Cultura | SALTO WEEKEND

La pittura bambina di Ligabue

È nelle sale cinematografiche, decimate dal Coronavirus, il film di Giorgio Diritti sul “matto” di Gualtieri interpretato da un eccellente Elio Germano.
Elio Germano
Foto: Rolling Stone

Antonio Ligabue, o Laccabue, Toni, come lo chiamavano a Gualtieri, è un soggetto fantastico per essere portato al cinema. Per chi era giovane negli anni Settanta resta indimenticabile la versione che ne dette Flavio Bucci (scomparso da poco). Elio Germanopremiato a Berlino – sfiora quel livello, accarezzando il predecessore prima di puntare ad imitare il pittore (del quale restano alcuni impressionanti documenti filmati, a controprova di veridicità).

L'artista è anche angelo, angelo e bestia insieme

Il verbo “imitare” venga qui preso alla lettera. Ligabue è un pittore interamente d'imitazione. Il gesto pittorico comincia già nel ripetere il verso di un animale, il suo modo di muoversi su un'aia, tra i cespugli, il suo stare conficcato in mezzo al mondo. Un mondo di estasi e sofferenza. Siamo al grado zero della pittura, quella che capirebbero i bambini perché è una pittura bambina. Il mondo preme violentemente sulla pelle di Ligabue, la crudeltà delle sue condizioni lo devasta, la sua infanzia disgraziata ne fa un emarginato, un uomo che può vivere da solo nei boschi o in un casale abbandonato. Ma lui, incrostato di dolore, trova il modo per esprimersi. Il problema diventa così quello della bestia, perché – come afferma – “tutti siamo bestie”. L'artista è il parente più stretto della bestia umana, talvolta bestia al sommo grado. Ma l'artista è anche angelo, angelo e bestia insieme. L'artista è la lotta tra l'angelo e la bestia, è la forza di farsi scena di questa lotta, è un pezzo di terra che parla alla terra, un frammento di cielo che riflette il cielo, e poi un gallo, un leopardo, l'aquila, una carrozza che passa nella campagna, i cavalli sconvolti da un fulmine. Tutto questo, senza mediazioni intellettuali, spremuto direttamente sulla tela, o su una tavola di legno, impastato nell'argilla, nella merda (non quella sofisticata e miliardaria di Piero Manzoni, ma quella di Franco Basaglia, il cui odore lo psichiatra avvertì insopportabile nelle stanze del manicomio di Gorizia).

Ligabue non si nasconde più, adesso può mostrarsi e mostrare a tutti quello che sa fare

Volevo nascondermi”, il film di Giorgio Diritti, parte dagli inizi, racconta la storia del fanciullo senza madre, cresciuto in un paese della Svizzera tedesca, esposto ai tormenti dei compagni, destinato precocemente al suo ruolo di “outsider”. L'arrivo nella provincia emiliana, patria paterna, a ridosso dell'argine del Po, è un'altra caduta durissima. Ma lentamente, attraverso le tappe di un inevitabile calvario, che ovviamente non gli risparmia il manicomio, da qualche gesto di gentilezza e di speranza riesce a trovare la via verso i suoi colori. Ligabue non si nasconde più, può mostrarsi e mostrare a tutti quello che sa fare. Riscuote successo, fa i soldi, si compra una motocicletta rossa, indossa un cappotto in pieno luglio (“per chi ha conosciuto il freddo, come me, non è mai troppo caldo”) ed espone a Roma. Gli amici lo assistono, lo capiscono. Benché con una punta d'interesse, lo rispettano. Alla fine muore pagando le conseguenze di una caduta in moto che lo paralizza e gli impedisce di terminare la vita dipingendo (che altro era la vita, per lui, se non dipingere?).

Ligabue sembra un po' un incrocio tra Soutine, il Doganiere Rousseu, Dino Campana e lo scemo del villaggio

Chissà se il tempo eterno dell'arte potrebbe generare oggi un altro Ligabue (il nostro piccolo Van Gogh). Il rischio di sprofondare nel cliché dell'artista romantico e pazzo, che non è in realtà garanzia di nulla, sembra sorpassato, perché furbizie e sbavature di terza mano possono ricalcarne l'aspetto a scopo di vendita. Non è quindi dalla martirologia pagana da poeta maledetto (Ligabue sembra un po' un incrocio tra Soutine, il Doganiere Rousseu, Dino Campana e lo scemo del villaggio) che il film trae le sue parti migliori. Chi lo vedrà si abbandoni piuttosto alla sinfonia del paesaggio, alla prevalenza dell'immaginario sul narrato, alla rievocazione di alcuni ultimi scampoli di vita contadina (una nota di merito per la colonna sonora, di Marco Biscarini e Daniele Furlati). Anche la povera Italia di Ligabue, posta entro il confine degli anni Sessanta, non esiste più, ed emette bagliori sempre più flebili. Ma è una grande storia, e vale la pena che venga ridestata. Fatela conoscere ai bambini. Se la ricorderanno.