Cronaca | Il caso

Per una pipa di tabacco

L’assurda vicenda di un cittadino del Mali fermato a Bolzano per il furto di nove confezioni di tabacco e deportato subito dopo nell’inferno del CPR di Gradisca d’Isonzo.
CPR
Foto: Alessio Giordano

 La vicenda, così come è stata raccontata in questi giorni, si mimetizza tra le tante che finiscono per alimentare il già folto repertorio della cronaca locale, quella che dagli uffici stampa delle questure viene riprodotta, in serie e senza farsi troppe domande, sulle pagine dei quotidiani. Il tono in questo frangente si rivela assai ottimista: per una volta tanto c’è un lieto fine perché il cattivo viene preso e la giustizia fatta trionfare. O almeno è quello che uno sguardo poco attento potrebbe indurre a pensare. Quanto accaduto a Bolzano non è un episodio di microcriminalità e nemmeno una banale vicenda tra guardie e ladri ma ricalca i tratti più grotteschi dello stato di diritto, in cui quello della giustizia non è un trionfo ma un accanimento, spesso e volentieri contro coloro scelti in mezzo alle pieghe oscure dell'invisibilità.
È la sera del 18 gennaio. Il proprietario di una tabaccheria situata nei pressi di Largo Kolping denuncia un furto. Interviene la Squadra Volante che raccoglie un identikit. Dopo poco tempo, ferma quello che chiameremo Adam, un ragazzo maliano di 24 anni ritenuto essere l’autore del colpo. Nelle tasche la refurtiva, se così si può chiamare, nove confezioni di tabacco, che vengono restituite al proprietario dell’esercizio, mentre Adam viene portato in questura. Dopo aver proceduto alla sua denuncia in stato di libertà, viene appurato, e successivamente diffuso in una nota ai mezzi stampa, che il giovane oltre ad essere privo di un titolo valido di soggiorno risulta avere anche precedenti penali alle spalle (secondo fonti di salto.bz il giovane, seppur con procedimenti aperti, risulterebbe invece incensurato). Oltre alla denuncia, si è quindi proceduto anche a notificare un provvedimento di espulsione con tanto di trasferimento immediato nel Centro di permanenza per il rimpatrio (il famigerato CPR) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia.

 

Gradisca d’Isonzo non è un luogo qualsiasi e nemmeno quella data, il 18 gennaio, è un giorno come tutti gli altri. È proprio lì, che esattamente due anni prima Vakhtang Enukidze, un cittadino georgiano di 37 anni, trova la sua morte. La vicenda è stata ricostruita da LasciateCIEntrare, la campagna nata nel 2011 per porre fine alla detenzione amministrativa dei migranti, nonché al silenzio forzato con la quale, per legge, si accompagna. Vakhtang era arrivato in Italia due anni prima, aveva vissuto a Roma ma essendo come molti sprovvisto di permesso di soggiorno, dopo un fermo di polizia viene portato nel CPR di Bari Palese, reso inagibile da una delle tante proteste che hanno infiammato il centro a causa delle condizioni disumane a cui i migranti erano sottoposti, non per un reato ma per la propria condizione di irregolarità. Per questo motivo, il 19 dicembre 2019, Vakhtang e altri detenuti vengono trasferiti nel CPR di Gradisca, riaperto tre giorni prima il suo arrivo e dopo sei anni di chiusura. Il 14 gennaio, non trovando il suo telefonino, l’uomo finisce per litigare con un detenuto, lite interrotta, stando alle ricostruzioni, dall'irruzione violenta di dieci agenti di polizia in assetto antisommossa. I testimoni parlano di pestaggi a più riprese nei confronti di Vakhtang, che non voleva ritornare nella propria cella prima di ritrovare il suo cellulare. Le lesioni sarebbero state tali da aver fatto posticipare il rimpatrio e a richiedere le cure in ospedale. Una volta dimesso il georgiano viene arrestato per resistenza a pubblico ufficiale, portato nel carcere di Gorizia e sottoposto a processo per direttissima. Dopo qualche giorno, il 16 gennaio, viene riportato nel CPR in condizioni tali da vederlo incapace persino di reggersi in piedi. La sera dopo riesce a mettersi in contatto con la sorella. Sta male, gli vengono dati antidolorifici e ansiolitici. La notte peggiora, chiede invano con le ultime forze l’intervento di un medico che arriva solo la mattina, quando lo ritrovano incosciente nella sua cella. È in coma, dopo aver subito un arresto cardiocircolatorio. Arriva in ospedale in ambulanza, dove muore alle ore 15 del 18 gennaio 2020.


Quella di Vakhtang è una storia simile a molte altre avvenute negli ultimi due anni all’interno dei CPR, a quella di Harry (20 anni), Hossain Fasal (32 anni), Aymen Mekni (33 anni), Orgest Turia (28 anni, anche quest’ultima a Gradisca) e di Moussa Balde (23 anni). Il mese scorso, sempre a Gradisca, muore un altro cittadino tunisino di 44 anni, Anani Ezzeddine.  Alcune di queste storie le abbiamo raccontate i mesi scorsi mentre cercavamo di spegnere gli entusiasmi del presidente della Provincia, Arno Kompatscher manifestati in occasione della conferenza stampa di metà legislatura in cui annunciava in pompa magna che, in poco tempo, anche l’Alto Adige avrebbe avuto un CPR tutto suo.
Le condizioni del CPR di Gradisca, assieme agli altri nove in funzione in Italia, sono state riassunte recentemente nel rapporto CILD Buchi neri, in cui vengono raccontati i costi esorbitanti della gestione privata (pari a 44 milioni di euro in un solo anno), le ripetute violazioni nei confronti delle persone trattenute, ma anche la totale inefficacia rispetto allo scopo stesso che la struttura del centro si propone di perseguire. 

Che succede dunque quando la stessa legge che ti rinchiude in un CPR per essere espulso è la stessa che ti impedisce di essere rimpatriato?


Secondo la normativa, il rimpatrio coatto non può avvenire automaticamente solo per un decreto di espulsione o una qualche forma di irregolarità. Esistono precise condizioni, nonché accordi bilaterali tra stati, come quello recentemente stretto con la Tunisia, grazie al quale si sta procedendo con i ritmi forsennati di almeno un volo di accompagnamento a settimana. Accordi e condizioni che invece non esistono per il Mali, la destinazione in cui Adam dovrebbe essere rimpatriato. Lo stato africano versa infatti da anni in una situazione di caos e violenza generalizzata tale da rendere i rimpatri pressoché impossibili e da spingere i tribunali di tutta la penisola a concedere sempre più frequentemente una qualche forma di protezione ai richiedenti asilo provenienti da quella zona. 


Che succede dunque quando la stessa legge che ti rinchiude in un CPR per essere espulso è la stessa che ti impedisce di essere rimpatriato? La prassi è quasi sempre la stessa: il Giudice di Pace convalida, solitamente entro le 96 ore dall’arrivo, il provvedimento di permanenza nel centro. Nel caso di impossibilità a procedere con il rimpatrio, sempre nelle migliori delle ipotesi, i migranti finiscono per scontare, senza che vi sia nessuna fattispecie di reato a loro carico, tutti i tre mesi di detenzione (ufficialmente “trattenimento”) stabiliti per legge. Allo scadere del termine, constatata l’impossibilità di procedere con l’accompagnamento al di fuori del paese, non resta semplicemente che il rilascio. Ma non chiamatela libertà perché oltre al danno di tre mesi di detenzione, si procede infatti con la beffa: alla persona viene consegnato un pezzo di carta in cui, vista l’impossibilità dello stato italiano di garantire il rimpatrio, viene invitata la persona a provvedere di propria iniziativa allo stesso. Sebbene sia la prassi più frequente, questa non è l’unica: sono stati registrati infatti dei casi in cui, appurata l’impossibilità di rimpatrio nel paese di appartenenza di una persona si è semplicemente provveduto con la sua deportazione in un paese terzo. 
Sempre dando per scontato che dal centro si esca vivi.

Il destino di Adam, non è ancora dato a sapersi: poco si riesce a far trapelare dalle spesse mura di cemento dietro le quali è rinchiuso


Il destino di Adam, non è ancora dato a sapersi: poco si riesce a far trapelare dalle spesse mura di cemento dietro le quali è rinchiuso. Resta comunque probabile che anche lui, come tanti, sia in attesa di quel provvedimento che lo obbliga a passare lì dentro novanta giorni della sua vita. È probabile che anche lui, dopo questi mesi, venga accompagnato fuori dai cancelli di quello strano e brutale carcere, in cui si finisce intrappolati senza essere accusati di alcun reato. È probabile che quando fuori sarà già primavera, Adam si ritroverà in quella città mai vista, a leggere quel foglio che gli hanno consegnato in cui viene invitato a fare da solo quello che le istituzioni non sono state in grado di fare. È ancora più probabile che Adam, dopo quelle lunghe settimane di inferno passate a chiedersi come sia finito lì dentro, ritorni davvero nel posto da cui è venuto, non in Mali ma tre le pieghe scomode dell’invisibilità, assieme alle centinaia di persone che con lui oggi condividono lo stesso destino e che domani condivideranno ancora lo stesso buio, così poco spesso illuminato se non dagli abbaglianti intermittenti blu della legge. 
L’augurio per Adam, amaro come la consapevolezza di essere con tutta probabilità l’unico possibile, è quello di ritrovarlo lì, nella stanza buia delle ipotesi migliori, dove forse, se vorrà potrà dirci finalmente qual è il suo vero nome e il modo in cui cercherà di nuovo di andare avanti, di vivere, o meglio sopravvivere fino a domani. Fino al prossimo controllo.