Società | Il caso

Caritas sull’attenti

Armi finte e passamontagna al corso per gli operatori che lavorano nell’accoglienza dei profughi. E scoppia la polemica. Ma Valente getta acqua sul fuoco.
Facebook/Copsiaf
Foto: Facebook/Copsiaf

È utile e giusto, per chi lavora nel sociale, partecipare a un corso di formazione che prevede l’impiego di armi finte, passamontagna, e giochi di ruolo con ostaggi e sequestratori, cappucci in testa e umiliazioni anche se simulate? E che dire se l’iniziativa viene rivolta esclusivamente a chi lavora nel settore dell’accoglienza dei richiedenti asilo, evidentemente perché bollati, questi ultimi, ormai di default, come i soggetti per antonomasia più aggressivi? Per quale motivo non puntare piuttosto sull'insegnamento della de-escalation?

A sollevare queste domande sono stati alcuni operatori sociali che hanno dovuto seguire a Bolzano un corso - proposto dal proprio datore di lavoro, la Caritas, e costato la bellezza di 22 mila euro - in “psicofisiologia delle situazioni critiche”, affidato alla società di consulenza Copsiaf che offre “supporto psicologico per militari, forze dell'ordine e civili coinvolti in eventi ad alto rischio, formazione sulla gestione dello stress che ne deriva”, come recita il sito dedicato. Il video che sponsorizza il progetto dà una chiara idea del modus operandi dell’agenzia:

Gli organizzatori hanno chiesto ai partecipanti di presentarsi in abbigliamento comodo, con vestiti che possano “anche essere strappati” e avvertono di prepararsi a situazioni potenzialmente severe e a simulazioni con le armi giocattolo. Vengono richieste anche delle autocertificazioni per l'assunzione di responsabilità in caso di reazioni fisiche e psichiche fuori misura, per così dire. Del resto c'è anche chi, fra i partecipanti, ha avuto una crisi di panico e si è ritirato. 

 

Paolo Valente, direttore della Caritas, ridimensiona tuttavia la questione specificando che non si trattava di un corso obbligatorio né di autodifesa. L’obiettivo, piuttosto, era quello di “mettere gli operatori nelle condizioni di misurarsi con le loro reazioni in vista di una situazione ipotetica”, dice il direttore dell’associazione intervistato da Il Dolomiti, e aggiunge: “Le pistole usate nella simulazione servono a provocare un forte impatto emotivo in modo da vedere le reazioni dell'operatore. Ma nessuno auspica o prevede che ci siano aggressioni con armi da fuoco nei centri per richiedenti asilo o in qualsiasi nostra struttura”.