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“È ora di rimboccarsi le maniche”

Letizia Ragaglia, direttrice di Museion, sull’incomprensibilità dell’arte contemporanea, sulla sua vicepresidenza alla Fondazione Carispa e sul “disagio degli italiani”.
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Foto: Foto:Silva Corvetta

salto.bz: Ragaglia, l’arte contemporanea è spesso considerata distante, provocatoria, elitaria, incomprensibile e questo può portare all’allontanamento del pubblico fruitore dal circuito culturale artistico, pensiamo ad esempio all’equivoco che lo scorso anno ha spinto le donne delle pulizie a gettare nell’immondizia un’istallazione oppure l’episodio legato all’opera dell’artista svizzero John Armleder, un albero di Natale steso a terra che qualche sera fa è stato messo solertemente in piedi da alcuni tecnici che si trovavano nel passage del Museion. Qual è la formula per trasformare un museo da “torre d’avorio” a crocevia accessibile di incontri ed esperienze?

Letizia Ragaglia: Io vorrei che il Museion fosse esattamente il contrario di una torre d’avorio e credo che con tutte le offerte che proponiamo ai diversi pubblici, includendo ad esempio anche i malati di Alzheimer, i ciechi, organizzando incontri con gli over 60, stiamo raggiungendo questo obiettivo. L’arte contemporanea ci parla tante volte del nostro quotidiano, e proprio a proposito dell’episodio accaduto l’anno scorso con l’opera “Dove andiamo a ballare questa sera?” di Goldschmied & Chiari, ecco, nel buttarla via le donne delle pulizie, in fondo, non hanno fatto altro che completare perfettamente quell’istallazione che riproponeva di fatto uno scenario post-festa. Anche Armleder è un artista che ci dice: l’arte è nella nostra vita, ma ci insegna a vedere le cose da un altro punto di vista, a mio parere fondamentale.

"Ci tengo che Museion sia il posto dove si possa trovare un albero di Natale sdraiato per terra."

Quale?
Vede, io sono molto contenta quando un bambino entra nel nostro museo e impara a guardare le cose da un altro lato, impara che su una sedia non ci si può solo sedere ma che è possibile raccontarci intorno una storia. Forse gli adulti hanno più difficoltà ad avere questo sguardo ma ci tengo che Museion sia il posto dove si possa trovare un albero di Natale sdraiato per terra. È legittimo che tanta gente si senta a disagio di fronte a certe opere, stranamente poi quando si parla di arte ci sentiamo tutti in diritto di giudicare, ma quando un visitatore esce dal museo con un’esperienza in più che possa averlo anche minimamente cambiato, beh, quella è la cosa più bella. Il museo, del resto, non è la televisione, non si sta seduti accettando passivamente quello che succede davanti ai nostri occhi. Il mondo dell’arte contemporanea è talmente eterogeneo che chiunque può trovarvi spazio, non è che bisogna necessariamente abbracciarlo in toto.

 

Iniziative come La Lunga Notte dei Musei, che è andata in scena venerdì scorso 25 novembre, o anche il Premio Museion che si rivolge specificamente ai giovani, possono essere elementi utili nel processo di avvicinamento all’arte?
La Lunga Notte dei Musei è un bellissimo regalo che la città di Bolzano fa alle persone ed effettivamente avere 5-6mila visitatori, se va bene, in una notte, per un museo è una grande conquista, ecco perché ci tengo ad essere in prima linea durante questo evento. L’idea è quella di offrire degli appuntamenti ad hoc con la speranza di invogliare le persone a tornare a visitare i musei. Quanto al Premio Museion, è stato pensato per la giovane creatività. Da qualche tempo abbiamo deciso di sospendere la nostra project room per i giovani e abbiamo cominciato a mettere a disposizione il piano terra della nostra casa atelier ad alcuni collettivi che sono attivi in Regione, come ad esempio la Kunsthalle Bozen, abbiamo voluto esporre i giovani insieme agli altri finalisti del premio che arrivano da Austria, Svizzera e Italia. Secondo noi si tratta di una specie di “upgrade” perché gli artisti altoatesini hanno così la possibilità di confrontarsi con i loro coetanei che vivono nelle regioni limitrofe.

Progetti in corso? Anche attraverso collaborazioni con altri musei?
Quasi sempre almeno un progetto all’anno lo facciamo in collaborazione con altre istituzioni. La mostra che inauguriamo a gennaio di Lili Reynaud Dewar, che tra l’altro è basata sul Cyborg manifesto di Donna Haraway e dunque un’esibizione dal contenuto femminista, è co-prodotta insieme al Kunstverein di Amburgo e a un museo belga, le spese di produzione della mostra sono suddivise in 3, e anche il catalogo lo cureremo insieme. E poi c’è la collezione di Museion che abbiamo portato in un museo appena inaugurato a Nanchino, in Cina, e che ci ha fruttato anche un sostanzioso contributo economico. Le collaborazioni sono molte, e poi quello che spesso la gente ignora è che abbiamo un’attività quotidiana di prestiti, le nostre opere infatti viaggiano in tutto il mondo, dal MOMA al Guggenheim di New York, al Brasile. Anche a livello territoriale alcuni musei spesso ci chiedono delle opere, penso ad esempio a quello della Passiria che indaga la figura dell’eroe di oggi, partendo da quella di Andreas Hofer, e fa sempre riferimento alla nostra collezione.

"Non abbiamo rinunciato a dei progetti ma sappiamo anche in quale serie giochiamo."

E dal punto di vista economico Museion ha subito gli effetti della crisi? Avete dovuto rinunciare a mostre o progetti culturali?
Quando mi è stato passato il testimone, 8 anni fa, la situazione era piuttosto catastrofica. Ma il bello dell’arte contemporanea è che si lavora con artisti in vita e quindi è possibile aprire i canali di comunicazione, e i valori assicurativi non sono ancora altissimi. Certo abbiamo subito dei tagli, e non siamo i soli, ma oltre una certa soglia non potremmo andare, ne va della qualità dell’offerta. E poi, malgrado ciò che si dice in giro, noi non lavoriamo con il mainstream e con i grandi nomi, sia per scelta sia perché non ce li potremmo mai permettere. Tornando a parlare di Armleder, ad esempio, io avrei voluto disperatamente fare una mostra con lui ma sarebbe stata troppo cara. Non abbiamo rinunciato a dei progetti ma sappiamo anche in quale serie giochiamo.

Lei, tuttavia, è stata spesso criticata per il fatto di puntare più su artisti internazionali che su quelli altoatesini.
Potrei presentare un faldone a chiunque lo richieda per dimostrare tutte le occasioni in cui abbiamo lavorato con artisti altoatesini. Ho fatto, insieme al mio team, una scelta precisa, che è quella di scommettere su una generazione di artisti più giovane piuttosto che sui mid-career artist. C’è da dire che Museion è, nel suo piccolo, diventato un marchio e per l’artista esibire da noi le sue opere costituisce un ulteriore trampolino di lancio. Potrei fare una miriade di nomi come ad esempio quello di Vera Comploj che è andata a New York, non aveva mai avuto una mostra in un museo e dopo che l’ha fatta al Museion è stata invitata a tanti festival, o Sven Sachsalber che ha preso il premio Museion grazie a una nostra lettera di raccomandazione. Nelle nostre mostre della collezione vengono sempre coinvolti anche artisti altoatesini, così come nelle mostre che facciamo al Cubo Garutti, o per le nostre facciate mediali. L’artista meranese Martino Gamper ha tenuto da noi una personale, l’anno prossimo lavorerà con noi Nicolò De Giorgis, i nostri summerlab per i ragazzi sono gestiti da artisti altoatesini, alla mostra di fotografia appena inaugurata ci sono anche immagini di Brigitte Niedermair e Walther Niedermayr; nell’ufficio del Landeshauptmann Arno Kompatscher è sempre mia cura, quando mi viene richiesto, di mettere almeno uno o due artisti altoatesini, ora ci sono Water Pichler ed Elisabeth Hölzl, e l'elenco delle collaborazioni è ancora molto lungo.

Una scena culturale e artistica altoatesina piuttosto ricca, dunque.
Lo è ed è anche vivacissima. La scelta nel 2012 di istituire Museion passage è stata molto ponderata da me per più ragioni. Concedere gratuitamente spazio a delle associazioni che si occupano di cultura mi ha permesso anche di portare avanti le collaborazioni con gli autori della scena altoatesina e non solo nell’ambito delle arti visive, come ad esempio con il Jazz Festival, il Transart, Bolzano Danza e via dicendo. È stata mia premura connettere Museion a questo panorama e creare delle sinergie.

 

Daniele Rielli, in arte Quit the Doner, intervistato su salto.bz, ha parlato di un “isolamento culturale” in cui si auto-confina l’Alto Adige, lei non ha mai quest’impressione?
Non direi, penso alle orchestre giovanili che arrivano da ogni dove, scambi continui anche sul fronte teatrale. Le persone, in generale, vogliono restare attaccate alle proprie tradizioni. Il Trentino-Alto Adige, essendo anche una regione a statuto speciale, ha questa idea di preservare ma credo che in questi anni sia cresciuta la consapevolezza che le tradizioni hanno bisogno del nuovo per ricevere, appunto, nuova linfa.

E come dialoga Museion con un territorio peculiare, in quanto ponte fra culture e lingue, come l’Alto Adige?
A parte tutti i rapporti che abbiamo con le scuole e le aziende, c’è anche tutta un’altra rete con cui siamo connessi. Per esempio abbiamo iniziato questo progetto europeo intitolato “Museum as a toolbox” collaborando con altri 4 musei, uno della Polonia, uno dell’Estonia, uno dell’Austria e uno di Zagabria, per cercare di capire come portare i giovani al museo, e in questo progetto è coinvolto anche un gruppo di migranti, fra cui ci sono 6-7 ragazzi ospitati all’Hotel Alpi, che hanno gestito per noi la Giornata del Contemporaneo e da lì è nata anche una collaborazione con il Centro Vintola. Abbiamo anche discusso a lungo con Caritas e Volontarius per capire come gestire meglio questi flussi di migranti che venivano al Museion per usare il Wi-Fi e per cui già avevamo già da tempo avviato dei progetti dal titolo “Verso nuove culture”.

A proposito, fu una polemica rovente quella che l’ha coinvolta l’anno scorso. Dopo la decisione di sospendere temporaneamente il Wi-Fi lei aveva detto che era necessario “gestire in maniera positiva e costruttiva la presenza dei migranti”, ci state riuscendo?
Eravamo impreparati, è vero, ma la polemica si è basata su un enorme malinteso. C’erano dei migranti che venivano quotidianamente a Museion passage per utilizzare la rete Wi-Fi e che non davano alcun fastidio, a un certo punto però sono arrivati dei senzatetto che si sono resi protagonisti di alcuni episodi di micro-violenza nei nostri bagni. Molti tecnici erano in ferie e c’era un pubblico perlopiù femminile. Ho deciso allora, per quelle due settimane sotto Natale, di abbassare il Wi-Fi e da lì il disastro, ma in fondo è stato anche un bene.

Lei dice?
È stata l’occasione per metterci attorno a un tavolo con Caritas e Volontarius per capire come affrontare la situazione ed è stato per me un momento di crescita. Abbiamo spostato il raggio del Wi-Fi sull’area appena fuori del Museion dove ci sono le panchine, e all’interno, nella info lounge, dove molte persone si siedono e usufruiscono del servizio. Il flusso è diminuito e poi grazie all’intervento delle due associazioni di volontariato, i migranti arrivano in gruppi e partecipano al nostro programma “Dove immagini di essere?”, seguito da Ivo Corrà.

Oggi ai direttori si richiede di essere anche dei manager. Un cambiamento che condivide?
Io sono la direttrice artistica del Museion e sono affiancata da una direttrice amministrativa. Per me è fondamentale essere al corrente di quale sia il bilancio, delle spese di una mostra e di un catalogo e di quanto costa tirare su una parete, perché questa “casa” è sotto la mia responsabilità. Quello che manca, piuttosto, è la figura di un curatore. Non va bene che il direttore diventi solo un manager, ma una certa sensibilità per alcune tematiche deve averla. È pericoloso quando queste figure non hanno una sensibilità culturale e questo vale anche per i direttori amministrativi, ma non è il nostro caso.

Museion prende contributi anche da istituzioni private?
Sì, dalla Fondazione Cassa di Risparmio, ma non si sa ancora fino a quando.

"Non dobbiamo nasconderci dietro un dito, la Fondazione gestisce un certo budget che inevitabilmente diminuisce nel momento in cui la banca non fa utili."

Dallo scorso maggio lei è vicepresidente della Fondazione, come sono cambiate le strategie anche in relazione al rinnovo dei vertici del cda e alla difficile situazione in cui si è incagliata la Sparkasse?
Non dobbiamo nasconderci dietro un dito, la Fondazione gestisce un certo budget che inevitabilmente diminuisce nel momento in cui la banca non fa utili. Ci sono delle riserve che possono essere chiamate in causa, ma non sono eterne. Abbiamo fatto una clausura questa estate e ci siamo dati delle direttive, credo che ci sia un bel clima ma è chiaro che nei primi mesi bisogna capire come muoversi, e ci sono delle vecchie decisioni da gestire. Non vogliamo certo fare la rivoluzione ma alla luce del fatto che i mezzi sono limitati dobbiamo cercare di lavorare in maniera più strategica.

Le cose, malgrado i tagli, sono ancora gestibili?
Sì, abbiamo tolto il 5% da tutti i nostri ambiti per avere un budget da utilizzare per progetti mirati, dal campo della ricerca alla formazione, cercando di collaborare con altre istituzioni locali. Nello statuto c’è scritto che la Fondazione deve in primo luogo fare qualcosa per il bene dei cittadini e che questo si deve riversare sul territorio. Ultimamente molte fondazioni hanno scommesso sulle startup dei giovani e io credo che puntare sulle giovani generazioni sia quasi un obbligo, in modo da dare loro modo di sviluppare delle idee di cui possa anche beneficiare il territorio. Ci siamo già messi intorno a un tavolo con la Provincia, e contiamo di farlo in futuro anche con i rappresentanti dei Comuni, per capire quali sono le scelte migliori da attuare.

 

Che giudizio dà della conduzione politica a livello culturale dell’assessore Achammer a cui Museion risponde?
Devo dire, onestamente, che Museion può lavorare in grande autonomia e questo è un bene. L’assessore ha dichiarato anche pubblicamente che a lui sta a cuore il nostro museo e che è importante che ci sia, al di là dei numeri, anche se naturalmente si aspetta che ci sia un buon afflusso di visitatori. Achammer è contento dell’attenzione che riserviamo ai giovani, ritengo perciò positiva la nostra collaborazione e lo dimostra anche il fatto che da parte sua non c’è stata mai alcuna imposizione, cosa non sempre scontata.

Tutto idilliaco, quindi?
La verità è che non mi capita di interagirci molto, e immagino che questa sia anche una forma di apprezzamento rispetto a quello che viene fatto a Museion.

"Viviamo in una Provincia che ha dato molti strumenti per permettere a chiunque di eliminare la propria condizione di disagio, perciò credo che a volte siano le persone a non fare abbastanza per appropriarsi di quegli stessi strumenti."

Cambiando argomento, da qualche tempo si discute del cosiddetto “disagio degli italiani” in Alto Adige, lei avverte questo senso di smarrimento? Esiste una frustrazione tangibile a suo parere?
È un disagio che va relativizzato. Credo che da un punto di vista psicologico quando non si sono ancora messe completamente radici questa sensazione possa manifestarsi, forse maggiormente nelle generazioni più anziane della mia. Viviamo in una Provincia che ha dato molti strumenti per permettere a chiunque di eliminare la propria condizione di disagio, perciò credo che a volte siano le persone a non fare abbastanza per appropriarsi di quegli stessi strumenti. Parlo anche di appropriarsi di una lingua e di dimostrare una certa volontà di fare. Non lo dico in tono polemico ma credo che se gli italiani avvertono questo malessere forse in parte è anche colpa loro. Da un lato è quasi fisiologico che questo sentimento ci sia, ma siamo nel 2016 ed è ora di rimboccarsi le maniche. Tante persone, da paesi diversi, stanno arrivando in Alto Adige, noi potremmo essere il modello ideale di convivenza e già molto è stato fatto in questo senso, sia sul micro che sul macro livello.

Una convivenza che dovrebbe essere ormai ampiamente rodata eppure appare in costante equilibrio precario.
Non vorrei fare della facile retorica ma dovremmo imparare a renderci conto di come vivono certe persone e di cosa voglia dire realmente sentire il disagio. Perciò leggo anche con una certa distanza alcune situazioni, è chiaro che i giornali devono vendere ed è più semplice, a volte, banalizzare alcune dinamiche, senza contare che al politico di turno fa comodo far scoppiare la polemica. Io credo che certi momenti siano ormai superati, crogiolarsi in questo cosiddetto disagio non porta assolutamente a nulla.