Noa Pothoven
Foto: Dazed
Gesellschaft | Eutanasia

Sciacalli in abito talare

Il caso di Noa Pothoven e il peggio del peggio del cattolicesimo.

La notizia era di quelle da dare con infinito pudore e priva di commenti. Una ragazza olandese di 17 anni, vittima da bambina di molestie prima e di una duplice violenza carnale poi, dopo un calvario interminabile fatto di depressione, anoressia, tentativi di suicidio, ricoveri ospedalieri, alimentazione forzata e trattamenti farmacologici di ogni tipo, ha deciso di lasciarsi morire rifiutando acqua e cibo. Lo ha fatto a casa sua, annunciando la sua decisione ad amici e famigliari e chiedendo a chi l’amava di rispettare la sua scelta e lasciarla andare.

Tuttavia, il semplice fatto che tutto ciò sia accaduto in Olanda e che a quanto pare durante gli ultimi giorni di vita fossero presenti, accanto ai genitori, anche dei medici ad alleviare le sue sofferenze, è bastato alle gerarchie vaticane dal papa in giù a berciare con usitata violenza contro l’eutanasia e chi vorrebbe legalizzarla anche in Italia. Leggete, se avete lo stomaco forte, cos’è apparso sull’Osservatore Romano, quotidiano edito in Città del Vaticano dalla Segreteria della comunicazione della Santa Sede:

È lecito sperare che la vicenda di Noa possa riattivare l’impegno a combattere contro il consolidarsi delle legislazioni eutanasiche, e non solo in Olanda? Sperarlo è più che lecito, ma è probabilmente illusorio pensare di poter facilmente tradurre queste speranze in nuovi assetti normativi, volti a sancire una rigorosa difesa della vita.

E ancora:

Che la lotta contro il dolore sia sacrosanta, non c’è bisogno di ribadirlo, come non c’è alcun bisogno di ricordare come l’insegnamento spirituale di Gesù sia sempre stato accompagnato, e in un certo senso avvalorato, dai suoi miracoli. Il dramma della modernità non consiste nel suo voler ostinatamente dire di no al dolore, ma nel dirlo male, non prendendolo sul serio, cercando affannosamente di sostituire al dolore forme ingenue, e perfino infantili, di piacere, che oggi arrivano fino al punto di ipotizzare che la stessa morte (l’ultimo nemico, secondo la forte espressione di san Paolo nella prima lettera ai Corinzi) possa essere scelta e sperimentata come “dolce” (cioè come “eu-tanasia”!).

Come ha ben ricostruito Maurizio Ferrandi nel suo editoriale dell’8 giugno, nel caso di Noa non si è trattato né di eutanasia né di morte assistita. Infatti, quando si era rivolta a una clinica di fine vita chiedendo di poter mettere fine al proprio strazio, l’autorizzazione le era stata negata a causa della giovane età. Eppure, questi sciacalli col crocifisso al collo non hanno perso l’occasione per lanciare l’ennesimo anatema contro chi rivendica il diritto di morire, in caso di malattia irreversibile e connesse indicibili sofferenze, secondo il proprio personale concetto di vita degna di essere vissuta.

Sia ribadito a chiare lettere. Se la Chiesa Cattolica si limitasse a propinare la sua dottrina (ricolma di assurdità teologiche e oscurantismo morale come poche altre nella storia dell’umanità) soltanto ai propri seguaci, i non credenti potrebbero prenderne atto con un sorriso. Ma poiché essa impone con ogni mezzo la sua medievale visione del mondo a tutti i cittadini (ora di religione nelle scuole pubbliche, attacchi incessanti alla legge sull’aborto, condanna dei matrimoni gay, illegalità dell’eutanasia), chi ritiene inammissibile l’intromissione della Chiesa nella vita pubblica di uno Stato sedicente laico non può che fare dell’anticlericalismo un dovere morale.

Ora Noa non c’è più. Ha lottato come una leonessa, ma non è bastato. Se chi ne ha giudicato la scelta dall’alto di un pulpito incrostato si fosse raccolto in ossequioso silenzio, avrebbe mostrato almeno un barlume di dignità.