Cultura | Salto Weekend

Genesi

Una piccola chiacchierata con Nazario Zambaldi, direttore di CRATere, una rassegna di teatro sperimentale lontana dal centro e vicina ai margini - dal 26 al 29 maggio.
Piedi
Foto: Nazario Zambaldi

CRATere, luogo dell'annullamento, punto zero da cui ricostruire. Ma ricostruire cosa? L'umanità, l'empatia, le relazioni, il tessuto sociale, provando a capovolgere le prospettive, rendere centrale il marginale, rivitalizzare gli spazi morti.

CRATere è la piccola rassegna di teatro sperimentale nata nel 2010 e diretta da Nazario Zambaldi. Lontano dai teatri e dalle luci della ribalta questo teatro non è solamente spettacolo da consumare, ma è un laboratorio, un luogo di discussione, che dove passa lascia la sua scia e getta idealmente un seme. Per questo lo troviamo al Macello, ai Piani di Bolzano, dove l'associazione Teatro Pratiko, che organizza CRATere, ha attivato dal 2016 atelier di arte, musica, teatro e cinema. Lo troviamo a Merano al Centro per la cultura, dove Teatro Pratiko organizza le attività di "Centro Teatro". Ed infine lo troviamo ai laghetti di Ruffré e al Museo degli Usi e Costumi d'Anaunia nella forma di NoN festival, anch'esso declinazione di CRATere diffusa sul territorio nonché laboratorio permanente di arte e teatro.

Dal 26 al 29 maggio la rassegna torna con il titolo "genesi", con un programma denso di spettacoli e laboratori.

 

Salto.bz: Perché c’era bisogno di Cratere?

Nazario Zambaldi: CRATere nasce nel 2010 come tentativo di mettere in relazione i progetti locali con altre esperienze. In particolare, in quella prima edizione intitolata “della rivolta” presentavo gli spettacoli realizzati in contesto psichiatrico a Merano, già ospitati al Dams di Bologna da Marco De Marinis e al Teatro Metastasio di Prato da Giuliano Scabia, accogliendo la Compagnia della Fortezza di Volterra con il teatro in carcere di Armando Punzo. Il Teatrino Clandestino, tra le più significative compagnie di teatro di ricerca, aveva portato lo spettacolo Candide (o il bastardo) allestito nel garage del liceo Pascoli appena inaugurato, dove insegno, mentre Cuore di cane era la produzione che avevo allestito al Teatro Cristallo per le scuole e al Centro per la cultura di Merano. Anche gli altri appuntamenti per contenuti e attraversamenti di luoghi e contesti rivelavano l’intento di rovesciare la prospettiva tra marginalità e centralità, alto e basso, “fuori” e “dentro”… quindi più che di bisogno parlerei di “necessità”, come nel titolo di un’altra edizione della piccola rassegna, la necessità di creare spazi vitali oltre le cornici riduttivamente istituzionali.

 

 

Cos’è per lei il teatro? Qual è o quale dovrebbe essere la sua funzione?

Per me è stato un modo per uscire dall’isolamento, da una dimensione solitaria più adatta forse ai miei studi di pittura all’Accademia di Bologna. Il mio primo spettacolo nel 2005 al Puccini di Merano, poi al teatro studio di Bolzano, quindi proprio all’Accademia di belle arti di Bologna, era ispirato a Bartleby lo scrivano di Melville. La scena si affacciava su Wall Street, la strada del muro: si può dire che il muro da superare – nello spettacolo erano coinvolti attrici, attori, artisti, pazienti psichiatrici – abbia aperto un percorso in cui la città è rimasta la metafora per un lavoro e una ricerca di costruzione, relazionale, sociale. Il teatro è infatti lo specchio della città dalle sue origini.

 

Scorrendo il programma si ha l’impressione di una polarizzazione tra due temi, quello della distruzione/disfacimento di quello che è/era e il bisogno di rinnovamento, una nuova genesi. Lei da dove partirebbe? Cosa avrebbe bisogno di essere radicalmente diverso?

La scorsa edizione era intitolata “eco” riprendendo il titolo di un progetto pluriennale sulla realtà aumentata (e.c.o. electronic cooperation online) che mi ha fornito la base pure per una ricerca di dottorato qualche tempo prima della didattica a distanza e del distanziamento sociale. La recente accelerazione pandemica del processo di smaterializzazione già in atto ha reso ancora più attuale la necessità proprio della dimensione analogica dell’esperienza: le arti, il teatro intese al di qua – o al di là – dell’intrattenimento, dell’effetto, della società dello spettacolo, possono creare i luoghi della genesi delle coscienze. Pasolini nel 1975 diceva: “Darei l’intera Montedison per una lucciola”. Riprendendo quest’immagine Georges Didi-Huberman scriveva di “uomini-lucciole” “parole-lucciole” “immagini-lucciole” “saperi-lucciole” come barlumi di una possibile resistenza, vitale...

 

 

Perché tra i temi trattati c’è quello della "fine della città"? È solo un’immagine un po’ catartica o l’espressione di una tendenza, un qualche fenomeno concreto?

Tra gli ospiti di CRATere “genesi” c’è Manuel Orazi che ha curato a ottobre 2021 per Quodlibet “Testi sulla (non più) città” di Rem Koolhaas. Una citazione da questo architetto filosofo fornisce il sottotitolo al progetto (Polis) che mi ha occupato negli ultimi anni: la città non c’è più, possiamo lasciare il teatro ora. Questo fare teatro che è fare comunità – sullo sfondo di una scomparsa di beni e spazi comuni – era partito dai centri richiedenti asilo, con azioni e performance nella città, proseguendo nelle scuole, nei musei… uno dei contesti aperti in questa fase ai Piani di Bolzano, denominato Macello, sede bolzanina dell’associazione organizzatrice Teatro Pratiko, ospiterà venerdì il primo appuntamento pubblico M (il discorso di Metz) di Philip K. Dick di e con Pietro Babina, fondatore di Teatrino Clandestino, più volte premio Ubu.

 

Si parla anche di memoria, di radici, di una relazionalità verso cui mi sembra di cogliere uno sguardo nostalgico. C’è qualcosa che si sta perdendo nella società di oggi e che ha bisogno di essere recuperato? Il teatro presentato in questa rassegna ha questa funzione? Recuperare o ricostruire qualcosa di perduto?

Nel 2019 la collaborazione con Mamadou Dioume, cresciuto artisticamente con Peter Brook, si è aperta significativamente a Merano con un laboratorio intitolato “Origini” proseguito poi in CRATere “qui e altrove” nel 2020. Anche il ruolo di Dioume in Polis nell’episodio Junk City richiama questo spazio originario, che era l’ambientazione nel 2017 al Museion per la performance Eden con richiedenti asilo. Più che di nostalgia, parlerei quindi di alternativa alla rimozione in atto che riguarda l’accesso all’archivio di saperi condivisi. In questa direzione si era aperto il laboratorio “sul confine” al passo Mendola nel 2014, NoN festival, rendendo agibili attraverso arti, musica, teatro, alberghi e altri edifici in semi o totale abbandono. Allora si era immaginato tra l’altro, insieme all’amico regista Jonny Costantino, proprio a uno di quei luoghi come possibile set per il film che verrà presentato sabato alle 19 nella sede di Merano, La Lucina, dal romanzo breve di Antonio Moresco, che ne è pure l’attore protagonista: lontano nei boschi un uomo anziano vive in completa solitudine, ma un mistero turba il suo isolamento, ogni notte, nell’oscurità che avvolge la montagna di fronte alla sua casa, comincia improvvisamente a palpitare una lucina. Cosa sarà? Inizia una ricerca che conduce l’uomo a incontrare il bambino.