Politica | attivismo

“La repressione non ci fermerà”

Gli arresti per l’imbrattamento del Senato dimostrano che la legge italiana ha tutti gli strumenti necessari per colpire il dissenso. Una storia vecchia come il Fascismo.
ultima_generazione
Foto: extinction rebellion

La mattina del 2 gennaio tre attivisti del movimento per la giustizia climatica Ultima Generazione sono stati arrestati per aver imbrattato la facciata del palazzo del Senato con della vernice arancione. L’accusa riguarda la violazione dell’art. 635 del codice penale, nello specifico danneggiamento aggravato. Il ministro Matteo Salvini ha rivendicato la paternità dell’arresto ricordando che nel 2019, all’interno del Decreto Sicurezza bis che porta la sua firma, era stato introdotto un comma che prevede l’inasprimento della pena fino a un massimo di cinque anni (che comporta l’introduzione dell’arresto in flagranza, prima non previsto) qualora il reato di danneggiamento si verificasse “in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico”.

Il blitz: La protesta di Ultima Generazione sulla facciata del Senato


Sebbene nelle ultime settimane le azioni di disobbedienza civile nonviolenta portate avanti dagli attivisti climatici, così come le risposte degli apparati repressivi, abbiano animato il dibattito pubblico, l'utilizzo del diritto penale per reprimere il dissenso politico non è una novità né tantomeno un’invenzione degli ultimi governi. La stessa richiesta avanzata dalla Questura di Pavia sull’applicazione della sorveglianza speciale, una riesumazione dal codice Rocco del 1931, nei confronti dell’attivista ambientale Simone Ficicchia (richiesta poi rimodulata durante l'udienza del 10 gennaio scorso), ricalca percorsi già battuti e che si intrecciano tra pesanti istituti legislativi ereditati dal Fascismo e progressivi accanimenti legislativi utili a colpire i soggetti ritenuti devianti: dai militanti politici ai sans papier, dai poveri ai sindacati, fino alle ong che operano nel Mediterraneo.

L’ultima volta che i media si sono occupati dell'utilizzo politico della sorveglianza speciale è stato infatti nel 2020, quando era stata richiesta contro cinque attivisti internazionalisti per essersi recati tra il 2015 e il 2018 nella Siria del nord. Quattro di loro si erano uniti alle milizie curde dello YPG e YPJ per combattere l’avanzata dello Stato Islamico, mentre un civile aveva documentato l’avanzata turca nel cantone di Afrin, denunciando il massacro in corso. La misura è stata infine applicata solamente a Maria Edgarda (Eddi) Marcucci in quanti ritenuta “socialmente pericolosa” nonostante fosse incensurata. 
La sorveglianza speciale fa parte di tutta una serie di misure preventive all’interno di quello che è stato definito un sotto-sistema penale di polizia. L’ordinamento italiano, accanto al normale sistema penale (che sanziona i reati ma prevede al contempo alcune garanzie fondamentali), prevede una serie di istituti che incidono pesantemente sulla libertà personale ancora prima che un reato sia commesso e accertato, avvalendosi di un'ampia discrezionalità amministrativa, nei confronti di persone ritenute sospette.

Per due anni, assieme ad altre numerose prescrizioni, Marcucci si è vista privare del passaporto e della patente, ha dovuto notificare in commissariato qualunque spostamento al di fuori del comune di residenza, le è stato impedito di stare fuori casa fra le 21 e le 7, di avvicinarsi a locali pubblici dopo le 18 e prendere parte a riunioni.

 

Un altro caso emblematico è quello dell’anarchico Alfredo Cospito, detenuto da sei anni nel carcere di Sassari e in sciopero della fame dal 19 ottobre scorso. I motivi della protesta riguardano il regime detentivo del 41-bis a cui è stato sottoposto dallo scorso aprile e perché la sua condanna a venti anni di reclusione potrebbe tramutarsi presto in ergastolo ostativo, che lo priverebbe della possibilità di accedere ai benefici di legge.
Cospito è stato ritenuto responsabile di un attentato risalente a 16 anni fa che, oltre ai danni trascurabili, non provocò né morti e né feriti.

Secondo l'ex ministra della Giustizia Marta Cartabia l’applicazione del regime del carcere duro, riservata quasi esclusivamente a coloro che hanno ricevuto pesanti condanne per reati di mafia, sarebbe giustificata per via dell’intensa attività di scrittura di Cospito all’interno del carcere, che secondo Cartabia avrebbe prodotto “numerosi messaggi che, durante lo stato di detenzione, ha inviato a destinatari all’esterno del sistema carcerario; si tratta – aveva sostenuto – di documenti destinati ai propri compagni anarchici, invitati esplicitamente a continuare la lotta contro il dominio, particolarmente con mezzi violenti ritenuti più efficaci”.
 

 

“È come trovarsi di notte, davanti a un condominio che sta bruciando. Il paradosso della repressione è che mentre tenti di urlare e suonare ogni campanello per salvare più inquilini possibili, la polizia arriva sul posto e ti multa per disturbo della quiete pubblica”. Così Jacopo di Extinction Rebellion Bolzano, riassume la situazione della repressione che sta colpendo il movimento per la giustizia climatica. Quando si segue la strada della disobbedienza civile nonviolenta, spiega l'attivista, si agisce con la consapevolezza che questo tipo di conseguenze potranno arrivare: “A volte è parte della strategia: ricevere una denuncia per un’azione non violenta serve a sua volta per denunciare l’ipocrisia di un sistema che sanziona chi porta alla luce messaggi giusti e condivisibili. La repressione – sostiene Jacopo – solo in parte può essere definita come la mera applicazione della legge: quando la questura avvia un’indagine lo fa su spinta di un apparato repressivo che si regge sul mantenimento del proprio status quo. Il messaggio è dunque politico, la repressione è politica”.

 

Anche gli attivisti e le attiviste locali, che si sono fatti conoscere per i numerosi flash mob e iniziative simboliche e pacifiche nel capoluogo, devono oggi fare i conti con numerose sanzioni amministrative e denunce penali. Misure che in alcuni casi sfoceranno in veri e processi in aule di tribunale: “Abbiamo denunce per blocco stradale, manifestazione non autorizzata, imbrattamento. In questa pioggia di sanzioni spesso si arrivano a dipingere scenari grotteschi: la nostra azione è sempre stata caratterizzata dalla non violenza ma ecco che se entri in un palazzo ti accusano di violenza privata”.

Tra gli esempi più eclatanti, quello che ha visto protagonisti due attivisti per la giustizia climatica: uno, seduto in mezzo alla strada reggeva un cartello rivolto agli automobilisti, l’altro, sul marciapiede, scattava alcune fotografie: “Era un’azione simbolica che serviva a sensibilizzare la popolazione sul messaggio e l’emotività del gesto. È stato contestato il reato di blocco stradale, nonostante non ci fosse alcun impedimento al traffico. Ma la cosa più assurda è che lo stesso provvedimento è stato notificato anche all’attivista che stava scattando le foto sul marciapiede, senza che ci fosse alcuna fattispecie di reato”.

 

Quando le azioni sono invece svolte in coordinamento con i nodi di altre città, ecco che tra gli strumenti compare l'obbligo di allontanamento, utilizzato negli anni per colpire il fenomeno ultrà negli stadi e più recentemente, grazie al decreto Minniti, contro senza dimora e soggetti ritenuti una minaccia per il cosiddetto decoro urbano: “Quest’estate – racconta Jacopo – ci trovavamo a Torino nell’ambito di un meeting nazionale rivolto al movimento climatico. Due ragazze si arrampicano sul balcone del palazzo della provincia, si incatenano e srotolano uno striscione. Una decina di persone si trovava all’esterno, per fare supporto e assicurarsi delle condizioni delle attiviste ma anche per volantinare e spiegare ai passanti il significato dell’iniziativa. La risposta delle Forze dell’Ordine è stata quella di notificare un foglio di via a tutte le persone presenti, indipendentemente dal tipo di azione intrapresa in quel momento”.

Il racconto: La versione delle attiviste e degli attivisti che hanno preso parte all'iniziativa di Torino della scorsa estate

 

Nonostante le misure repressive, le attiviste e gli attivisti del movimento per la giustizia climatica non sembrano farsi intimorire. La posta in gioco, spiega Jacopo, è troppo alta per fermarsi: “Ci troviamo davanti alla più grave crisi che l’umanità abbia affrontato. Il fatto che siamo a rischio estinzione è di una complessità cognitiva tale che è difficile da concepire. Eppure le conseguenze saranno sempre più evidenti: scoppieranno altre guerre civili, gli stati entreranno in conflitto per il controllo delle risorse sempre più limitate. Abbiamo pochi anni, quattro secondo le Nazioni Unite, per arrivare allo zero netto di emissioni. È necessario - sostiene Jacopo - far emergere una volontà politica chiara e in questo frangente si collocano le nostre iniziative: lanciare zuppa sul quadro, incollarsi alla cornice, bloccare la strada. È scaduto il tempo del corteo alla mattina, con i fischietti e gli striscioni: bisogna sovvertire completamente la nostra quotidianità. E noi lo facciamo con la disobbedienza civile non violenta. Quando i regimi si avvicinano al capolinea diventano folli e io temo che ci stiamo avvicinando a questo punto. Ma gli effetti dei cambiamenti climatici saranno sempre più evidenti e io credo che sempre più persone comuni, rendendosi conto di essere le più colpite, cominceranno a manifestare. La repressione - conclude l'attivista - non ci ha fermato e non ci fermerà”.

Bild
Profile picture for user Johannes Engl
Johannes Engl Mar, 01/17/2023 - 21:52

La maggior parte di questi attivisti non sono criminali e l'applicazione di leggi in parte derivanti dagli anni 1930 con pene esagerate é una vergogna per uno stato democratico.
Le attiviste svolgono un ruolo molto importante: aprirci gli occhi ad una realtà dramnatica che spesso vogliamo negare.

Mar, 01/17/2023 - 21:52 Collegamento permanente
Bild
Profile picture for user Markus Klammer
Markus Klammer Mar, 01/17/2023 - 23:05

La questione è non farsi impressionare o paralizzare troppo da leggi repressive e fidarsi dei dati e dei fatti empirici senza infettarci di panico collettivo. Ciò che abbiamo a disposizione è il dovere di agire e di sostenere il movimento con attiviste e attivisti . Sarà fondamentale collegare la preoccupazione per la Terra con azioni e comportamenti non rinviabili.
Mentre aspettiamo che i fatti si manifestino, perché la politica e l’economia dubitano della pertinenza della vera minaccia, la vita è in pericolo. E la terra subisce un naufragio con noi come spettatori.

Mar, 01/17/2023 - 23:05 Collegamento permanente