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Hai paura dei fuochi fatui?

Dellamorte Dellamore (Michele Soavi, 1994) è un cult da non farsi mancare in quest'ultima settimana d’agosto. Ma vorremmo qualcosa di nuovo, se ci fosse.
Dellamorte Dellamore
Foto: Tiziano Sclavi

La scorsa settimana ci siamo lasciati con il ripescaggio de Il Vedovo di Dino Risi, il capolavoro del cinema italiano novecentesco con Alberto Sordi e Franca Valeri. Quest’ultima settimana d’agosto, però, vorrei dedicarla a un altro ripescaggio - e quindi di nuovo cinematografico - anche se molto più recente del film di Risi del ‘59.

Dalla fine degli anni ‘50 ci spostiamo un po’ più in qua, per arrivare al 1994. Per amor di patria qui non si farà nessun elenco postmoderno dei maggiori eventi accaduti quell’anno da questa parte dell’emisfero, come qualsiasi maldestro conoscitore di cultura popolare contemporanea. I peggiori sono coloro che si occupano eminentemente degli anni ‘80: e quindi avremo “l’edonismo reaganiano, il there is no alternative di Margaret Thatcher, il revival del (buonissimo) Negroni in Italia” e così via. Niente di tutto questo applicato al ‘94. Dirò solo che fino al 13 gennaio il governo italiano è presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, come informazione primaria.

Nel 1994 esce un film importantissimo per la cultura popolare (credo che oggi a conoscerlo siano gli avventori delle famosissime nicchie, che spero non diventino presto dei loculi), ovvero Dellamorte Dellamore, diretto da Michele Soavi. Soavi è il regista del bellissimo Arrivederci amore, ciao e della recente serie televisiva RAI Rocco Schiavone. I fan di Dylan Dog lo ricorderanno forse solo per Dellamorte Dellamore (però e purtroppo), poiché il film è tratto dall’omonimo romanzo di Tiziano Sclavi, il creatore della serie a fumetti. Inoltre il romanzo - mai più riedito - è una sorta di primo abbozzo della serie bonelliana. Insomma, il cult si intreccia sempre con se stesso.

La storia è quella di Francesco Dellamorte, il becchino bellissimo e tenebroso interpretato da Rupert Everett che ha il gravoso compito di custodire il cimitero di Buffalora, un piccolissimo borgo di una non meglio precisata provincia settentrionale italiana. Il suo corpulento assistente è Gnaghi, che sa dire solo “Gna”. A Dellamorte - e qui arriviamo al gravoso compito - capita di doversi assumere la responsabilità di sparare qualche pallottola in testa ai ritornanti, ai morti che tornano in vita dalle tombe del camposanto di Buffalora. Ogni tanto sono così cortesi da bussargli anche alla porta di casa. Dellamorte, dopo lo scoppio dell’epidemia che fa resuscitare i non-morti, trova anche il tempo per innamorarsi di Lei (Anna Falchi), che continua anche lei a ritornare e a ritornare, in molte forme e in vesti diverse.

 

Dellamorte Dellamore [Trailer], per Michele Soavi (YouTube).

 

Il film è molto fedele al mood generale del romanzo, che riesce a intrecciare il drammatico al comico, la commedia nera al racconto orrorifico di stampo quasi caricaturale. La sceneggiatura, molto buona (fa molto ridere), è aiutata da una regia consapevole e matura. E se alla prima visione dovesse apparire un po’ camp, bisogna ricordarsi che i dialoghi con la Morte in persona in un paesino di una possibile campagna brianzola, potrebbe davvero  - sul serio - essere dannatamente camp.

Il film, come dicevamo prima, è molto fedele al romanzo (attenzione, non è un pregio in se, è solo un’attestazione meritoria) e Dellamorte Dellamore si tratta di un romanzo, un romanzo breve  - quasi brevissimo - di uno scrittore che ha interiorizzato i racconti di Kafka, in particolare Il processo. Si tratta di uno straordinario romanziere, oltre che fumettista, un vero letterato dalla pelle scoperta, che attraverso il racconto di finzione riesce attraverso la propria immaginazione a incanalare il malessere di ognuno e a non dare consolazioni di alcun tipo dopo averlo mostrato e raccontato e sofferto, Tiziano Sclavi è uno scrittore che ha la ferita.

Ma oltre ad essere capace di trasformare lo zombi - il ritornante - da un mostro contemporaneo nato come critica al consumismo a un mostro molto più raffinato e dotato di spessore filosofico (non il mostro in se - lui urla e basta - ma è la narrazione a essere profonda), riesce anche a descrivere con estremo acume la provincia nel suo estremo provincialismo, anche davanti all’apocalisse e alla messa in discussione della vita terrena. Sclavi usa la particolarità di un sentimento tipicamente italiano (la provincia italiana è un sentimento) per unirlo armoniosamente al racconto di genere orrorifico. Facendo anche ridere il lettore/spettatore: questo è merito di Soavi e della sua squadra.

In questi giorni di post-calura estiva, con l’uscita del nuovo film di Pupi Avati, Il signor diavolo, mi sono chiesto perché dopo Dellamorte Dellamore, non si sia potuto instaurare un canone cinematografico a partire da questo film, per quanto riguarda il cinema horror italiano, se esiste. Forse è un film così anomalo e sgangherato da essere inimitabile (ma neanche un misero clone?)? Oppure questo si deve alla scarsa lungimiranza di chi lavora nel settore? Sarebbe interessante vedere un cinema italiano che sappia usare il codice del grottesco e il codice del gotico orrorifico che però non sia occasionale o sporadico, che non sia un remake o un sequel di qualcos’altro, seppur apocrifo. Sarebbe bello se non si dovesse fare affidamento solo sui registi della vecchia guardia.