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Se questa è la memoria

La “Giornata della memoria” non è uno stanco esercizio retorico. Il ricordo resta vivo se reinterpretato – e riscritto – di continuo. La lezione di Primo Levi.
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Foto: lenews

Come si può pensare di costruire un futuro se si dimentica il proprio passato?” si domanda Shun, protagonista del capolavoro di animazione giapponese “La collina dei papaveri” di Gorō e Hayao Miyazaki. Il passato, il ricordo. La memoria. Ricordare la Shoah appare già, a pochi anni dall'istituzione del “Giorno della memoria” (in Italia, con legge del 2000), un esercizio stanco, per taluni persino retorico. Una consuetudine, poco più che un atto dovuto verso quei milioni di deportati nei campi di sterminio nazisti: ebrei, zingari, omosessuali, popolazioni slave, “asociali”, malati mentali, obiettori di coscienza e dissidenti politici. “La feccia”, direbbe qualcuno oggi. C'è chi non esita a definire luoghi come il Memoriale della Shoah di Berlino un “monumento della vergogna”. Parole pronunciate qualche giorno fa in una birreria di Dresda da Björn Hocke, capo della Alternative für Deutschland (Afd) in Turingia, Land ex-DDR oggi governato dalla Linke: “Dal 1945 c'è un piano di rieducazione volto a tagliare le nostre radici – e ci sono quasi riusciti. Il nostro stato mentale continua ad essere quello di un popolo sconfitto. I tedeschi sono l’unico popolo del mondo che ha messo un monumento della vergogna nel cuore della propria capitale”.

La memoria dell'Olocausto rende il mondo un posto migliore e più sicuro, o un posto peggiore e più pericoloso? È diventata quasi una banalità affermare che i gruppi che perdono la loro memoria perdono anche anche la loro identità, che perdere il passato conduce a perdere il presente e il futuro” scrive il sociologo (recentemente scomparso) Zygmunt Bauman, in un saggio inedito pubblicato domenica dall'inserto culturale “Robinson” de La Repubblica. Ma “i morti non hanno nessun potere di guidare – tantomeno di monitorare e correggere – la condotta dei vivi. La memoria seleziona e interpreta, e ciò che dev'essere selezionato e il modo in cui interpretarlo è una questione controversa e costantemente contestata. Ricordare è interpretare il passato; o, più correttamente, raccontare una storia significa prendere posizione sul corso degli eventi passati.”

Scrivere per ricordare

La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace” scrive nel saggio I sommersi e i salvati Primo Levi, autore di Se questo è un uomo e La tregua. Nella sua complessità, la memoria è un esercizio costante, che non dev'essere ripetitivo. Per questo la riscoperta e lo studio ragionato delle opere di testimoni quali Levi, ci può offrire nuovi strumenti per tenere viva la memoria di ciò che accadde. Utile a tal fine la nuova edizione in due volumi a cura di Marco Belpoliti delle Opere complete di Primo Levi (Einaudi, 2016, pp. CIV-3392, € 160,00), che amplia l'edizione del 1997. Le note di Belpoliti recepiscono le recenti acquisizioni della ricerca storica e critica. “Primo Levi sfugge alle classificazioni, la sua opera è ibrida, la sua identità prismatica. Anche per questo è uno degli scrittori più importanti della letteratura del Novecento” sostiene in un'intervista alla rivista Left la scrittrice Jhumpa Lahiri: “Mi colpisce molto che i miei studenti universitari non lo abbiano mai letto prima e, spesso, neanche sentito nominare. Ma in poco tempo scoprono nei suoi libri un autore rivoluzionario, capace di trasmettere un’esperienza fondamentale: scrivere è mettere in pratica una resistenza. Chi scrive, lo fa per sopravvivere a qualcosa”.

Questa è una cosa che io non posso dimenticare per ragioni evidenti, ma vorrei che tutti, anche quelli che non sono stati in un lager, ricordassero e lo sapessero: ovvero che era la realizzazione del fascismo, integrato, completato. – Primo Levi

Levi ha riscritto quasi senza fine il Libro della sua esperienza, per la necessaria insistenza sui nodi etici che legano scrittore e testimone” spiega Niccolò Scaffai nell'ottima recensione delle Opere complete su “Alias Domenica”, inserto settimanale de il manifesto: “La memoria dell'offesa si rinnova infatti nella preoccupazione per il presente – la minaccia nucleare e il disastro di Chernobyl, la questione palestinese e il rischio ecologico, sono argomenti cui Levi dedica più di un intervento”. Il “metodo scientifico” del chimico torinese nell'interrogarsi sulle zone grigie è al centro anche della lezione “Primo Levi e i tedeschi” (qui è possibile leggerne un estratto) tenuta di recente a Bolzano dalla ricercatrice Martina Mengoni, secondo la quale “due sono stati gli interlocutori, opposti e speculari, nei confronti dei quali Levi ha manifestato un interesse e una dedizione costante: i tedeschi e gli studenti. Capire i tedeschi è stato un esercizio e un pungolo continuo, mai esaurito, e forse perfino inesauribile.”

Dalla lezione di Mengoni scopriamo così che “contestualmente all’uscita di Ist das ein Mensch?, Levi ricevette “una quarantina di lettere” dei suoi lettori tedeschi, in maggioranza studenti, giovani; in qualche caso, ex-nazisti che ambivano al perdono; ma erano anche scrittori e intellettuali desiderosi che il libro di Levi fosse letto e diffuso in Germania. I tedeschi del presente, che scrivono a Levi in merito al suo libro su Auschwitz, sono anche, non secondariamente, una porta aperta sui tedeschi del passato.” E così torniamo all'importanza di non dare nulla per scontato, nemmeno lì dove la rielaborazione storica sembrava un percorso comune. La giornata della memoria del 27 gennaio serve ogni anno a ricordarcelo.