Società | La ricercatrice

"Bilinguismo, l'approccio è sbagliato"

Chiara Vettori: "Per i ragazzi non è motivante il messaggio: studiate la seconda lingua per trovare lavoro". A cinque anni dall'ultimo Kolipsi serve una nuova indagine.
Studenti Studio Bilinguismo studio delle lingue
Foto: (c) pixabay

Appena nomini Kolipsi II nel mondo della scuola (soprattutto italiana, ma non solo) bene che vada si alzano le sopracciglia, ma non mancano espressioni di rabbia o sofferenza. Quando nella tarda primavera 2017 lo studio Eurac sull’apprendimento delle lingue fu presentato, un vero e proprio terremoto scosse le mura delle intendenze. L’indagine sulle competenze di seconda lingua degli studenti effettuata dall’Istituto di linguistica applicata di Eurac Research diede risultati inaspettatamente negativi: la conoscenza della lingua tedesca da parte degli studenti italiani risultava tutt’altro che migliorata rispetto al primo studio concluso nel 2009 e si registrava un netto peggioramento della conoscenza dell’italiano tra i coetanei tedeschi. Ora, passati altri 5 anni, servirebbe forse un Kolipsi III, per fare il punto della situazione. Che poi, se i risultati non sono quelli sperati, si può sempre dare colpa alla pandemia e alla Dad, come avvenuto per la rilevazione INVALSI qualche mese fa.

Vale la pena di ricordare alcune cifre dei primi due studi. Nel 2008 secondo il Kolipsi I il 14,7% dei ragazzi di lingua italiana di quarta superiore aveva conoscenze di tedesco di livello B1 (ex patentino C), il 50,2% di livello B2 (ex patentino B) e il 29,2% di livello A2  (ex patentino D) e il 5,3% di livello C1 (ex patentino A). Nel 2015 ad avere raggiunto il livello di competenza B2 era il 13,8 %, il 34,5% il B1, e il 36,% l'A2 , il 6,0% l' il C1. La quota di ragazzi al di sotto del livello A1 (inferiore al patentino D) era passata dallo 0,7% del 2008 al 9,8% del 2015. Un dato, abbastanza incredibile, questo.

Più drastisco il peggioramento delle conoscenze linguistiche dei ragazzi di lingua tedesca, partendo, però, da risultati migliori. Nel 2008 i ragazzi con conoscenze di livello C1 erano il 9,9%, di livello B2 il 41,1%, di livello B1 era il 46%, di livello A2 il 2,8%. Nel 2015 i ragazzi con conoscenze di livello C1 erano il 5,9% (calo del 4%), di livello B2 il 21,7% (calo del 20%!!), di livello B1 era il 52%, di livello A2 il 20% (aumento del 17,8%).

Ne abbiamo parlato con Chiara Vettori, ricercatrice Eurac, che realizzò lo studio assieme ad Andrea Abel.

 

Cinque anni fa quando pubblicaste gli esiti dello studio Kolipsi II successe quasi la fine del mondo. Negli ultimi mesi su salto.bz abbiamo fatto una serie di approfondimenti dai quali emergono vari problemi nell’insegnamento della seconda lingua. Che idea si è fatta?

Chiara Vettori: Di alcune cose ero all’oscuro. Non sapevo, per esempio, che ci fosse una distinzione così netta tra sezioni bilingui “vere”, appannaggio di un’élite, e le sezioni potenziate e che la carenza di personale conducesse, a volte, ad assunzioni “ardite”. Quello, però, che mi ha fatto maggiormente riflettere sono state le parole del presidente degli industriali Heiner Oberrauch che, nella sua intervista, ascrive il proprio successo alla consapevolezza di aver avuto la grande opportunità, vivendo qui, di conoscere bene la mentalità latina e quella nordica. Secondo Oberrauch è “scontato e pacifico” che qui in Alto Adige “capiamo due mentalità”. In realtà, i dati raccolti in Kolipsi raccontano un’altra realtà e cioè che i ragazzi di 17/18 anni descrivono il gruppo italiano e tedesco come distanti fra loro e una delle differenze più frequentemente indicate come motivo di distanza è proprio la mentalità. E dato che in letteratura l’apprendimento di una seconda lingua viene definito come un fare posto, all’interno del proprio spazio vitale e del proprio repertorio linguistico, a elementi simbolici di un’altra cultura – come la pronuncia e il vocabolario (e con esso un certo modo di vedere il mondo) – se io avverto l’altra cultura come distante dalla mia e magari nutro un certo grado di diffidenza nei suoi confronti, probabilmente faticherò di più ad acquisirne anche la lingua. Vede, dopo la pubblicazione dello studio, tutti si sono concentrati sulle competenze linguistiche degli studenti – ed è comprensibile che sia così – ma Kolipsi fornisce anche tutta una serie di dati interessanti e utili a decodificare i dati linguistici e di quelli ci si è (pre)occupati ben poco. Se così non fosse, non sentiremmo più una frase come quella detta da Oberrauch e che abbiamo sentito tutti come figli e forse detto come genitori.

L’orizzonte lavorativo è qualcosa di ancora troppo vago e lontano per un adolescente per innescare una spinta motivazionale decisiva

A quale frase si riferisce?

“Forse ora i ragazzi di lingua italiana hanno più voglia di studiare il tedesco perché si rendono maggiormente conto di quanto è importante la seconda lingua per trovare un lavoro.” Sia nel primo studio Kolipsi, sia nel secondo è emerso chiaramente che la motivazione strumentale (“studio per ottenere un buon voto/superare l’esame/trovare un impiego”) nei ragazzi è, sì, molto forte ma non correla in modo significativo con i risultati linguistici, ovvero all’aumentare della motivazione strumentale non aumentano significativamente le competenze linguistiche. Nei decenni, fin da quando è stata approvata la norma di attuazione sul bilinguismo, i decisori e il mondo degli adulti hanno sempre cercato di fare leva sulla motivazione strumentale: studia il tedesco o l’italiano perché un domani ne avrai bisogno per trovare un lavoro! Ma questo tipo di sprone, decisamente pragmatico e ancorato alla realtà, è più adatto per gli adulti. L’orizzonte lavorativo è qualcosa di ancora troppo vago e lontano per un adolescente per innescare una spinta motivazionale decisiva: dire a un sedicenne “studia, che ti servirà per il lavoro” molto verosimilmente è un invito a vuoto. Lo stimolo che ha maggiori chance di produrre un risultato – dati alla mano - è quello di tipo integrativo, ovvero studia, o meglio, studio perché mi piacerebbe conoscere quella tipa bionda tanto carina e vorrei poterci parlare nella sua lingua o perché mi piacerebbe entrare in quella band che fa una musica pazzesca e però i suoi componenti parlano tutti tedesco. È questo tipo di obiettivo, più “intimo”, che può spingere a impegnarsi nell’apprendimento e all’uso della lingua nella vita quotidiana. Chi, tra i ragazzi dell’indagine, aveva le migliori competenze, infatti, praticava la lingua fuori dalla scuola.

Dall’indagine che rapporto è emerso da parte dei ragazzi rispetto al dialetto sudtirolese?

Gli studenti che hanno detto di avere una buona competenza del dialetto, avevano anche delle buone competenze in lingua standard. Dalle analisi statistiche che abbiamo eseguito, è emerso che per i ragazzi di lingua italiana la conoscenza del dialetto sudtirolese e la pratica del tedesco al di fuori della scuola sono dei forti predittori di buone competenze linguistiche. Per entrambi i gruppi linguistici, usare la seconda lingua fuori dalla scuola è decisivo. È chiaro che per praticare la seconda lingua nel proprio tempo libero occorre che ci siano le occasioni per farlo. E qui entrano in gioco anche i genitori. A Bolzano, molti genitori di lingua italiana, ma anche di origine straniera, iscrivono i figli prima alla scuola materna in lingua tedesca e poi, in tanti casi, scelgono per loro un percorso scolastico sempre in lingua tedesca. Così facendo, però, si è arrivati al paradosso che in tante sezioni dei Kindergärten e anche in qualche sezione delle elementari, i bambini sono per lo più di lingua italiana e di altra madrelingua, per cui il codice impiegato nelle interazioni tra di loro rimane sempre e comunque l’italiano – “avvantaggiando”, per assurdo, i pochi bambini di lingua tedesca presenti in classe che così si trovano a esercitare l’italiano nei contatti coi compagni - e si fallisce, in perfetta buona fede, l’obiettivo di introdurre i propri figli in un contesto sociale di lingua tedesca, dove praticare con naturalezza e con dei coetanei la seconda lingua.

 

Quello degli italiani di iscrivere i figli alla scuola tedesca è un diritto. Ma se, come accade, il diritto individuale viene esercitato contemporaneamente da 18-19 famiglie questo si trasforma in problema sociale. Per la politica in lingua italiana affrontare il tema della transumanza dei bambini italiani nelle scuole tedesche vorrebbe dire ammettere un fallimento e quando ci prova invece la Svp scatta la levata di scudi all’unanimità. Piccolo aneddoto: una coppia di conoscenti di lingua italiana che ha scelto la scuola tedesca per tutto il percorso scolastico della figlia mi ha raccontato che a 16 anni la ragazza, durante il classico litigio adolescenziale, ha urlato: “Voi italiani non capite niente di queste cose”. Ovvio che un intero percorso scolastico nell’altra lingua porti inevitabilmente al “salto” di cultura. È questa l’unica soluzione? Anche perché è quasi l’unico modo per imparare in modo attivo il dialetto sudtirolese che richiede centinaia di ore di “esposizione” prima di essere imparato anche solo passivamente.

È difficile, se non impossibile, dire quale sia la scelta migliore. Tutti cercano di dare delle risposte. La scuola italiana ha deciso di aumentare le ore di insegnamento del tedesco ed è sicuramente una delle strade possibili. Poi ci sono le famiglie che decidono di imboccare altre strade: sarebbe interessante vedere a oltre 5 anni di distanza dall’ultimo Kolipsi in che modo hanno inciso le scelte fatte finora.

La scelta della scuola italiana di aumentare le ore di tedesco era probabilmente l’unica percorribile. Questo ha però creato aspettative enormi tra i genitori e a livello sociale, ma i risultati forse non sono quelli sperati. È evidente che l’immersione a scuola non basta, se non c’è immersione, o quanto meno, continuità nell’uso, anche fuori dalla scuola.

Temo di sì, specie se tutto questo sforzo rimane intrappolato dentro le mura scolastiche. Se non hai la possibilità di incontrare l’”altro” e di praticare la lingua fuori dalla scuola, la lingua non diventa “tua”. In realtà, il problema è molto di più di parte tedesca, perché fuori dalle città principali di italiani ce ne sono ben pochi! Una discreta percentuale di ragazzi di lingua italiana, invece, ha amici nel mondo di lingua tedesca ma finisce quasi sempre – nihil sub sole novum - per parlarci in italiano… Interrogati in merito, i ragazzi giustificano il ricorso all’italiano perché presumono che gli amici tedeschi conoscano l’italiano meglio di quanto loro conoscono il tedesco, ma anche perché sentono di avere un’inadeguata competenza del dialetto sudtirolese. A questo proposito, nel questionario che abbiamo somministrato durante lo studio abbiamo chiesto agli studenti se vorrebbero imparare il dialetto: la maggior parte dei ragazzi ha risposto affermativamente ma una buona metà di loro non vedrebbe di buon occhio la possibilità di impararne i rudimenti a scuola. Ecco, anche su questo punto andrebbe fatta una riflessione, a mio avviso: se continuiamo a praticare il “tedesco della scuola” e non proviamo ad avvicinarci, con curiosità e senza preconcetti, al “tedesco della strada”, continueremo a perdere delle belle occasioni di conoscenza e scambio reciproco. Poi, certo, se dall’altra parte si facesse lo sforzo di parlare un tedesco un po’ più vicino allo standard, la comunicazione funzionerebbe ancor meglio e non sarebbe sempre sbilanciata da una sola parte.

Il genitore pensa di risolvere la questione dell’apprendimento della seconda lingua affidando la propria creatura al Kindergarte o alla sezione bilingue ...

Insomma, la partita si gioca fuori dalla scuola?

Non solo, questo è ovvio. La scuola deve fare la sua parte ma ovviamente la possibilità di praticare la lingua in un contesto quotidiano, “significativo” per i ragazzi è estremamente limitata a lezione, per questo chi ha la possibilità di parlarla nel proprio tempo libero è anche colui/colei che ottiene i risultati migliori in un test come quello che abbiamo proposto in Kolipsi.  In più occasioni, commentando i risultati della ricerca, abbiamo sottolineato l’importanza dell’impegno dei genitori nel percorso di apprendimento della seconda lingua in Alto Adige. E immancabilmente i soliti noti e ignoti hanno denunciato la presunta “banalità” della nostra osservazione, senza probabilmente rendersi conto che spesso il genitore pensa di risolvere la questione dell’apprendimento della seconda lingua affidando la propria creatura al Kindergarten, alla sezione bilingue, magari alla scuola elementare in lingua tedesca a un chilometro e mezzo da casa invece che a quella in lingua italiana dall’altra parte della strada, e che questo sia (auto)sufficiente. Magari ogni tanto gli/le si butta lì la (famigerata) frase “studia tedesco o non prenderai mai il patentino! (chiedo venia, la certificazione)” e tanti saluti. Quando parliamo di impegno dei genitori, non ci riferiamo solo al fervore speso nel pungolare la scuola e la politica a proporre soluzioni, ma soprattutto alla loro funzione di esempio e di sostegno per i figli. Impegnarsi, essi stessi, nella pratica passiva e attiva della seconda lingua offre ai ragazzi un esempio concreto e positivo di bilinguismo e cercare di indirizzare le scelte dei figli relativamente al tempo libero verso istituzioni/associazioni/club dell’”altro” gruppo linguistico apre ulteriori, promettenti possibilità. La stragrande maggioranza delle madri e dei padri, cito le risposte al questionario somministrato ai genitori, dichiara di incoraggiare i figli a introdursi in ambienti dell’altro gruppo linguistico ma poi dichiara anche di non aiutarli a farlo nel concreto. Il succo mi pare sia questo: non tutti hanno il tempo, le risorse e forse anche le competenze linguistiche per accompagnare e sostenere i figli in questa direzione, dunque, e il cerchio si chiude, che ci pensi la scuola, italiana o tedesca che sia.

A fronte di un monte ore in tedesco gigantesco, nelle scuole italiane ovviamente diminuiscono le competenze in italiano e matematica, i dati Invalsi parlano chiaro. Sarebbe una conseguenza accettabile in cambio del conseguimento non di certificazioni linguistiche, ma di un bilinguismo accettabile. Solo che se non si fa una nuova indagine Kolipsi non ci sono gli strumenti per decidere, a meno che anche qui l’unico obiettivo della politica sia quello di mettersi solo la coscienza a posto, un po’ come i genitori, e dire: io il mio l’ho fatto. Pensa che dopo quello che è successo con Kolipsi II non vi sia più l’intenzione politica di far fare una rilevazione a un ente esterno?

I due progetti Kolipsi non sono stati commissionati dalla Provincia ma sono stati promossi da noi di Eurac Research in seguito ai risultati del mio lavoro di dottorato, in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’università di Trento e con le intendenze scolastiche. Se la politica intende ora incaricarci di svolgere un terzo studio, noi siamo a disposizione. Per quanto riguarda le reazioni a Kolipsi II: quando lavori nell’ambito della rilevazione di competenze, lo sappiamo noi e lo sanno ancora meglio i ricercatori di INVALSI con cui siamo in contatto, vieni visto come l’Inquisizione, come quella/quello che trae godimento o addirittura qualche tipo di profitto nel far emergere delle criticità nelle competenze degli studenti. Trovo superfluo dirle che così non è: essendo votati alla ricerca applicata, riteniamo che sia nostro primario compito quello di condurre ricerche a beneficio della società, dunque lavoriamo per offrire alla scuola dei dati oggettivi su cui ragionare per fare il punto della situazione e confermare la bontà di determinate strategie oppure per apporvi dei correttivi. E nel caso di Kolipsi II abbiamo anche fornito tutta una serie di chiavi di lettura e spunti di riflessione per scuola, politica, famiglie e ragazzi, che le polemiche di allora hanno soffocato.

Ce li ricorda?

Alcuni li ho già nominati: cercare di motivare i ragazzi a studiare la seconda lingua per motivi utilitaristici non è produttivo, occorre mandare finalmente in pensione questo tipo di retorica – alquanto asfissiante, diciamo la verità - e provare piuttosto a stuzzicare la loro curiosità per l’”altro” e la sua cultura. Qui entrano in gioco i decisori politici e l’istituzione scuola: da una parte occorrerebbe garantire a tutti pari opportunità di accesso ad attività e iniziative extrascolastiche in cui incontrare i coetanei dell’altro gruppo e dall’altra si potrebbero potenziare i già esistenti gemellaggi e scambi tra scuole di lingua italiana e tedesca. Se è vero, come hanno dichiarato i ragazzi, che è la scuola il luogo in cui più frequentemente hanno conosciuto quelli che definiscono “amici dell’altro gruppo linguistico”, intensificare i contatti tra scuole andrebbe senz’altro nella giusta direzione. E poi si torna ai genitori, che potrebbero provare – compatibilmente con le loro risorse – ad affiancare e sostenere i figli nel loro percorso di apprendimento della seconda lingua, misurandosi essi stessi con l’”altro” e l’altra lingua. Infine, i ragazzi, che sono i veri protagonisti ma che, quando si parla di apprendimento della seconda lingua, sembrano un’entità da formare, guidare, analizzare, di cui parlare e quasi priva di iniziativa personale. Sappiamo bene che così non è, quindi da loro occorre pretendere il coraggio e la cocciutaggine di provare a esercitare la seconda lingua fuori dalla scuola, di sperimentare “spazi di parola”, magari anche solo nel panificio dove le commesse sono tutte di lingua tedesca. Piccoli passi che potrebbero però riservare delle soddisfazioni capaci di infondere fiducia nelle proprie capacità e invogliare ad azzardare qualcosa in più.