Società | Potere e narrazione

Il mythos della scuola bilingue

Dal «Je klarer wir uns trennen, desto besser verstehen wir uns» di Anton Zelger del 1978 al «doppio “no”» di Arno Kompatscher del 2023: controstoria di una leggenda
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
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Foto: Internet

Nel pensiero filosofico, il termine greco mythos (μῦϑος) «indica, già dall’antichità, il racconto fantastico» il cui scopo è «offrire una spiegazione di fenomeni naturali, legittimare pratiche rituali o istituzioni sociali e, più genericamente, rispondere alle grandi domande che gli uomini si pongono». In questo senso «è opposto al logos - la dimostrazione ben fondata della verità - cui si attinge invece attraverso l’argomentazione razionale».
Dalla stessa fonte (Treccani) si legge che la scuola, «istituzione sociale, pubblica o privata» è prima di tutto «preposta all’istruzione, quale trasmissione del patrimonio di conoscenze proprio della cultura d’appartenenza».
In ultimo, il bilinguismo è definito come «la capacità che ha un individuo, o un gruppo etnico, di usare alternativamente e senza difficoltà due diverse lingue».

il bilinguismo è definito come «la capacità che ha un individuo, o un gruppo etnico, di usare alternativamente e senza difficoltà due diverse lingue»

Partendo dalle ultime due definizioni, quali possano essere i contenuti del concetto «scuola bilingue» per chi vive in Alto Adige/Südtirol dovrebbe essere chiaro e non prestarsi a fraintendimenti: una scuola liberamente frequentata da esponenti dei due gruppi etnolinguistici maggioritari – la minoranza nazionale e la minoranza territoriale - dove l’insegnamento sia paritariamente impartito in entrambe le rispettive lingue.
Di scuola bilingue se ne parla nella comunità altoatesina da almeno cinquant’anni. Vale a dire, dall’entrata in vigore dello statuto di autonomia e della successiva introduzione dell’obbligo di bilinguismo nel comparto dell’impiego pubblico, da sempre il principale sbocco lavorativo del gruppo etnolinguistico italiano. Ed è da ascrivere anche alla sua perdurante assenza il fenomeno che ha visto negli anni una sempre maggiore iscrizione degli alunni altoatesini alle scuole sudtirolesi: se la conoscenza del tedesco - ancora meglio: del dialetto - è ormai una conditio sine qua non per l’accesso alle risorse occupazionali (vedi «Il falso mito della proporzionale»), è giocoforza desumere per quali ragioni le famiglie altoatesine optino per una scelta così radicale.

la conoscenza del tedesco - ancora meglio: del dialetto - è ormai una conditio sine qua non per l’accesso alle risorse occupazionali

Negli ultimi mesi del 2022 è assurta agli onori della cronaca la mozione per una scuola dell’infanzia bilingue presentata al consiglio comunale di Merano da Sabine Kiem e frutto di un lavoro congiunto con Liliana Turri. Pochi però sanno che la città sul Passirio è stata protagonista nel 1978 di uno scontro politico senza pari proprio su un progetto di scambio di studenti tra alcune classi dei licei scientifici tedeschi e italiani. Il caso approdò allora in consiglio provinciale in seguito alle interrogazioni di Alexander Langer, Willi Erschbaumer e Giuseppe Sfondrini sulla decisione dell’intendente alla scuola tedesca David Kofler di bloccarlo. E fu in quell’occasione, ovvero nella risposta ad una delle interrogazioni, che l’assessore alla cultura e scuola tedesca Anton Zelger pronunciò una frase che, avendo di fatto reso manifesto il principio fondamentale su cui si basava tutta l’architettura ideologica dello statuto di autonomia approvato pochi anni prima, entrò nella storia dell’Alto Adige/Südtirol: «Je klarer wir uns trennen, desto besser verstehen wir uns».

«Je klarer wir uns trennen, desto besser verstehen wir uns»

Dal 1978 al 2022 sono passati quarantaquattro anni: un tempo così lungo da poter immaginare come definitivamente risolta una contesa basata su un concetto secondo il quale «più chiaramente noi ci separiamo, tanto più riusciamo a capirci». E la mozione fatta propria dal consiglio comunale di Merano pareva suggerirlo. Che non fosse nemmeno lontanamente così è stato lo stesso presidente della giunta provinciale Arno Kompatscher, prossimo candidato per lo stesso ruolo alle elezioni di ottobre del 2023, a confermarlo in una intervista pubblicata da quotidiano Alto Adige domenica 15 gennaio di quest’anno e intitolata: «Proporzionale e scuola bilingue. Il doppio “no” di Arno».
Che cosa può comportare il fatto che per cinquant'anni la comunità altoatesina chieda l’istituzione di una scuola bilingue che faciliti ai propri figli l'apprendimento del tedesco e l’élite politica sudtirolese maggioritaria per gli stessi cinquant’anni la rifiuti?

Che cosa può comportare il fatto che per cinquant'anni la comunità altoatesina chieda l’istituzione di una scuola bilingue che faciliti ai propri figli l'apprendimento del tedesco e l’élite politica sudtirolese maggioritaria per gli stessi cinquant’anni la rifiuti?

La risposta si trova nella prima definizione data nell’apertura dell’articolo: la nascita del “mythos della scuola bilingue”. Ovvero, la risposta «alle grandi domande che gli uomini si pongono» e che in questo caso porterà alla nascita di una società in cui i gruppi etnolinguistici, abbattute finalmente le barriere linguistiche, abbandoneranno definitivamente il cosiddetto “uno contro l’altro” (Gegeneinander) per passare all’ “uno con l’altro” (Miteinander) senza pietrificarsi nell’ “uno a fianco all’altro” (Nebeneinander).
L’errore sostanziale di questa costruzione mitologica, ovvero la scuola bilingue come panacea e superamento di tutti i mali di una società divisa perché divisiva a causa della struttura della sua autonomia, non è nell'idea in sé ma nel fatto di aver invertito i termini della relazione causale.
La scuola bilingue è l’effetto di una società che prima di qualsiasi altra cosa ha scelto di non essere più divisa: non la causa.

La scuola bilingue è l’effetto di una società che prima di qualsiasi altra cosa ha scelto di non essere più divisa: non la causa

La formazione di una società indivisa richiede la genesi di una narrazione comune nella quale ognuna delle parti conosca la propria storia e quella dell'altra, e dell'altra ne riconosca le ragioni e ne comprenda i valori. Il primo requisito per la formazione di questa narrazione è la conoscenza e diffusione della verità storica: che non sono due, ma una. Il secondo è la sua accettazione: senza negazioni, rimozioni e manipolazioni. Il terzo è l'abbandono da entrambe le parti delle azioni di rivendicazione permanente: il futuro non può essere negato dall'eterna pietrificazione del presente ad opera di un passato che non potrà mai tornare. Il quarto, che ricomprende tutti gli altri, è l'obbligo morale di fare ciò che è giusto.
Una parte della cosiddetta società civile, ovvero l'«insieme delle relazioni associative, economiche, culturali e sociali intercorrenti nelle società complesse tra i cittadini, che si pone come un reticolo distinto e talvolta contrapposto allo Stato e alla società politica» (sempre Treccani) già da tempo dà dimostrazione del suo essere insieme, tanto sudtirolese quanto altoatesina, orientata al bene comune. Ciò che invece colpisce riguardo al tema è la debolezza, quando non la codardia, di quella che dovrebbe essere la classe intellettuale.

Ciò che invece colpisce riguardo al tema è la debolezza, quando non la codardia, di quella che dovrebbe essere la classe intellettuale.

Secondo Zygmunt Bauman «in virtù del loro eccezionale sapere precluso alla gente comune, un sapere acquisito e dimostrato nei rispettivi campi professionali, essi [gli intellettuali] sono tutti particolarmente vicini ai valori essenziali che fondano e determinano la qualità di tutta la società» e «sono, per così dire, i tutori della verità e dell'obiettività, e ciò consente alle loro idee di trascendere gli interessi legati a un gruppo ristretto e i pregiudizi partigiani».
Osservando quanto avviene localmente si deve invece constatare in quale misura una grandissima parte di quelli che essendo i tutori della verità e dell’obiettività dovrebbero fungere da generatori degli impulsi che portano al cambiamento sociale, svolgano invece tutt’al più la funzione di fiancheggiatori quando non di veri e propri servi di un potere, così definito nel senso più deteriore del termine, indifferentemente esercitato dall'una o dall’altra parte.

Nota del 7 magio 2023
Questo articolo è stato inserito nel SALTO paper 10.0, la pubblicazione edita anche in formato cartaceo per il decennale della nascita del portale salto.bz.

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