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Oltre il Muro

In mostra al Museo Civico le storie di uomini e donne che a Bolzano presero parte alla Resistenza costruendo un’importante rete clandestina. L'intervista a Dario Venegoni
Lager di Via Resia, Bolzano
Foto: Archiv

La fondazione CDEC (Centro di Educazione Ebraica Contemporanea), d’intesa con il Ministero dell’Interno ha riconosciuto a Bolzano il titolo di “Città della Memoria 2022”, per il grande impegno profuso dalla città attraverso il suo Archivio Storico sui temi della Memoria. 
Tra le tantissime iniziative che costituiscono il ricco programma ideato per l’occasione spicca la mostra “Oltre il muro”, curata da Dario Venegoni e Leonardo Visco Gilardi, che racconta della rete clandestina che durante il periodo di attività del lager di Bolzano permise un costante flusso di informazioni tra l’interno e l’esterno del campo, si occupò di fare pervenire aiuti ed organizzò fughe.
Questa storia è un mosaico di volti, di cui la mostra vuole rendere conto, fotografie che ricordano quelle dei nostri nonni nei vecchi album fotografici in bianco e nero. Sono ritratti di persone normali, che conducevano esistenze normali, ma che hanno compiuto gesti eroici rischiando la vita per un bigliettino, un rotolo di banconote, o qualche pacco clandestino. 
Dario Venegoni, già presidente dell'Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti, ricostruisce con salto.bz quella parte di storia della sua famiglia che va a intrecciarsi profondamente alla storia di Bolzano e a quella dell'Italia democratica nata dalla Resistenza.


salto.bz: Presidente Venegoni, oltre alle fotografie dell'epoca i materiali della mostra sono costituiti da lettere, messaggi clandestini e diverse comunicazioni...come sono stati raccolti e messi insieme?

Dario Venegoni: Io ho cominciato tempo fa a fare un certo lavoro per compilare l’elenco dei deportati al lager di Bolzano, e nel farlo ho contattato quanti più superstiti trovavo – i superstiti o i loro famigliari – e così facendo sono entrato in contatto con molte persone che non conoscevo e con le quali avevo in comune questo pezzo di storia famigliare, ovvero il fatto che i nostri genitori si fossero conosciuti o avessero lavorato insieme nel campo di Bolzano tra il ‘44 e il ‘45. 
Il primo di queste persone che ho conosciuto è Leonardo Visco Gilardi che ha fatto con me quel lavoro e che è il figlio di Ferdinando Visco Gilardi, colui che ha messo in piedi l’organizzazione clandestina che aveva un contatto con i prigionieri dentro il campo. Ho conosciuto così anche la figlia di Franca Turra che era la persona che ha preso il posto di Visco Gilardi quando fu arrestato, e altri figli e figlie di persone coinvolte in questa storia. Ciascuno di loro aveva in casa qualche cosina, chi poco, chi tanto. Io stesso ho capito facendo quel lavoro il senso di alcune carte che mia madre aveva conservato, che non conoscevo ed il cui significato mi è parso chiaro solo dopo essere entrato in questa realtà. I materiali provengono dunque da una pluralità di archivi privati, di cui la maggior parte dalla famiglia Visco Gilardi. 

Le persone in questione avevano conservato questi documenti consapevoli dell’importanza che potevano avere o per pura casualità?

Beh questa è stata un po’ la sorpresa. Ferdinando Visco Gilardi aveva nascosto questi documenti così bene che quando l’hanno arrestato e perquisito casa sua non li hanno trovati. E poi in qualche modo lui stesso li ha dimenticati. A seguito dell’arresto ha passato dei momenti molto drammatici, è stato torturato nel Corpo d’Armata per fargli dire chi erano gli altri coinvolti nella sua organizzazione ma lui non disse nulla, tant’è che la sua organizzazione sopravvisse. Però è ovvio che tenere in casa un documento uscito clandestinamente da un campo di concentramento delle SS dal punto di vista della logica della guerriglia, della resistenza, è pura follia, è contrario a qualsiasi regola, anche perché quei bigliettini avrebbero potuto se scoperti mettere nei guai chi li aveva scritti e altre persone di cui si fa il nome. 

Loro però utilizzavano dei nomi fittizi nella loro corrispondenza o sbaglio?

Non erano molto ligi da questo punto di vista. Ad esempio mia madre che si chiamava Ada, in teoria era stata ribattezzata “Maria”, ma se guardiamo i biglietti firmati da lei, scritti clandestinamente dentro il campo di Bolzano, quasi mai si firma Maria, firma per lo più con una A maiuscola che è davvero fin troppo trasparente. Poi parla dell’infermeria, da delle indicazioni che avrebbero consentito a chiunque di risalire a lei subito. 

Mia madre era la persona che dentro il campo faceva quello che Visco Gilardi faceva fuori. Era il punto di riferimento per le comunicazioni con l’esterno


Quindi Ada Buffulini è Sua madre? Il suo è un ruolo molto importante in questa storia.

Sì, mia madre era la persona che dentro il campo faceva quello che Visco Gilardi faceva fuori. Era il punto di riferimento per le comunicazioni con l’esterno. I due non si conoscevano tra loro, ma avevano in comune un’amicizia con Lelio Basso, il segretario del Partito Socialista clandestino dell’epoca. Mia mamma era una sua strettissima collaboratrice. Visco Gilardi  invece aveva conosciuto Basso negli anni precedenti al suo trasferimento a Bolzano. E’ stato Lelio Basso che ha consigliato a Visco Gilardi di provare ad avviare questo lavoro clandestino mettendosi in contatto con mia madre, perché i prigionieri avevano bisogno di aiuti – se si fosse riuscito a fare arrivare qualcosa da fuori sarebbe stata gran cosa – ma era anche importante avere notizie da dentro il campo, sapere chi arrivava. I tedeschi non facevano nessun tipo di comunicato, se venivi arrestato la tua famiglia non sapeva più nulla di te per mesi o per anni, o addirittura mai più. Anche questo era un modo di fare la resistenza: fare sapere alle famiglia cosa ne era dei loro cari.

 

Com’era finita nel campo di Bolzano Sua mamma?

Lei era stata arrestata appunto perché legata a Lelio Basso, alla cui organizzazione si era collegata l’8 settembre del 1943, un giorno di enorme confusione con l’annuncio dell’armistizio. Un amico di mia mamma la portò a conoscere Lelio Basso che le disse di avere tanto bisogno di una mano. Mia mamma era triestina ma era andata a studiare medicina a Milano nel 1930 – era una delle 4 o 5 ragazze che frequentavano la facoltà all’epoca.
Lelio Basso era parte integrante del CLN Alta Italia, viveva in clandestinità a Milano sotto falso nome, ritagliandosi un po’ un ruolo nell’assistenza a chi era stato catturato. 
Per un periodo mia madre continuò a lavorare in ospedale mentre collaborava con la Resistenza – un’attività più politica e culturale, non una lotta armata – ma ad un certo punto seppe che la sua più stretta collaboratrice era stata arrestata. A quel punto c’era il rischio che questa parlasse e che i tedeschi le piombassero in casa da un momento all’altro, dunque mia madre fece la valigia, prese la macchina da scrivere – fondamentale alla sua attività – e corse dalla parrucchiera a tingersi i capelli di biondo. Dopo aver messo degli occhiali che di solito non usava sparì come Ada Buffulini e visse con documenti falsi forniti dalla Resistenza dal novembre del ‘43 fino ai primi di luglio del ‘44 quando venne arrestata.
A Bolzano, poco dopo l’inizio dell’attività del campo, fu deportato un gruppo folto di collaboratori di Basso, tra cui mia mamma. Più o meno contemporaneamente Lelio Basso incontrò Visco Gilardi che malgrado fosse a Bolzano da pochi anni e non avesse molti collegamenti voleva fare qualcosa per aiutare, così Basso gli suggerì di provare a mettersi in contatto con Ada Buffulini e Laura Cont nel campo. Con grande coraggio Visco Gilardi si infiltrò nel lager fingendosi un artigiano e stabilì un contatto mettendo così in collegamento Bolzano con Milano, e avviando un’attività che durò fino alla liberazione. 

C’è un’altra donna molto importante in questa storia però.

Sì, in mostra abbiamo utilizzato molte carte conservate da Visco Gilardi ma anche molte da Franca Turra, che per nostra fortuna è stata una donna molto imprudente dal momento che teneva documentazione puntuale del suo lavoro. Per esempio abbiamo un registro in cui lei, che era contabile di mestiere, annotava giorno per giorno, nome per nome, i pacchi che riusciva a confezionare per i prigionieri e che mandava al campo indicando quello che c’era dentro. 
Ci sono alcuni esempi molto chiari in mostra di come funzionava questo meccanismo. Ad un certo punto mia mamma scrive a “Giacomo”, appunto Visco Gilardi – che ripeto mia madre non conosceva ma di cui si fidava – chiedendogli di mandare degli alimenti per una donna, Anna Zali, che era incinta di sette mesi e deperita. Dai quaderni di Franca Turra risulta molto puntualmente che loro una volta a settimana sono riusciti a mandare un pacco di alimenti, delle calze, una maglia ecc. 
Ho rintracciato Anna Zali tramite la figlia anni fa. Aveva 95 anni, la fotografai col suo triangolo rosso e numero di matricola di Bolzano e lei mi disse che non aveva mai saputo da chi avesse ricevuto periodicamente quei pacchi nel campo. 

Schiffer, il capo delle SS di Bolzano, in seguito raccontò di aver messo a punto un metodo di interrogatorio infallibile, su tre livelli. La maggior parte parlava già dopo il primo, praticamente tutti al secondo, al terzo non ce n’era per nessuno. Solo una persona Schiffer non riuscì a far parlare e fu proprio Ferdinando Visco Gilardi.

Ad un certo punto però buona parte del gruppo viene arrestato…

Sì, qualcuno parlò e fece i nomi di quasi tutti. Nel dicembre del 1944 furono arrestati e rinchiusi nel Blocco Celle. Anche in questa situazione Visco Gilardi si comportò in modo straordinario, doveva essere una persona del tutto eccezionale. Schiffer, il capo delle SS di Bolzano, in seguito raccontò di aver messo a punto un metodo di interrogatorio infallibile, su tre livelli. La maggior parte parlava già dopo il primo, praticamente tutti al secondo, al terzo non ce n’era per nessuno. Solo una persona Schiffer non riuscì a far parlare e fu proprio Ferdinando Visco Gilardi.

Cos’era esattamente il blocco celle?

Il Blocco Celle era quello che in tutti gli altri campi delle SS si chiamava il bunker, ovvero la prigione del campo. Quelli che andavano in prigione erano i primi ad essere deportati ma soprattutto i primi ad essere ammazzati o torturati quando le guardie ne avevano voglia. Nel Blocco imperversavano queste due giovanissime guardie ucraine, Otto Sain e Misha Seifert, di cui tutti i testimoni di Bolzano parlano come di due sadici. Nella mia famiglia dove non si raccontavano storie di orchi e lupi mannari, i cattivi della mia infanzia erano Misha e Otto. Con loro c’era anche Albino Cologna, un sudtirolese che entrato nel campo con una ditta di costruzioni e fu tenuto lì a fare la guardia. Fu soprannominato Albino Carogna.
Mia mamma negli ultimi mesi fu rinchiusa a sua volta nella prigione del campo. Descrisse le celle, piccolissime, 1,20 x 2,50 metri, un letto a castello a due piani e appena lo spazio per aprire la porta.
Le celle erano il posto dove più si torturava e si uccideva. Pur non essendo un campo di sterminio anche nel lager di Bolzano si uccideva e si massacrava. 
Ci sono solo due foto che ritraggono il lager in attività. Una delle due raffigura Monsignor Girolamo Bortignon, vescovo di Belluno, sulla porta del campo, in procinto di entrare dopo aver ottenuto il permesso di celebrare la messa di Pasqua. Era il primo aprile 1945, un giorno memorabile per molti aspetti, innanzitutto per via della celebrazione della messa, che per tanti credenti è stato un momento di anticipazione di un ritorno all’umanità e alla libertà, ma soprattutto perché mentre veniva celebrata la messa si sentivano venire dal Blocco Celle le urla di Bortolo Pezzutti che veniva massacrato di botte e sventrato da Otto e Misha. 

Quello che mi ha molto sorpreso facendo questo lavoro è la quantità di persone coinvolte

Collaborare alla rete clandestina era quindi molto pericoloso?

Quello che mi ha molto sorpreso facendo questo lavoro è la quantità di persone coinvolte di cui noi abbiamo cercato di rendere conto anche mostrando le facce di queste persone, facce da gente normale, contadini, artigiani...c’era la casellante, la panettiera, insomma un ventaglio di figure che da l’idea di cosa fosse la Resistenza, un fenomeno molto variegato. 
Tutta gente che ha messo a repentaglio la vita per portare un bigliettino, portare dentro e fuori una notizia, una richiesta d’aiuto. Quando dico mettere a repentaglio la vita non è un modo di dire. Andrea Gaggero che era un sacerdote di Genova si era acquistato una posizione di qualche privilegio nel campo. Il capo del lager trovava in qualche modo umoristico affidare a questo prete la sorveglianza dei lavori per un posto che sarebbe diventato il bordello del campo. Potendo uscire tutti i giorni per seguire i lavori Gaggeri si era pertanto messo a disposizione per portare dentro e fuori bigliettini clandestini. Per non far trovare i bigliettini durante la perquisizione li incerottava tra le scapole al centro della schiena, dove di solito chi perquisisce non tasta, ma un giorno una guardia dopo la perquisizione gli diede una pacca sulla schiena per sollecitarlo a proseguire e si accorse dei biglietti. Gaggero finì sul primo treno per Mauthausen. E’ anche ritornato, fortunatamente...

 Il sistema di scambio avveniva quindi tramite persone che entravano ed uscivano dal campo?

Per un lungo periodo i deportati venivano utilizzati fuori dal campo per dei lavori. Sotto la galleria del Virgolo venivano ad esempio prodotti cuscinetti a sfera. Alcuni di questi lavoratori si offrivano di fare da tramite. Il lavoro era piuttosto rischioso e complicato. Ci volevano più persone: qualcuno tra i deportati che si assumesse il rischio di uscire con messaggi, qualcuno lungo il percorso o sul luogo di lavoro che accettasse di ritirarli e consegnarli ai membri della rete clandestina, e poi qualcuno che li portasse a Milano.
È incredibile pensare che in queste condizioni ad esempio mia mamma abbia mantenuto una corrispondenza con Lelio Basso per tutto il tempo della sua prigionia. Dobbiamo immaginare innanzitutto che riuscisse a scrivere, malgrado fossero proibiti carta e penna, con una certa continuità, per poi affidare il messaggio a qualcuno che lo portasse fuori dove con un passamano giungeva a Visco Gilardi o Franca Turri che a loro volta lo consegnavano a qualcuno della zona industriale che avesse contatti con chi guidava i camion che facevano la spola tra Milano e Bolzano. Il biglietto poi doveva essere consegnato a Milano a qualcuno che conoscesse un tramite con quei pochissimi che sapevano dove si nascondeva Lelio Basso. Impressionante...eppure ci riuscivano.

 

Ogni tanto fu possibile anche qualche fuga? 

Sì la parte più interessante della mostra è che siamo riusciti in un caso a documentare interamente una fuga. Ad un certo punto apprendiamo dai messaggi che due ragazze, Rina Chiarini e Maria Angela Moltini, hanno manifestato l’intenzione di fuggire dal lager. Chiarini era la compagna di Remo Scappini, uno dei capi della Resistenza a Genova – per intenderci è quel partigiano nelle cui mani è stata firmata la resa dell’armata tedesca a Genova il 23 aprile 1945. Rina Chiarini era stata arrestata sotto falso nome e malgrado le torture e interrogatori durati per 40 giorni non rivelò nulla e rimase registrata come Antonietta Bianchi. Quando le due ragazze manifestarono l’intenzione di tentare la fuga Franca Turra mise in moto un piano per l’evasione. Il giorno prestabilito le due ragazze uscite dal campo insieme ai lavoratori abbandonarono la fila. Ad aspettarle c’era un uomo di cui sappiamo il nome, Bepi Bombasaro, con due biciclette, che le guidò fino ad un luogo dove furono messe al sicuro e poi trasportate a Milano dopo qualche giorno su uno dei camion che facevano la spola dalla zona industriale. 
Una volta che le ragazze giunsero a Milano sane e salve vediamo che sul suo registro Franca Turra sul nome di Antonietta Bianchi, tira una riga e annota: “partita vinta”.