Società | L'intervista

Le loro prigioni

Alessandro Pedrotti, responsabile di Odós, sul carcere che non funziona, l’alta recidiva, le misure alternative, e quell’ergastolano mancato.
Carcere
Foto: upi
Il tasso di recidiva tra i detenuti delle carceri italiane è desolante: quasi il 70% di loro, scontata la pena, torna a delinquere. La questione è ricomparsa sul tavolo anatomico del dibattito pubblico dopo la recente analisi di Milena Gabanelli per il Corriere della Sera. Pochissimi sono i detenuti che lavorano dentro al carcere e per poche ore al giorno, “perché i soldi non ci sono”, spiega Alessandro Pedrotti, educatore da 25 anni e dal 2006 responsabile di Odós, il servizio della Caritas che aiuta il reinserimento sociale di quelle persone che devono scontare o hanno alle spalle una pena detentiva.

 

salto.bz: Pedrotti, in Italia circa il 70% dei carcerati, una volta uscito di prigione, torna a commettere reati, parliamone.

Alessandro Pedrotti: Quasi 7 detenuti su 10, se non vengono aiutati, tornano a delinquere nei successivi 5 anni dall’uscita dal carcere. I numeri non sono nuovi ma secondo la nostra esperienza sono rimasti tali. Ricerche sulla recidiva in ogni caso non ce ne sono o sono pochissime, perché non si dispone di relative banche dati. Il punto è insistere su percorsi di reinserimento, che al di là dell’aspetto etico e sociale, sono efficaci anche dal punto di vista economico.

Il sistema penitenziario del resto grava sul bilancio dello Stato per 2,9 miliardi l’anno. Per cosa si spendono esattamente questi soldi?

Dei 120-150 euro spesi al giorno per detenuto (le cifre variano a seconda del numero dei carcerati nelle prigioni) la maggior parte viene destinata alla gestione della sicurezza, e quindi riservata alla polizia penitenziaria, ma poco o niente viene investito per una proposta educativa. Ha senso che un sistema che ci costa così tanto e produce così poco sia il medesimo per tutti i 60mila detenuti che si trovano nelle carceri italiane? Oppure per la stragrande maggioranza dei carcerati, ovvero quelli classificati a basso livello di pericolosità, si potrebbe fare un ragionamento diverso? Pensiamo ai manicomi, prima che chiudessero nel ’78 vi erano internate 100mila persone, quasi il doppio dei detenuti. Non si può, come accadde in quel caso, cambiare il sistema? Finanziare un’alternativa diversa dalla detenzione per tutti coloro per cui il carcere invece che servire da istituto educativo diventa scuola di crimine? Vede, se entro in carcere e so come eseguire un furto è probabile che una volta uscito sappia come fare una rapina. Ma la risposta penale non può essere l’unica possibile.

Ha senso che un sistema che ci costa così tanto e produce così poco sia il medesimo per tutti i 60mila detenuti che si trovano nelle carceri italiane?

Il carcere, è appurato, ad oggi non è riabilitativo. Dal punto di vista umano questo cosa comporta?

Stiamo parlando di persone che vengono sostanzialmente “congelate” per anni dato che in carcere non fanno praticamente nulla, il lavoro c’è per pochissimi detenuti che possono svolgerlo per poche ore al giorno, perché non ci sono i soldi per pagarli. Quando escono, poi, si chiede loro, persone che per anni sono state sotto-stimolate, di riconnettersi a una società che corre a folle velocità e in cui anche persone normo-inserite fanno fatica a stare dentro.

Le lungaggini del nostro sistema giudiziario quali conseguenze hanno sul piano sociale?

Poniamo il caso che una persona commetta un reato a 25 anni e l’esecuzione della pena inizi al compiere dei 35. In questo lasso di tempo una persona può aver messo su famiglia, cambiato la propria vita. Intendiamoci, è giusto pagare il proprio debito alla giustizia se si è violata la legge ma il punto è come pagarlo. Sarebbe importante riflettere su quale sia la pena più utile per quella persona, una pena che dovrebbe essere costituzionale. Siamo stati condannati più volte dalla Corte europea dei diritti umani, con la sentenza Torreggiani, per esempio, o per l’ergastolo ostativo pochi mesi fa. E questo accade perché il modo di eseguire la pena non rispetta le nostre stesse norme. 

 

 

Tutto fermo sul fronte del nuovo carcere di Bolzano, che ha accumulato 3 anni di ritardi. Intanto nell’attuale struttura le condizioni sono sempre più intollerabili. 

Il carcere di Bolzano è un edificio fatiscente del 1800, allora, quando è stato costruito dagli austro-ungarici, c’era dietro un’idea precisa di pena. Prima che venissero spesi svariati milioni di euro per la nuova struttura abbiamo partecipato a un tavolo di ragionamento proprio sulla qualità della pena, insieme alla Provincia, lo Stato, il Provveditorato, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, e sono stati convocati degli esperti. Quello che abbiamo evidenziato è la necessità di non continuare a costruire carceri come quelle di oggi, sulla base di un modello introdotto negli anni ’70-80 per rispondere a due emergenze: il terrorismo e la mafia. Guardiamo all’esempio di Trento, un carcere relativamente nuovo (risale al 2010, ndr), dove il tasso suicidale è molto alto. Dunque attenzione, non basta costruire una struttura nuova per risolvere i problemi e soprattutto bisogna smettere di pensare che il carcere sia la prima soluzione a cui ricorrere. Le pene devono tendere alla rieducazione, recita la Costituzione, nel cui testo il carcere peraltro non viene mai citato.

 Non basta costruire una struttura nuova per risolvere i problemi e soprattutto bisogna smettere di pensare che il carcere sia la prima soluzione a cui ricorrere

Cosa significa per il detenuto usufruire delle misure alternative?

L’affidamento in prova ai servizi sociali, la liberazione anticipata, la detenzione domiciliare, la semilibertà, ovvero il provvedimento più restrittivo, che prevede che la persona dorma in carcere e di giorno possa uscire per andare a lavorare. Misure come quelle appena elencate - nei casi dove è possibile applicarle - aiutano il detenuto a riflettere su quello che ha fatto, a pensare alle sue vittime, dirette o indirette. Sicuramente tali misure danno maggiori risultati rispetto alla reclusione in carcere dove è facile incattivirsi e prendersela con lo Stato vivendo in una condizione tale da diventare a propria volta una vittima. Bisogna capire come si arriva a commettere un reato, comprendere che ci sono scelte consapevoli e inconsapevoli (e per entrambe la responsabilità quantomeno penale è sulle spalle dei carcerati, beninteso) e renderci conto di chi parliamo quando parliamo di detenuti, altrimenti portiamo avanti un’idea che non corrisponde alla realtà. E mi torna alla mente un caso.

Quale?

Quello di Francesco Viviano, giornalista di Palermo, inviato di Repubblica. Il padre era un ladro che fu ammazzato dopo aver rubato a casa di un mafioso. Francesco si arrangia come può, facendo dei lavoretti, ma nel frattempo medita di uccidere il killer del padre, e un giorno si presenta a casa sua. Tira fuori la pistola ma il mafioso esce dalla porta con in braccio un bambino, Francesco esita e poi se ne va. Si ritrova poi all’Ansa a fare il fattorino, e inizia la sua scalata professionale, fino al gradino di giornalista. In una frazione di secondo si è decisa la sua vita, mentre si trovava a un passo dal diventare un ergastolano omicida.

Una volta fuori dal carcere quanto è difficile, contando il peso specifico del pregiudizio, la ricerca di un lavoro per un ex detenuto?

L’Alto Adige è una realtà fortunata perché c’è piena occupazione, ma certo giocarsi la carta dell’ex detenuto non aiuta. A Bolzano abbiamo un buon sistema cooperativistico in cui le persone che seguiamo in Odós possono inserirsi, nel periodo della pena, e spesso imparare un mestiere perché in molti casi i detenuti non hanno grandi competenze professionali, né patentino o titolo di studio. La cosa positiva è che per la prima volta ci sono persone, 2 ex detenuti e 1 semilibero in Odós, che stanno lavorando con l’U.E.P.E., l’ufficio per l’esecuzione penale esterna, con borse lavoro del Ministero. Certo aiuterebbe se già all’interno del carcere ci fosse la possibilità di lavorare e imparare un mestiere spendibile in seguito sul territorio. Ma questo, esempio di Padova e rari casi simili a parte, non succede quasi mai.