Cultura | Il libro

I giorni della nepente

Avvincente romanzo noir e acuto saggio sull'influenza dei media nella costruzione della realtà, questi gli ingredienti dell'esordio letterario di Matteo Pascoletti.

Qualche settimana fa lo scrittore Matteo Pascoletti è venuto a Bolzano per presentare il libro, il suo primo romanzo intitolato “I giorni della nepente” (edizioni Effequ, 2015, giunto alla seconda ristampa). Abbiamo parlato seduti nel dehors del bar “Luce”, tra le passeggiate del Talvera e il Monumento alla Vittoria, mentre un bel pomeriggio di primavera trascolorava sulla città che, secondo alcuni, sarebbe diventata ormai preda di un incontenibile “degrado”.

Ricordo questo aspetto perché le vicende narrate ne “I giorni della nepente” sembrano di primo acchito storie anch'esse “degradate” o “degradanti”, anzi “tossiche”, per citare lo stesso sottotitolo del libro. Ecco come l'autore spiega il senso dell'aggettivo: “Il primo riferimento va ovviamente alla droga, visto che molti dei protagonisti del romanzo sono tossicodipendenti o hanno avuto esperienze legate a quel tipo di ambiente. C'è però anche un senso più vasto, inerente la tossicità dell'informazione, ovvero il modo con il quale i quotidiani e poi l'intera società metabolizzano e mettono in circolo le notizie di cronaca nera”. Il notevole merito di Pascoletti è quello di essere riuscito a intersecare alla perfezione questi due piani, mostrandone gli slittamenti reciproci, da quello pertinente all'intreccio a quello costituito dalla riflessione, proiettandoli poi su uno sfondo ulteriore, disegnato da un linguaggio letterario che, in pratica, assume la funzione di agire da contro-veleno, da pharmakon, e restituisce ai personaggi lo spessore sensibile e propriamente umano che la mera cronaca tende invece a ridurre e ad appiattire.

 

In modo plastico e scenografico lo sdoppiamento dei piani è reso possibile dal recupero di un mezzo espressivo classico: il coro. In questo caso i coreuti sono rappresentati dalle voci di una collettività sfrangiata (articoli di giornale, trasmissioni televisive, ma anche i commenti che gli utenti dei vari siti d'informazione riversano in rete) che assimila come farebbe una pianta carnivora (la “nepente”, per l'appunto) la vita dei protagonisti e ne oblitera i risvolti più contraddittori, i rovesci inattesi, al margine di un duplice omicidio. L'espediente, così, non ci permette solo di esaminare i fatti “per quello che sono”, con tutti i loro vari fondali stratificati di verità apparenti e poi rivelate, ma, come dicevamo, espone al contempo il meccanismo della loro rielaborazione mediatica. Come acutamente ha rilevato l'autore, “la verità del romanzo è sempre una verità di tipo estetico, dunque legata all'esperienza dei sensi, e il compito di chi scrive è quello di comunicare dei concetti attraverso delle sensazioni”. In un certo senso, allora, è come se la forma della finzione allestisse un'intercapedine onirica tra le vicende narrate e la loro possibile rilevanza per chi si dispone ad osservarle (“chiedo ai lettori di sognare il sogno sognato dall'autore”) e a recepirle secondo una modalità altrettanto creativa.

“I giorni della nepente” ha tutte le potenzialità per diventare un libro di grande successo – si legge di un fiato e si rimane incollati alle pagine fino alla fine, anche grazie a un uso consapevole della suspance – offrendo svariate chiavi interpretative (dalla più ingenua, cioè aderente al côté criminale che ne ha offerto lo spunto, a quella più sofisticata dell'indagine filosofica, che implica un intervento diretto sulla costruzione testuale e l'epistemologia della narrazione soggiacente). Ha scritto Francesca Melandri: “Il libro di Matteo Pascoletti è un esordio notevole per molti motivi: il tema rilevante, l'empatia matura con cui sono descritti tutti personaggi, l'efficacia di una struttura in cui alla trama vera e propria si alterna una specie di coro greco rappresentato come la cacofonia dei media. Ma, soprattutto, è scritto bene, anzi benissimo. Cosa vuol dire scrivere bene? Uno stile ben riuscito io lo immagino come una pasta ricca di lievito, ovvero di quel respiro interno che permette al lettore di non essere schiacciato dalle intenzioni dell'autore, che anzi lo invita a partecipare alla costruzione del senso del testo. Quando questo succede, come in questo romanzo, si tratta di vera letteratura”.