella vana speranza di poter insegnare a scuola. Con Barbara l'intimità è più forte, dal suo grammofono risuonano canzoni italiane: “un bacio ti darò/ se qui ritornerai/ ma non ti bacerò/ se alla guerra partirai”. “Pensi che le montagne ci nascondano il mondo?” chiede Trina pedalando in riva al lago di San Valentino – lì dove sorgerà la diga, con l'Ortles che svetta all'orizzonte, a sud. “Che t'importa del mondo?” risponde Barbara.

“Non siamo né nazisti né fascisti! Non siamo niente, siamo solo contadini”.

Il mondo crolla sotto ai loro piedi, Trina finisce per insegnare tedesco nelle Katakombenschulen e quando convincerà Barbara a seguirla nell'impresa clandestina, la sua amica sarà arrestata. Trina trattiene appena il pianto all'altare, il giorno del matrimonio con l'amato Erich. Nascono i figli, Michael e appunto Marica, il paese si spacca tra restanti e optanti per la Germania di Hitler, l'atteso salvatore. Erich vuole restare, “se ce ne andremo avranno vinto loro”. Loro sono i fascisti e nazisti, ma anche ingegneri e manovali della Montecatini che costruiscono la diga: “Non so se in paese se n'è accorto qualcuno, o se tutti se ne fregano perché ormai hanno deciso di andare via”. La guerra, la chiamata alle armi, la fuga misteriosa della figlia e l'arruolamento volontario del figlio con simpatie naziste, li costringerà a fuggire disertori sulle montagne innevate, tornando a essere “l'una il mondo intero dell'altro”.

 

Un Vajont senza frane né devastazioni

 

I capitoli centrali e finali sono di grande intensità, la storia è scandita dal crepitio dei passi nella neve. Marco Balzano usa una lingua asciutta, frasi brevi, poche descrizioni essenziali. Si cala nel punto di vista della donna, nelle sue paure, nelle sue speranze. Trina vuole andare via da quel luogo dove si susseguono solo dittature, vere o mascherate, da cui se ne sono andati via tutti tranne lei. La felicità per la fine della guerra lascia spazio alla paura per l'esercito di operai da tutta Italia, ai quali di quel lembo di terra colonizzata non poteva importar di meno: “Il progresso vale più di un mucchietto di case”. La crociata di Erich contro quel Vajont senza frane né devastazioni – ma con l'acqua che sale ed entra nei masi – trasforma Curon in una piccola Val di Susa degli anni quaranta. Il paese è posto di fronte a una seconda opzione: emigrare o restare a vivere nei prefabbricati di pochi metri quadri messi a disposizione dalla Montecatini. Una truffa. Ma “gli abitanti di Curon sono come quelli del resto del mondo” risponde l'uomo col cappello che dirige i lavori.

“La conosceva bene la gente, lui che da tutta la vita girava il mondo. Era uguale ovunque, assetata solo di tranquillità. Contenta di non vedere. È stato così che aveva già sgombrato altri paesi, sventrato quartieri, abbattuto case per far passare binari e autostrade, gettato cemento sulle campagne, fatto costruire fabbriche lungo il corso dei fiumi. E il suo lavoro non andava mai in crisi perché cresceva dove c'era la fiducia inerte nel destino, la fede assolutoria in Dio, l'incuria degli uomini assetati solo di tranquillità”.

Emerge la solitudine, la Zweisamkeit di Trina ed Erich di fronte all'indolenza di un popolo stremato dalla guerra, che non si fa piegare dalla fatica del lavoro duro nei campi – ma si lascia devastare dagli invasori. La tardiva ribellione è guidata da padre Alfred, ispirato al parroco di Curon Alfred Rieper. Trina insegna a Erich l'italiano e scrive lettere a tutti, persino al Papa. Invano. A Vienna l'ultima missiva: “Questa diga è un pericolo anche per voi. Ricordatevi che per secoli questa valle era casa vostra”. Lasciati soli da Austria e Italia, dai paesi vicini per campanilismo, lasciati soli dal Papa – e persino da Dio – Curon e Resia saranno demolite e sommerse per sempre.

 

Il libro è frutto della minuziosa ricerca storica dell'autore, tra le testimonianze degli ultimi sopravvissuti e i silenzi colpevoli della Montecatini. Lo fa al femminile e dal punto di vista dei sudtirolesi. Significativo e sorprendente – come lo fu Eva dorme di Francesca Melandri – che il romanzo di un autore di lingua italiana possa rappresentare un atto di riconciliazione, usando la parola come cura delle ferite inferte dalla storia. Si tratta ad ogni modo di normalizzare il contesto del Sudtirolo, farne un'ambientazione universale. La voce di una famiglia sudtirolese metafora di una storia più grande, un romanzo commovente per chi è nato tra queste montagne. Con una lezione preziosa, in questi tempi di apatia politica e violenza del potere.