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Interesting Times

Non perdetevi la Biennale Arte 2019 curata da Ralph Rugoff con le molteplici prospettive verso un futuro che fu - probabilmente.
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Foto: Salto.bz

C’è tempo fino a domenica 24 novembre per visitare i tanti siti in cui è dislocata – come sempre – la Biennale Arte, con i suoi due luoghi centrali, i Giardini e l’Arsenale. Attenzione, però, servono almeno due giorni se si vuole toccare almeno il fulcro, ossia la Mostra Internazionale, intitolata dal curatore dell’edizione 2019, Ralph Rugoff, May You Live in Interesting Times, e i cui temi base li spiega nel saggio introduttivo del Volume I del catalogo a due volumi, appunto (il secondo presenta le numerose partecipazioni nazionali e i tanti eventi collaterali della 58esima Esposizione Internazionale d’Arte – questo il suo nome ufficiale dal 1895, anno in cui era stata fondata).


Premetto che ci sono andata un giorno soltanto e mi sono concentrata sulla parte dei Giardini, sempre bella anche soltanto per godersi la bellezza dei singoli padiglioni dei vari paesi ivi rappresentati. Si parte con Spagna, Belgio e Olanda, dove già incontriamo una installazione curiosa che nel padiglione belga mette in scena diversi personaggi storici – ognuno con una propria attività che esegue in loop e a ritmo dettato – e i quali secondo un canone di società per cui si era accettati o meno si trovano letteralmente “dentro” uno spazio recintato da una corda, mentre gli emarginati che non rientravano nei ranghi (come ad esempio una affascinante “donna-topo” o un luminoso-innocente pazzo) restavano fuori da lì, ma ben rinchiusi in altri spazi, situati quasi a raggera attorno. Fuori dalla società, dunque. Fuori dalla vita vivibile, fuori perché lo dicono altri.

 

Forte è l’impronta socio-politica quest’anno, in tutte le opere, così come c’è una forte componente di critica nei confronti dell’inquinamento del pianeta e della politica della indifferenza in generale. Chissà se quest’ultima, ossia la indifferenza, sia dovuta a quel surplus di dati e di informazioni cui siamo per lo più esposti e di cui ultimamente si parla spesso? L’artista giapponese Ryoji Ikeda, classe 1966, ce la fa sperimentare in un modo tutto suo: passare attraverso un corridoio-tubo-lumenescente, uno spazio vuoto illuminato con una fortissima luce bianca, quasi acceccante, per cui si fa fatica a intravedere un qualsiasi qualcosa. Spectra III, 2008/2010, consiste in un corridoio di tubi luminosi fosforescenti – leggiamo sul cartello informativo, dove inoltre si precisa: “simile a una tempesta di dati manda in corto circuito la nostra capacità di processare ciò che vediamo generando paradossalmente una tabula rasa sensoriale”. Il suo “sublime paesaggio di luce” si trova subito all’inizio del lunghissimo percorso all’interno del quale il curatore Rugoff considera i suoi “Tempi Interessanti” immaginati, nel padiglione centrale coi suoi oltre trenta spazi. Assieme a quelli esposti nell’Arsenale si contano 79 artisti selezionati da tutto il mondo: da disegni a sculture, da fotografie a enormi dipinti, da sculture a installazioni, un variopinto mondo immaginario.

 

Kaari Upson ci offre la sua visione disegnata di spazio interno che si fa spazio esterno e non solo, si rende specchio di ciò che l’uno (non) vuole vedere (dentro) di sé: il suo enorme View From the Interiorized; You are the Pervert, gronda di preconcetti e pregiudizi, in particolare verso il mondo femminile. Un suo analogo in ceramica potrebbero essere le maschere tutte rigorosamente Untitled e modellate a mano dall’americana Cameron Jamie che vive e lavora a Parigi: non sono riproduzioni di volti ma ne riproducono la loro visione interna, sono “svuotate”, concave, in ricche tonalità e ognuna unica, in quanto proietta il proprio sé verso se stessa, o meglio verso il pubblico. Guardarle fa provare una sensazione strana, quella di guardare qualcuno attraverso qualcuno, l’esatto contrario della funzione della maschera che vuole che si possa guardare qualcuno senza essere guardati… Identificazione o straniamento versus anonimato?


Augustas Serapinas, lituano non ancora trentenne, invece capovolge il concetto che tutti abbiamo di paesaggi edificati e ce li smembra in un mucchio di pietre e mattoni. Ma non solo, per creare il suo Vygintas, Kirilas & Semionovas, ha usato nel 2018 legni e parti dell’edificio della Ignalina Nuclear Power Plant, affrontando quindi il delicatamente pericoloso tema dell’inquinamento nucleare, tabu ma di dimensione sociale. Detto in chiaro: che cosa aveva ereditato la Lituania nei suoi campi durante e dopo la catastrofe di Chernobyl nel 1986? Quali erano e sono i rischi corsi? A dire dell’artista seimila lituani dovettero partecipare a ripulire l’area, e come condizione per entrare nella Unione europea tutti gli impianti costruiti sul medesimo modello di quello ucraino dovettero chiudere - troppo rischioso lasciarli in funzione, ma ormai siamo già nel 2004... I materiali usati per la sua opera – tutti incontaminati ma derivanti da una delle centrali nucleari chiuse – sono di grandezza da giocattolo, lui li aveva dati in mano ai tre bambini del titolo per farli disporre come volevano loro. Un’allusione a come il Potere “gioca” con la nostra salute, le nostre case e il nostro ambiente?

 

Il nero del petrolio che avanza, o il “nero” che avanza, o il buio di un futuro senza futuro? Che cosa guarda questa meravigliosa figura femminile stilizzata dipinta a olio e pastello da George Condo, intitolandola semplicemente Standing Female Figure in Black Space? Inquietudine e rabbia, segni decisi a fronte di emozioni forti e vibrazioni vitali. Tutt’altro emana la creazione degli ambienti artificiali di Ian Cheng, classe 1984, che vive e lavora negli Usa: il suo B.O.B. Bag of Beliefs “vive” come un ecosistema che parte da caratteristiche basilari programmate per poi evolversi in modo indipendente, essendo dotato di una sua personalità e di un suo corpo, il quale cambia costantemente sulla base di input dati da esseri umani che possono influenzarne forma e azioni da compiere tramite un’app. Una forma di vita autonoma fatta di pixel sulla fredda facciata di due metri per tre - se ricordo bene, brrrr o wow? Dipende dal punto di vista, certo è affascinante cosa riesce a fare la tecnologia, ma lo è meno quando prende il sopravvento senza alcun controllo.


Tra le tante opere di cui potremmo parlare, menzioniamo ancora i collage di Frida Orupabo, 33 anni, norvegese, incentrati sulla ricerca della rappresentazione del corpo femminile nero nella cultura mediatica occidentale. La sua tecnica particolare che ricorda la creazione delle bambole di carta di una volta, con l’uso delle graffette, focalizza l’attenzione sullo sguardo messo in campo da chi crea le immagini di partenza per le sue opere e i rapporti di potere in quella stessa rappresentazione, qui in particolare di donne nere. Ma si potrebbe estendere l’argomento a tutte le donne.

 

Sempre di donne, sempre di violenza, ci parla il Muro Ciudad Juarez in Messico attorno al quale avvenne un crimine che coinvolse 4 donne. Ebbene, Teresa Margolles che ha studiato medicina forense (confrontandosi dunque con odori e residui fisici della morte) per fare la sua opera smontò quel muro vero e al pari del lituano Serapinas vuole far emergere il lato nascosto a livello socio-politico: quello stesso muro ricostruito in galleria con tanto di filo spinato punta il dito contro la criminalizzazione alta nel suo paese e la violenza dei narcotrafficanti. Allo stesso tempo assume una falsa innocenza.

 

Un giovane indiano, Soham Gupta, classe 1988, narra la miseria, la malattia, la povertà nelle e sulle strade a Calcutta: le sue fotografie in bianco-nero graffiano come luci nel buio più fitto, urlano il malessere con grande dignità, a una definizione nella grana fotografica che va oltre il reale. Infatti, in una intervista l’artista aveva dichiarato che sono cinque anni che fa questa ricerca della vita sulla strada che lui stesso conosce, avendo provato l’emarginazione a causa di una malattia. Egli non punta il dito, non vuole commuovere, no, i suoi soggetti li vuole nitidi, come in una finzione, li vuole umani con occhi fieri che guardano dritti in macchina, come figure astratte, prive di contesto, e non a caso le mette in posa in luoghi non luoghi al buio. 13 stampe della serie Angst scattate tra il 2013 e il 2017, 13 attimi di visione intensa, 13 momenti di luce, umano-divina.


Fuori dal Padiglione centrale, davanti a numerosi altri ci sono lunghe code, è tempo per un caffè, e merita – un ambiente superpop tra bianco e nero, strisce e cerchi, forti colori arancione rinfrescano anche la mente prima di farla ripiombare in altri immaginari angusti.


Ispirato al mondo liquido di Zygmunt Baumann, quello di Laure Prouvost che rappresenta la Francia: il suo Deep See Blue Surrounding You/Vois Ce Bleu Profond Te Fondre gioca con le teorie della società liquida del sociologo filosofo polacco inventando stramberie tentacolari sottomarine e altre di tipo umano in giro per la Francia interpretate da uno strano gruppo transgenerazionale, il tutto associato a giochi di parole nelle e tra le varie lingue europee. L’intero padiglione è dedicato a lei, e lei stessa ha curato fin nei minimi particolari, oltre al film che è il momento clou, anche le diverse installazioni presenti e che rimandano tutte a un mondo acquatico, inquinato, di estrema bellezza, finezza, fragilità, dove insicurezze si fanno di cemento e le piume volano come pesci colorati.

 

Immaginario in libertà – alla libertà è intitolata infatti la personale dedicata allo statunitense Martin Puryear nel bellissimo padiglione Usa: scultore da oltre cinquant’anni, le sue opere sono note per essere sottilmente forti ed estremamente cariche di significato e simbologia. Le meravigliose forme esposte a Venezia rimandano a temi politico-sociali di profonda ricerca storica, non tralasciando la migrazione di ieri e di oggi, usando forme e materiali semplici e naturali: il legno, le fibre, il marmo, la pietra. Due per tutte: Aso Oke del 2019 riprende in bronzo il filo e la forma delicata della tessitura di un copricapo popolare nell’Africa occidentale, la traduzione letterale del termine “aso oke” di lingua yoruba significa “tela preziosa”, di qui il rimando alla storia dell’evoluzione della tessitura, dell’economia, dello status sociale e poi, dell’indipendenza, della libertà… A Column for Sally Hemings, creata appositamente per la rotonda del padiglione Usa, rimanda nei materiali, nelle sue forme e nella sua ricerca alla schiavitù e alla libertà femminile: Sally Hemmings fu la schiava personale di Thomas Jefferson, padre dei suoi figli e terzo presidente degli Usa; il padiglione era stato costruito nel 1930, periodo della Grande Depressione e lo stile architettonico (da cui la forma della colonna per la scultura) è influenzato da Andrea Palladio che a sua volta aveva ispirato la casa padronale dei Jefferson nelle piantagioni del Virginia…


Usciamo fuori, un enorme tubo nero a spirale auto-avvolgente spicca da una enorme rete in legno di pino chiaro: Swallowed Sun (Monstrance and Volute) ha voluto chiamarla Puryear, un sole ingoiato tra ostensorio e spirale avvolgente. Forse bastano questi pochi termini per immaginare a cosa si riferisce l’artista? Per altro, nel frattempo si è fatto sera, il sole sta per scendere dietro il magnifico panorama della Venezia reale, e uscendo lungo il viale, le onde dal ritmo regolare ci riflettono nella memoria uno dei capolavori visti, tra tecnica e ricerca: L’Ange du Foyer del francese Cyprien Gaillard che vive e lavora a Berlino esposto in uno spazio degradato assieme ad altre opere mezze distrutte dello stesso artista. Quella meraviglia per gli occhi e la mente, creata nella sua quarta versione con un display olografico a Led su base in acciaio galvanizzato è ispirato a un altro angelo, con analogo intento e forza espressiva: a quello dipinto nel 1937 da Max Ernst, L’Angelo del Focolare. Questi, col senno del poi, era già l’ “angelo del Male” che annunciava il nazifascismo che stava sorgendo, non all’orizzonte, ma in mezzo alla gente, “al focolare”. Nella descrizione dell’opera si dice che Gaillard nella sua arte muove una critica trasversale al progresso muovendo da distruzione a ricostruzione, da rinnovo a degrado. Per realizzare quest’opera animata, l’artista ha trasposto i movimenti dell’Angelo di Max Ernst in un rendering digitale che si muove e si autoalimenta fino a consumarsi. “Colta in un loop silenzioso, questa particolare creatura testimonia la preoccupazione di Gaillard per le nostre intrinsiche capacità distruttive.”

 

Una frase che rimane in mente ancora per un po’ mentre mi incammino sul Lungomare verso Piazza San Marco. Vedo tanti turisti a fotografare le meraviglie del passato della Serenissima, altri in fila per attraversare i ponti, altri ancora davanti a una enorme nave di guerra con tanto di elicotteri e altre diavolerie belliche a bordo. Tutti sorridenti, le famiglie e i bambini in fila, i soldati che li accolgono per spiegare loro il marchingegno. L’Angelo del focolare torna a muoversi nella mia mente…