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Un amore che capisce anche un bambino

Mattia Zecca racconta in un libro la sua storia di famiglia arcobaleno, il rapporto con le madri biologiche e la guerra contro uno Stato che censura la loro esistenza.
Lo capisce anche un bambino
Foto: salto.books

 “Lo capisce anche un bambino” è la storia reale di una famiglia che ancora oggi risulta invisibile di fronte agli occhi dello Stato. Quello che non riconosce la Legge, viene però visto dagli occhi di un bambino, in questo caso di due bambini, Lorenzo e Martino, i figli di Mattia Zecca, l’autore del libro, e del compagno Nicola che si amano ormai da tredici anni. Una storia personale e collettiva di una famiglia della Capitale che, come tutte, condivide il proprio bagaglio di gioie, dolori, amori e speranze. È anche una storia buia che vede protagonisti due bambini con due genitori, impegnati in uno scontro ad armi impari con l’ordinamento italiano che ne riconosce solo uno per ciascuno: per la legge italiana, Lorenzo e Martino, che condividono tutto, persino la stessa cameretta, non sono nemmeno fratelli.
In mezzo a una lotta estenuante a cui l’avvocato trentasettenne e il compagno devono prendere parte dentro le fredde stanze di un tribunale, Mattia Zecca racconta la storia di “una famiglia inconcepibile”.


salto.bz: Una delle parole più ricorrenti nel suo libro è quella di “concepire” utilizzata in tutte le sue possibili declinazioni e sfumature. Come ha concepito dunque questo libro e l’esigenza di raccontare a un pubblico ampio la sua storia di famiglia?


Mattia Zecca: La parola “concepire” va dritta al cuore di quello che mi premeva raccontare. Questo riguarda soprattutto il percorso di chi ha l'opportunità, la fortuna e anche a volte un po’ l'incoscienza di diventare un genitore ma anche tutto quello che prima non esisteva, come un libro. Io scrivo da sempre e la scrittura mi appartiene come strumento di espressione, necessario per mettermi in comunicazione in primo luogo con me stesso ma anche per entrare in comunicazione emotiva con gli altri, Quando mi sono trovato papà, prima di Lorenzo e poi di Martino sono diventato automaticamente il portatore di una storia peculiare ma che però, allo stesso tempo, somigliava tantissimo a quella di tanti altri. Per questo motivo ho sentito l’esigenza di raccontarla in un libro, concepito come l’urgenza di condividere la mia storia così da poterne ritrovare i tratti che la rendono in qualche modo universale

Lei ha fatto una scelta stilistica molto particolare, quella di introdurre ogni capitolo con un quesito molto freddo, spersonalizzante e a tratti crudele tipico di un processo, in netto contrasto con quello che viene raccontato subito dopo, pieno di calore, emozioni e vita. È così che vi sentite? Perennemente sotto giudizio di una commissione dalla sentenza già scritta?

I quesiti riportati in corsivo all’inizio di ciascun capitolo sono tratti testualmente dal procedimento giudiziario che abbiamo affrontato per chiedere che fossimo entrambi riconosciuti come genitori di Lorenzo, il nostro primo figlio. Quell’assurda freddezza, quello scollamento dalla realtà li abbiamo vissuti veramente quando ci siamo recati davanti all’Istituzione per chiedere che i nostri bambini venissero riconosciuti e tutelati come tutti gli altri. Devo dire però che nella vita di tutti i giorni noi ci sentiamo visti esattamente per quello che siamo, cioè una famiglia. Non abbiamo mai percepito un vero giudizio da parte degli altri. Qualche volta un po’ di positiva curiosità o dell’immeritata ammirazione. È solo l’istituzione che non ci vede e quindi, non vedendoci, ci pone a questo esame umiliante completamente scollegato dalla realtà, con una continua e morbosa richiesta di giustificare la nostra esistenza.

Il pregio dei libri è quello di mettere di fronte le persone a delle storie vere, contribuendo a sgonfiare il potere di certe ideologie che non sempre corrispondono alla realtà.

È anche per questo che nel libro ha voluto mettere subito in chiaro il rapporto con Ashleigh e Danielle, le madri biologiche di Lorenzo e Martino?

Con Ashleigh e Danielle c’è un rapporto bellissimo che tuttora perdura, un aspetto fondamentale per la nascita dei nostri figli e che ha creato la base per delle relazioni straordinariamente forti di amicizia con delle famiglie che aiutano un’altra famiglia a diventare più grande. Questa che ho raccontato è anche la storia di una forte autodeterminazione femminile e un atto di profonda generosità da parte di queste nostre amiche. Quello che voglio ribadire, e lo si evince sin da subito dalle prime pagine, è che questa è la nostra storia che racconta il modo con cui sono nati i nostri bimbi. Non è un libro ideologico che insegna agli altri come si vive e non ho la pretesa di farlo. È semplicemente la mia storia, la nostra storia, che fortunatamente è molto positiva. Ci dispiace che purtroppo a livello ideologico, di narrazione politica e spesso giornalistica venga enfatizzata sempre una visione negativa della gestazione per altri. È giusto che sia sottoposta alla massima attenzione trattandosi di un modo peculiare con cui si può concepire un figlio e che vede coinvolte anche persone, in questo caso delle donne. È fondamentale che sia scongiurato in ogni modo possibile qualsiasi forma di abuso e sfruttamento, fenomeni che sono comunque distanti dalla nostra storia. Il pregio dei libri è quello di mettere di fronte le persone a delle storie vere, contribuendo a sgonfiare il potere di certe ideologie che non sempre corrispondono alla realtà.


A proposito di realtà, i suoi racconti si intrecciano molto spesso con la genesi del lago Ex Snia e le rivendicazioni del popolo curdo. Qual è il filo conduttore che lega questi tre mondi apparentemente così diversi e lontani?

Sono tre mondi che esistono, che sono visti dagli altri e che appartengono alla natura: parliamo di un lago, di una famiglia, di una nazione che però scontano una cosa negativa comune, ovvero quella di non essere riconosciuti dalle istituzioni: il lago ex Snia non viene riconosciuti dall’amministrazione locale di Roma e dai documenti ufficiali della città, come la nostra famiglia, pur essendo evidentemente una famiglia, non è riconosciuta dalla legge come tale, una sorte simile alla storia del popolo, che nonostante sia suddiviso in tre stati ha evidentemente una sua capitale, un suo territorio, una sua lingua e una propria cultura che però le istituzioni internazionali si rifiutano di riconoscere. Nel nostro caso, come ad ogni famiglia omoaffettiva, si è chiamati a una sorta di inversione dell’onere della prova. Le famiglie eteroaffettive sono composte da bravi genitori fino a prova contraria, poi quando ci sono problemi allora interviene l’autorità. Le famiglie omoaffettive, che visto il lunghissimo iter sono nella stragrande maggioranza dei casi fortemente consapevoli e con una forte identità, sono sottoposte al processo inverso. Per essere riconosciuto come genitore devi dimostrare di essere un bravo genitore, e questa discriminazione va a danno dell’intera collettività a partire dai bimbi coinvolti. Uno stress riconducibile a tutte le minoranze e i gruppi discriminati, quello di dimostrare di essere qualcosa in più di quello che sei per far vedere che vali ed esisti. Le donne sul posto di lavoro devono essere professioniste impeccabili, lo straniero viene in Italia e deve dimostrare di essere un perfetto cittadino modello, che sorride sull’autobus e che non deve gettare le cartacce per terra: si chiede di rispettare quelle regole di convivenza che molto spesso nemmeno il cittadino rispetta. Lo stesso per le famiglie arcobaleno, anche il papà gay ha diritto di accompagnare il figlio a scuola senza per forza dover per forza sfoggiare ogni giorno un sorriso a 32 denti.

Il momento più doloroso è stata quello dello scontro con l’istituzione che insisteva per negare la nostra identità

Nel suo libro ne hai descritti molti, ma se proprio dovesse visualizzare nitidamente un’immagine, qual è il suo pensiero felice, quello che a Peter Pan farebbe spiccare il volo?

Ce ne sono molti sì, ma se ne devo visualizzare uno direi senza dubbio tutte quelle volte che mi ritrovo a ridere con i miei figli. Io penso che sia diritto di ogni bambino avere un motivo per ridere. Tutte le volte che succede, e devo dire che nella mia famiglia succede spesso perchè siamo piuttosto buffi, mi sento di spiccare il volo come Peter Pan, mi spinge ad attendere con fiducia e motivazione il domani, confidando che sarà sempre migliore dell’oggi.

E i momenti più brutti?

Quelli che appartengono un po’ a tutti i genitori, quando i nostri figli non stanno bene. Con Martino, per esempio è successo anche questo. Aveva difficoltà respiratorie per via di un virus che ha preso da molto piccolo e ci siamo molto spaventati: l'idea di perdere la cosa cara che si ha o vederla stare male è motivo di massima sofferenza che non auguro a nessuno. Come genitori, nel nostro percorso un po’ peculiare, il momento più doloroso è stata quello dello scontro con l’istituzione che insisteva per negare la nostra identità, addirittura mettendo in discussione il rapporto del genitore biologico con il nostra bimbo. Lì abbiamo avuto molta paura, non sapevamo cosa fare per dimostrare di essere quello che eravamo. Ci siamo sentiti minacciati nella nostra identità di genitori che però, anche questa volta, ne è uscita più forte.