Società | Reportage

Istantanee marchigiane

Viaggio nelle Marche a un anno dal terremoto. Alle pendici dei Sibillini, tra festival, letteratura, colline, impalcature – e l'assenza della politica.
Ripe San Ginesio
Foto: Valentino Liberto

Sono le 7 del mattino di domenica 30 ottobre 2016 quando un sisma di magnitudo 6.5 – dopo le due scosse del 26 ottobre e quella di agosto ad Amatrice – sveglia gli abitanti dell'Appennino Umbro-Marchigiano. La zona più colpita dallo sciame sismico interessa la provincia di Macerata, nelle Marche, e il comune di Norcia, in Umbria. Castelluccio è rasa al suolo, come molti altri piccoli borghi nel Parco nazionale dei Monti Sibillini. Un anno fa abbiamo raccontato su Salto.bz i primi passi verso la ricostruzione: a 12 mesi di distanza, nel maceratese la situazione è pressoché immutata e l'arrivo delle famigerate “casette” per le famiglie colpite dal terremoto procede a rilento. Pure le stalle per gli animali, in vista dell'inverno, non sono ancora arrivate. È un terremoto dimenticato, dalla politica come dai media nazionali, tanto che l'anniversario è passato in sordina. Quest'estate abbiamo esplorato quella “terra di mezzo” prossima all'area dell'epicentro – terra coltivata a grano, terra che non sta ferma – spesso muovendoci sul far della sera, alla scoperta di una resistenza la cui voce fatica ad alzarsi oltre l'orizzonte dei Monti Azzurri.

 

 

Sulla strada per “Borgofuturo”

 

Arriviamo in cima alla collina, al borgo di Ripe San Ginesio, che il sole sta per volgere al tramonto. La luce è bella, il cielo sereno; solo una fila di nubi, perfettamente allineata all’orizzonte, copre il paese che si affaccia sul lato opposto della vallata, Loro Piceno, dal quale proveniamo. “La strada è ben asfaltata” ci siamo ripetuti una curva dopo l’altra. Qui tutte le strade portano a un borgo, da più direzioni, seguendo il profilo sinuoso delle colline. È come ondeggiare su un mare che si stende a perdita d’occhio, dove “il naufragar m’è dolce” scrisse Giacomo Leopardi. Meno dolce è guidare su queste strade, spesso dissestate e prive di segnaletica, ma non è il caso della salita a Ripe. Al poeta dell’Infinito è dedicata invece la via principale del centro: inizia appena dietro al minuscolo municipio, evidentemente proporzionato alle ridotte dimensioni del comune – che conta poco più di 800 anime. Eppure, proprio Ripe San Ginesio è l’anima di un evento di richiamo che valica i confini della provincia maceratese: il festival biennale Borgofuturo , che partendo dal recupero sostenibile del nucleo storico – nel tentativo di arginarne il progressivo abbandono – è diventato un punto di riferimento delle “buone pratiche” ecologiste.

Passeggiando, incontriamo molte vetrine contrassegnate dal logo del festival. Sono spazi in attesa di essere assegnati a nuove attività, capaci di animare per tutto l’anno un paese anch’esso segnato dal terremoto nelle Marche. La targa di “via Giacomo Leopardi” è affissa a un edificio completamente imbragato dopo le scosse dello scorso anno. C’è un gran silenzio, sembra tutto perfettamente in ordine. Le travi in legno sono allineate a regola d’arte, come la fila di nubi all’orizzonte che ci ha accolto al nostro arrivo. Su un altro edificio, un’antica scritta indica la distanza da Loro Piceno: 8,2 km. È arrivata l’ora di tornare, di scendere giù per la strada ben asfaltata, dove il naufragare è ancor più dolce.

 

 

Leopardi (e Kaser) a Montelago

 

Serravalle (Macerata). Si alza il vento sui prati dell’altipiano di Colfiorito, “terra di mezzo” tra Marche e Umbria, portando un po’ di refrigerio nella tenda Tolkien stracolma di spettatori. Siamo al Montelago Celtic Festival: una grande festa popolare che ogni anno, ad agosto, accoglie quasi ventimila persone da tutto il Centro Italia. Un accampamento sconfinato nel quale per tre giorni “il popolo di Montelago” – come usa chiamarlo qui – si muove tra una distesa di tende e gli stand gastronomici delle “Pro Loco” della zona, birre alla spina e concerti di cornamuse nordiche, riti e matrimoni celtici. Sembra una fuga dalla realtà, in una realtà parallela fantasiosa, felice e un po’ folle, dove ognuno è libero di essere come vuole. Non fa eccezione l’eclettico filosofo e autore teatrale Cesare Catà, che dà vita a lezioni-spettacolo di letteratura molto seguite – tanto che la tenda Tolkien non basta ad accogliere tutti. Catà si muove per il festival a bordo di una bici verde, con un ombrellino eccentrico a proteggerlo dal sole cocente. “Tutti i marchigiani sognano di andarsene” esordisce Catà difronte al suo pubblico in silenzio. Anche Giacomo Leopardi, il poeta di Recanati, amava e odiava la sua terra, ma ne aveva assunto il nichilismo, “il nichilismo di Macerata” appunto. E anche quel suo infinito domandare nelle poesie, quel dare del “tu” alla luna e al mondo, lo prese proprio dall’accento maceratese. Nei borghi della terra che trema, quando si parla del politico di turno, non di raro si sente pronunciare “ma io dico, tu si lu sindaco!”, “ma io dico, tu si l’Europa!” – e perché non “tu si la luna”? Giacomo scappò dal natio borgo selvaggio, si lasciò alle spalle lo stormir tra le piante di queste colline, per cercare una vita altrove. Ma il mondo, fuori dalla Marche, si rivelò una più grande e sporca Recanati. “Il bisogno di poesia è il bisogno di una casa, quando non si ha più una casa. Casa-parola, che nomina le cose di cui abbiamo davvero bisogno”, per usare le parole di Gabriele Di Luca.

Inseguo Cesare Catà per due o tre giorni, sotto il sole di Montelago. Ci diamo appuntamento varie volte, l’ultima al pub Mortimer; aspetto invano una mezz’ora. Sconsolato torno alla tenda backstage, dove lavora Alice. Lo trovo lì seduto, la bici al suo fianco, sorridente come nulla fosse. “Sin da piccolo frequento il Sudtirolo, in particolare Brunico, e tra le Dolomiti ho scoperto Dolasilla, la regina impavida dei Fanes che tanto ricorda le leggende della Sibilla Appenninica”. Catà è molto legato a due brunicensi in particolare: “Nicolò Cusano, cardinale genio del Rinascimento, astrologo e filosofo, sul quale ho fatto il dottorato. E il Dylan Thomas del Tirolo, Norbert Conrad Kaser. Il poeta altoatesino scrisse pagine furenti sull’industria turistica, prevedeva quello che sarebbe accaduto”. Kaser tradusse in tedesco Montale, Quasimodo, Fortini, Francesco d’Assisi – e l’Infinito di Leopardi. Quando scende il sole, si alza il fumo delle grigliate tra le tende, e l’umidità dell’antico lago di Plestia, che copriva l’altipiano al tempo dei Romani. Si alza anche la luna (“luna in piena” scrisse n.c. kaser), la stessa che Leopardi osservava posarsi sulle sue colline: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai / Silenziosa luna?”.

 

 

Legno & impalcature

 

Ti porto a vedere da vicino i monti Sibilini”. Risaliamo in macchina, risaliamo le curve per San Ginesio, “il balcone sui Sibillini” da cui si gode una vista mozzafiato sulla catena montuosa che sovrasta le colline del maceratese e le domina da lontano, e più si avvicinano, più appaiono imponenti, più sembra di toccarle con mano. Avvolte da una coltre di nubi basse, le ammiriamo dalla terrazza panoramica sul Colle Ascarano – un grande parco poggiato su antichi bastioni. Qui troviamo il risultato del workshop di design e auto-costruzione promosso qualche settimana prima dall'associazione trentina “Camposaz” (cui ha contribuito anche l'azienda altoatesina Rothoblaas) che ha voluto ridare a San Ginesio uno spazio di aggregazione: un palco e alcune panche in legno. Il legno fresco del Primiero richiama i boschi alpini, l'odore del legname, le radici che affondano nella terra, i rami che crescono, l'impalcatura di alberi rigogliosi. Ma qui le impalcature sono altre: la struttura imponente che sorregge la facciata di una chiesa, il graticcio di travi in legno sugli edifici pericolanti del borgo. “Sono tempi cattivi / dicono gli uomini / Vivano bene ed i / Tempi saranno buoni” recita una scritta su un telo di juta, come altre affisse alle porte e finestre per le rievocazioni storiche del mese di agosto. Alcune vie sono transennate, riempite solo da detriti e calcinacci. Semi-deserta anche la piazza centrale, su cui si affaccia la bellissima Collegiata della Santissima Annunziata, anch'essa danneggiata. Sotto al loggiato le insegne di un grande evento, forse una mostra, non si capisce bene; le scritte sono fucsia, “Rinasco – le città creative per l'Appennino”. Il tempo si è fermato, la vita pure, il turismo è inesistente. Ci muoviamo verso Sarnano, le nubi si diradano, i Sibillini si lasciano ammirare sempre più vicini, illuminati dagli ultimi raggi di sole. Ed è tutta un'altra musica. Le case in pietra cotta arroccate sulla ripida collina del Castrum Sarnani hanno subìto pochissimi danni. Nel borgo c'è vita, e non c'è parcheggio. Pochi chilometri di distanza, due mondi paralleli.

 

 

Catastrofe, letteratura e filosofia

 

Eccoci di nuovo nella tenda Tolkien di Montelago. Cesare Catà introduce un'ospite illustre. È Loredana Lipperini, scrittrice, già autrice di romanzi fantasy, conduttrice radiofonica, instancabile megafono dei popoli sibillini colpiti dal terremoto: “Le Marche sono la mia Castle Rock, terra dell'anima, terra narrativa”. Ma cosa c'entrano letteratura, filosofia e terremoto? Catà prende le mosse dalla visione trascendentalista di Thoureau: “La realtà è più ampia rispetto a noi stessi. E quando il mondo non ha più senso, filosofia e letteratura cambiano il modo con cui guardiamo alla realtà, cercano di raccontare e ricucire il senso, di ricostruirne il filo sconquassato dal sisma”. Si tratta di ricomporre una comunità – spiega la filosofa Lucrezia Ercoli, direttrice artistica del festival “Popsophia” – di prendere la catastrofe nella sua etimologia greca, καταστροϕή, ossia capovolgimento, “come un aratro che prende la terra e la sovverte: l'aratro spezza e lacera la terra, ma la rende più fertile. È un cambiamento fertile”.

 

Ercoli suggerisce un parallelismo con il terremoto che devastò Lisbona il primo novembre 1755: “La tragedia di Lisbona ispirò gli Scritti sul terremoto di Immanuel Kant, il quale alla spiegazione superstiziosa contrappose quella scientifica che inaugura l’odierna sismologia”. Il filosofo tedesco intuì come il mondo roccioso non esistesse più e fosse allora necessario fare i conti con tragedie e fragilità, empaticamente condivise, dove “la paura della morte, la disperazione per la perdita completa di tutti i beni e infine la vista di altri infelici abbattono anche gli animi più coraggiosi”. “La comunità marchigiana ha risposto come mai prima – conclude Ercoli – superando quel suo proverbiale atteggiamento di chiusura, riservatezza, a tratti egoismo. Oltre alla protesta, bisogna accorgersi dell'energia e della resistenza che si è illuminata, mantenuta con fatica”. “Nulla è sicuro, ma scrivi”. L'ultimo verso della poesia Traducendo Brecht di Franco Fortini ispira Loredana Lipperini: “Cosa possono fare i narratori di fronte a una tragedia non raccontata?”. Le Marche non hanno la vocazione di raccontarsi, non lo sanno fare – prosegue l'autrice originaria di Serravalle – perciò è indispensabile la funzione della scrittura come impegno: “La letteratura o è politica, o non è”. Occorre narrare un sogno che venga da qui, omaggiare queste terre, e “volare alti”.

 

 

Sibille.

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Squarci sulla verità

 

Cosa intenda con quel “volare alti” lo spiega qualche giorno dopo, alla presentazione del suo nuovo romanzo “L'arrivo di Saturno” organizzata dalla libreria Il Nautilus tra i pini marittimi del cortile della Biblioteca Filelfica di Tolentino. È una calda sera d'estate ed è bello sedere all'aperto – non fosse che le sale interne della struttura restano chiuse sempre, per ragioni di sicurezza. “La chiusura di una biblioteca impoverisce una cittadina. Bisogna mantenere viva l'attenzione, difendere e raccontare quello che abbiamo perso – e imparare a sognare: senza un sogno nostro, rischiamo di cedere all'incubo altrui, come il centro commerciale sulla piana di Castelluccio. Ci si divide troppo, ma è il caso di unirsi, non solo tra scrittori e lettori, e volare alti, lasciando da parte le polemiche e senza inseguire la retorica dei giornali”. Loredana Lipperini parla del giornalismo: “Si diventa narratori per tramandare storie che altrimenti sarebbero dimenticate. Un tempo si sognava di poter raccontare la verità attraverso la scrittura. Ma ora i giornalisti sono ancorati coi piedi nel presente, ci raccontano il terremoto con impressioni del momento, sono impegnati in un selfie perpetuo. Giornaliste come Graziella De Palo – protagonista del nuovo romanzo di Lipperini – credevano nella verità per cui sono morte. La verità, la bellezza della verità, ci aiuta a costruire il futuro”. La scrittrice torna così sulla sua idea di letteratura: “Rappresenta il rapporto tra finzione e realtà, ovvero l'arte dell'inganno. L'illusione è tra le cose più belle che si sono state date in sorte. In Italia, i libri servono ad aprire squarci sulla verità, squarciano la menzogna e creano comunità: la narrazione dal basso non porta solo conforto, ma resistenza”.

Seduta tra il pubblico, una delle libraie de Il Nautilus si rivolge a Lipperini: “Lei auspica che qualcosa parta dal basso. Ma cosa possiamo fare, in concreto? Raccontare non basta, e ognuno ha il suo ruolo: le amministrazioni dovranno assumersi la responsabilità e rendere conto delle proprie azioni”. Eh sì, dov'è la politica?, dove sono la sinistra “degli ultimi” o il Movimento 5 Stelle?, ci domandiamo uscendo dal cortile della biblioteca, passeggiando nella piazza centrale di Tolentino con una birra e un gelato in mano, i palazzi puntellati, il municipio inagibile. La grande assente è lei, la politica: vista da qui, avrebbe bisogno di un aratro che spezzi le zolle di terra ribaltandole, come la frattura creata dal terremoto sul Monte Vettore. Un “cambiamento fertile” che aspetta soltanto la fase lunare giusta per germogliare. Con il cielo stellato sopra di noi, queste terre chiedono la luna.