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Omotransfobia… e non solo

Il Parlamento studia l’ampliamento dei reati contro l’uguaglianza
Mani
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L’attuale normativa penale a difesa dell’uguaglianza protegge solo quattro caratteristiche: etnia, “razza”, nazionalità e religione. Al contempo, la legge-quadro sulla disabilità aggrava la pena per alcuni reati se commessi contro persone con disabilità, limitandosi però a pochi selezionati delitti.

Anche a seguito di una maggiore sensibilità sociale, da tempo si discute di ampliare le norme esistenti, allineandole a quanto già previsto nella maggior parte dei Paesi europei. Nello specifico, si vuole maggiormente tutelare quei settori della popolazione spesso bersaglio di attacchi d’odio: donne, persone LGBTI (lesbiche-gay-bisessuali-trans-intersessuali) o persone con disabilità.

 

La riforma dei reati contro l’uguaglianza

 

Dopo anni di dibattito, a novembre la Camera dei deputati ha approvato una proposta di legge volta ad ampliare la normativa penale sull’uguaglianza anche a motivi discriminatori fondati “sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere o sulla disabilità”. Il testo integra quattro progetti di legge di diverso orientamento politico ed è ora all’esame del Senato.

L’art. 604-bis del codice penale punirebbe così chi “istiga a commettere, o commette, violenza o atti di provocazione alla violenza” per motivi (non solo razziali, etnici, nazionali o religiosi, ma anche se) fondati sul sesso, il genere, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o la disabilità.

Pure quanto ora previsto per gli atti di discriminazione verrebbe ampliato alle nuove caratteristiche protette: punito verrebbe pertanto chi “istiga a commettere, o commette, atti di discriminazione” per tali ragioni. Il disegno di legge non inciderebbe invece sulla “propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico”, che rimarrebbe riferita soltanto a queste due ultime caratteristiche.

Anche l’aggravante dell’art. 604-ter verrebbe ampliata. Questa aumenta fino alla metà la pena di chi abbia commesso un qualsiasi reato per un motivo vertente su una delle caratteristiche protette.

 

Le cinque nuove caratteristiche protette

 

Il progetto di legge descrive precisamente le caratteristiche protette che si aggiungerebbero a quelle già previste. Con “orientamento sessuale” si intende l’attrazione affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso o di entrambi i sessi. Con “genere” la manifestazione esteriore di una persona che sia conforme, o contrastante, con le aspettative sociali connesse al sesso. Con “identità di genere”, invece, l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere. Concludono l’elenco il sesso e la disabilità. Le definizioni neutre non sono soltanto una scelta di stile, potendo invece riferirsi a tutta la popolazione: ad esempio, qualsiasi violenza basata sull’orientamento sessuale ricadrà nell’ambito della norma, a prescindere che vittima ne sia una persona omosessuale oppure eterosessuale.

Accanto all’azione repressiva, il progetto di legge prevede pure vari interventi di prevenzione ad ampio raggio, così da far sì che il diritto penale intervenga solo qualora altre misure non abbiano avuto effetto. Pure previsto è un monitoraggio più preciso del fenomeno. Da tempo viene infatti lamentato come, per varie ragioni, le statistiche giudiziarie non riportino la reale incidenza dei reati d’odio. Per chi fosse interessato ad approfondire la riforma, si consiglia l’analisi pubblicata su Giustizia Insieme a cura di Corrado Caruso e Vincenzo Militello.

 

Una discriminazione invertita?

 

La proposta di ampliare la repressione degli atti di violenza e discriminazione è stata oggetto negli anni di vivaci censure. Importante notare che tali critiche, che tanto seguito hanno nel dibattito politico italiano, trovano limitatissimo sostegno all’interno dell’accademia e della giurisprudenza.

Una prima censura verte sulla presunta disuguaglianza di trattamento tra chi subisse un reato in quanto, ad esempio, portatore di una disabilità, oppure lesbica, e chi la subisse in un altro contesto (diciamo: in seguito a un diverbio tra tifosi al bar). Nel primo caso, la pena verrebbe aggravata in quanto vertente su una caratteristica protetta, nel secondo caso no. Si tratta, chiaramente, di un trattamento parzialmente diverso. I principi di uguaglianza e ragionevolezza, tuttavia, impongono di trattare diversamente situazioni che sono tra loro diverse: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3 della Costituzione).

E queste situazioni sono diverse. Innanzitutto, perché i reati con movente discriminatorio vanno a incidere su più beni socialmente importanti: accanto all’incolumità della vittima, una simile azione si ripercuoterà infatti sull’intero suo gruppo di appartenenza (le persone con disabilità, oppure le persone LGBTI), generando paura ed emarginazione. Dopodiché, forte è il rischio che, se una parte della società accetta la discriminazione contro determinati gruppi sociali, tale normalizzazione dell’odio asseconderà il diffondersi di ulteriori crimini. In aggiunta, e soprattutto: bersaglio del crimine sono persone che, in conseguenza di certe dinamiche socio-culturali diffuse nella popolazione, sono più vulnerabili. Una loro tutela rafforzata è pertanto pienamente giustificata.

 

La maggiore vulnerabilità

 

È più che dimostrato che le persone con disabilità, oppure le donne, o le persone LGBTI siano più spesso oggetto di violenza e pervasiva discriminazione rispetto al resto della popolazione. Lampante in tal senso una recentissima indagine dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, che ha coinvolto 10.000 persone LGBTI in Italia e 140.000 persone in tutta Europa: in Italia, l’8% ha dichiarato di aver subito, nei cinque anni precedenti, atti di violenza fisica o sessuale. Il 76% di questi incidenti non è stato denunciato (in particolare per paura di ritorsioni e scarsa fiducia nelle autorità). Il 30% evita determinati luoghi pubblici per paura di venire assalito, minacciato o molestato. Un altro studio che ha coinvolto 42.000 donne ha visto il 7% delle intervistate italiane dichiarare che hanno subito violenza fisica o sessuale nell’ultimo anno. Questo dato sale al 27% se si considera il periodo a partire dai 15 anni di età. Al tempo stesso, i bambini con disabilità sono vittima di violenza in termini più che doppi rispetto ai loro pari.

Se, da una, è vero che questi dati esprimono una percezione soggettiva, dall’altra è pacifico che il sommerso, la cifra oscura degli episodi non denunciati, sia enorme.

 

C’è già ora una disciplina sufficiente?

 

Altre voci critiche notano che già ora il diritto offrirebbe gli strumenti per punire più severamente i reati motivati da intenti discriminatori: in particolare, tramite l’aggravante comune che permette di punire più severamente chi commette un reato “per motivi abietti o futili” (art. 61 del codice penale). Importanti esperti del diritto hanno però notato come sia alquanto dubbio che tale aggravante si possa invocare in questi casi: e infatti, in giurisprudenza, finora non è mai stata pressoché applicata.

In aggiunta, l’aggravante speciale per i reati discriminatori non può essere bilanciata con altre attenuanti (ad es. con le attenuanti generiche). L’aggravante dei motivi abietti o futili, invece, sì, con la conseguenza che, in tali casi, il suo effetto viene limitato o escluso del tutto.

 

Una norma liberticida?

 

Una critica frequente è che la norma violerebbe la libertà del singolo. A riguardo va tuttavia notato come non rientri nella libertà del singolo istigare o commettere violenza nei confronti di altre persone. Né vi rientra, per definizione, la commissione di qualsiasi reato, la cui sanzione viene soltanto aggravata dall’art. 604-ter se commesso con intento discriminatorio.

L’unico aspetto su cui si potrebbe svolgere un appunto critico è l’indeterminatezza del concetto di “atto di discriminazione”. Si tratta però di un termine che è presente nell’ordinamento italiano da 28 anni (dalla legge Mancino del 1993 che ha riformulato il reato di commissione di atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi): e finora non ha mai suscitato problemi.

È certamente un termine molto ampio. Va però interpretato, come ogni giurista dovrebbe sapere, alla luce dei principi costituzionali, così da non riferirlo a situazioni tutelate dalla libertà di pensiero, o dalla libertà di religione o associazione. Pacifico è, ad esempio, che sia possibile fondare un’associazione di ispirazione religiosa, a cui soltanto i fedeli di questo credo vi si possano iscrivere. Perché, improvvisamente, tale norma – che viene soltanto ampliata alle nuove cinque caratteristiche protette – dovrebbe giustificare una faida repressiva o, come viene spesso detto, uno "Stato totalitario"?

Ad ogni buon conto, l’art. 4 del disegno di legge – riproducendo la giurisprudenza consolidata sul tema – si preoccupa di precisare che sono in ogni caso garantite “la libera espressione di convincimenti o opinioni nonché le condotte legittime riconducibile al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”.

 

Seminari e torte di nozze

 

Un’autorevole voce, punto di riferimento per i critici della riforma, ha invitato a rigettare la nuova disciplina, in quanto permetterebbe di punire chi chiedesse al vescovo locale di “fare ordine nei seminari” (si intende: espellendo i presunti omosessuali), oppure il pasticciere che si rifiuti di preparare una torta per un’unione civile gay.

Ora, seriamente: davvero è questo l’ideale a cui vogliamo aspirare? Penseremmo lo stesso se il pasticciere si rifiutasse di vendere una torta a una coppia nera? O a una persona di origine indiana? Oppure a due nubendi di religione ebraica? Oppure, in Alto Adige, a una persona di lingua italiana, perché le sue torte le vende solo a tedeschi (o viceversa)?

In queste situazioni, la risposta non dovrebbe essere di carattere penale: è bene che il diritto penale si occupi solo dei casi più gravi. Ma la società non può neanche tollerare simili discriminazioni come se fossero nell’ordine naturale delle cose. A tali episodi di avversione – se non proprio odio – nei confronti della diversità, è fondamentale che la comunità si erga a difesa di chi, in una certa situazione, è più debole. È facile, dalla posizione di forza che possiede chi appartiene alla maggioranza, fare il bullo con chi è più vulnerabile.

Non è una norma che cambierà la situazione, ma l’impostazione culturale diffusa nella società. Lo psichiatra Paolo Crepet ha invitato a una “rivolta morale” contro “lo sconcertante abbassamento delle nostre difese immunitarie culturali”. Forse già basterebbe una maggiore attenzione: a quello che si fa e a quello che si dice.