Politik | senza dimora

La trappola dell’emergenzialità

Le misure “straordinarie” messe in atto dopo la morte di Mostafa rivelano la fragilità di un sistema che cristallizza e riproduce le marginalità che dovrebbe risolvere.
Alimarket via gobetti
Foto: Salto.bz

C’è un nuovo giaciglio accanto ai binari della stazione di Bolzano Sud, nello stesso posto in cui, poco più di un mese fa, il diciannovenne egiziano Mostafa Abdelaziz Mostafa Abouelela moriva assiderato dopo una notte passata in strada. Alcuni giorni prima aveva bussato alle porte dell’Infopoint di Volontarius chiedendo invano un posto dove passare ripararsi dal gelido dell’inverno. Le strutture erano piene e più di 160 persone erano in lista prima di lui, si è sentito rispondere ricevendo solamente una coperta. 

 

La notizia della sua morte ha fatto rapidamente il giro dello Stivale, riportando nuovamente i riflettori, come è avvenuto con la tragica scomparsa del tredicenne curdo Adan, sul paradosso di una città tanto ricca quanto diseguale come Bolzano ha dimostrato di essere.
Per settimane abbiamo assistito a numerosi rimbalzi di responsabilità, non tanto dissimili da quelli che si riaccendono ogni anno alle porte dell’inverno: da un lato una Provincia che nega l’accoglienza a chi ne ha diritto, prediligendo la concentrazione di persone richiedenti asilo all’interno di CAS sovraffollati e in pessime condizioni nelle zone periferiche del capoluogo, dall’altra un’amministrazione comunale che “non vuole diventare punto di raccolta” per chi arriva dal Brennero, come spesso ribadito dall’assessore alle Politiche Sociali di Bolzano Juri Andriollo, che non ha mancato negli anni di sottolineare anche un presunto opportunismo di chi, talvolta, preferisce rimanere nelle strutture “perché non si paga nulla”.
Lo scorso anno, in occasione di un'intervistasalto.bz sulla mala accoglienza delle persone senza dimora del capoluogo, ribadendo i soliti principi l’assessore aveva affermato che la città di Bolzano dovrà essere “meno erogatore di servizi e più ospedale da campo”.
E così è diventato.

 

Dopo l’apertura della palestra Kunter, chiusa in tempi record dopo le rimostranze di chi si è visto privato dell'allenamento di badminton settimanale, alcune decine di richiedenti asilo sono entrati in quota all’interno dei CAS provinciali, mentre nel capoluogo sono aumentati sensibilmente i posti letto all’ex Alimarket di Via Gobetti, che sin dalla sua apertura si è contraddistinto per le gravi falle nel servizio gestito dal Comitato provinciale della Croce Rossa, ampiamente sovvenzionato dai fondi pubblici. 

A distanza di poche settimane, il quadro che emerge dalle testimonianze di ospiti e volontari, è quello di una bomba a orologeria che rischia di scoppiare da un momento all’altro. Una struttura sovraffollata in cui convivono decine di persone in situazione promiscue e prossime al limite: da lavoratori poveri a persone estremamente vulnerabili che in quelle strutture non ci dovrebbero proprio entrare, come tossicodipendenti e soggetti affetti da disagi psichici. Persone con le biografie più diverse ma tutte legate dal filo conduttore della marginalità sociale che abbandona gli indesiderabili nei capannoni nascosti della periferia industriale.
Il tutto si complica quando ci si deve confrontare con i rigidi regolamenti delle strutture che possono facilitare l'esclusione dalle stesse. Basta presentarsi poco più tardi dell’orario prestabilito per essere costretti a passare la notte in strada, senza contare che i dormitori per senza fissa dimora rimangono le uniche strutture presenti sul territorio provinciale in cui viene richiesto l’esito negativo di un tampone antigenico, a spese dell’utente.

 

“Nemmeno gli animali"
 

All’interno del capannone dell’ex Alimarket, il dormitorio è diviso dal centro diurno con una semplice rete metallica. Durante il giorno, non è possibile accedere al proprio letto, mentre la zona del diurno è costituita solamente da tavoli e sedie. L’unica attività portata avanti all’interno, oltre alla distribuzione di pasti confezionati, è un corso di lingua organizzato il venerdì da una volontaria indipendente, una delle poche ad essere ancora ammesse all’interno, dal momento che, a differenza di quanto avveniva in passato, i controlli di chi accede all’interno si sono fatti più rigidi.

Se un genere di prima necessità lo deve fornire un’associazione esterna o un volontario si finisce per fare emergere i problemi gestionali che vi sono all’interno

Alcune volontarie raccontano che non è più permesso portare prodotti di alcun tipo, dai biscotti al tè caldo, dai kit igienici per la doccia agli indumenti invernali: “Non ci sono motivi validi, dal momento che manca di tutto. Ma forse la ragione è proprio questa: se un genere di prima necessità lo deve fornire un’associazione esterna o un volontario si finisce per fare emergere i problemi gestionali che vi sono all’interno”, spiega un’altra volontaria attiva nella distribuzione degli indumenti nel parcheggio adiacente la struttura. Andrea Tremolada, responsabile della struttura, non ha voluto rispondere in merito.
Le testimonianze che provengono dall’interno si assomigliano tutte. Sono molti i nodi problematici, peggiorati radicalmente con il raddoppio delle persone ospitate. La situazione di affollamento e convivenza forzata tra le umanità più diverse e marginalizzate ha contribuito infatti ad accrescere le tensioni.

Sono tutte reazioni concatenate, la maggior parte dovute a un contesto difficile che metterebbe alla prova chiunque

“Dormire è diventato impossibile – ci racconta Said, ospitato all’ex Alimarket dallo scorso novembre  – sia a causa del rumore sia perché convivi perennemente con il timore che ti possa succedere qualcosa. Può accadere che qualcuno ti sottragga i tuoi averi, perché non li puoi custodire in un armadietto chiuso a chiave. Oppure che una persona in escandescenza decida di prendersela con te. In alcune occasioni sono arrivate le forze dell’Ordine nel cuore della notte”. 
“Sono tutte reazioni concatenate, la maggior parte dovute a un contesto difficile che metterebbe alla prova chiunque – ci dice Tanya, una volontaria di lunga data attiva in strada e in diverse strutture di accoglienza –. Se una persona è tranquilla, ha la propria stabilità, un posto sicuro in cui dormire e le proprie ore di sonno diventa improbabile il verificarsi di certe situazioni".

 

Secondo Radi, un altro giovane utente, i problemi maggiori vanno invece ricercati, ancora una volta, nella gestione del centro, dal servizio docce, con solamente una postazione funzionate per tutti gli ospiti, alla distribuzione dei pasti. In molti affermano che il cibo confezionato che viene distribuito sia di pessima qualità: “Se lo lanciassi a un animale si rifiuterebbe di mangiarlo”, ironizza Radi al telefono.

 

Un circolo che non finisce mai


I nomi delle volontarie più attive in strada sono conosciuti ai molti che in quella strada vi sono costretti. È un incredibile passaparola, dove un numero di telefono diventa un bene comune da condividere e dove chi risponde dall’altra parte spesso trasmette più fiducia delle stesse istituzioni preposte. “È un rapporto umano che si sviluppa tante volte solo sul piano virtuale. Le richieste di aiuto riguardano quasi esclusivamente la ricerca di una casa e di un lavoro –  racconta ancora Tanya –. Succede spesso che alcune di quelle persone che ti contattano anche anni prima, si ritrovino a farlo diverso tempo dopo e per gli stessi motivi, un eterno ritorno al punto di partenza”. 
I ritmi di vita di molte persone che si possono incontrare all’interno delle strutture a bassa soglia sono scanditi dal contratto a termine di un lavoro stagionale: quando il lavoro c’è, spesso c’è anche l’alloggio, vista l’alta richiesta di manodopera non qualificata. Quando il lavoro finisce, si ritorna alla strada, anche quando le condizioni economiche ti permetterebbero di sostenere un affitto, tuttavia inaccessibile a causa del blindatissimo mercato immobiliare locale.

 


Il caso di Samir è uno di questi. Da diversi mesi lavora come aiuto cuoco in una frazione di Nova Levante, che garantisce l’alloggio ma solamente durante i cinque giorni lavorativi. Succede dunque che gli altri due giorni a settimana è solito a trascorrerli a Bolzano, ripiegando sulla struttura di via Gobetti. A Samir il lavoro piace, anche se è molto duro, e apparentemente persino il datore di lavoro è contento di lui. Non sa che il suo dipendente è una persona senza dimora. Samir infatti si vergogna e dice che quei due giorni in cui non lavora li passa da un amico. Pochi giorni fa, l'aiuto cuoco si è ritrovato per strada, escluso dall’ex Alimarket a causa di alcune tensioni che si erano create durante l’ennesima notte insonne e concitata. Rimane sveglio, tremante tutta la notta. All’alba crolla stremato, perdendo il treno che lo avrebbe fatto arrivare puntuale per il turno di mezzogiorno. Il cellulare scarico non gli permette di avvisare il datore di lavoro, di trovare una scusa plausibile che potesse giustificare quell’assenza. Si presenta per il turno serale, ma il capo non sente ragioni. Lo intima di andarsene, cacciandolo alle nove di sera dalla stanza che utilizzava durante la settimana. È di nuovo in strada, a cinque chilometri dal centro abitato più vicino, senza mezzi per tornare a Bolzano.
Una sorte simile è capitata a Ibrahim, che il lavoro lo aveva trovato solamente da due giorni. Quella notte, all’Alimarket, era arrivato in ritardo. Il cancello era chiuso e nessuno voleva aprire. È dicembre e le temperature sono abbondantemente sotto lo zero. Scavalca per entrare, violando quel regolamento che ne giustifica l’espulsione immediata dalla struttura. La mattina seguente, privato delle forze necessarie che lo hanno tenuto in vita le ore precedenti, non è riuscito a recarsi al lavoro, perdendolo per sempre.
Tra le testimonianze più dure, primeggia senza dubbio quella di Wissam. È in strada da alcune settimane e non sta bene. I compagni con cui condivide un garage notano il sangue dalla bocca. La sua è una storia clinica complicata. Soffre di epilessia e di gravi disagi psichici che ne hanno costretto il ricovero e una successiva degenza di sei mesi all’interno del progetto “Salute” della struttura del Lemayr. Dopo tre tentativi di suicidio, Wissam deve seguire una terapia rigorosa, assumere farmaci in un contesto protetto e controllato in una stanza con al massimo un'altra persona. “Solo l’assistente sociale che lo sta seguendo dovrebbe fare richiesta per una struttura adeguata – riportano le volontarie che stanno supportando il ragazzo – ma ormai sono passati sei mesi dall’ultimo contatto”.


Ora Wissam si trova da qualche giorno nella struttura per senza dimora di via Comini, non adatta alla sua situazione ma comunque meglio della strada. Liliana Di Fede, direttrice di ASSB, venuta a conoscenza del caso, ha fatto sapere a salto.bz che non sono possibili soluzioni alternative ed ammette le criticità generali del sistema di accoglienza a bassa soglia, a partire dall’ex Alimarket: “Quella è una struttura da 90 posti, che in diversi momenti sono stati superati. Riconosco che non è la soluzione ideale, ma l'alternativa era lasciare le persone fuori”. Sebbene la pressione sia diminuita con l’apertura di nuovi posti ad Appiano e la presa in carico di 80 richiedenti asilo fuori quota, Di Fede afferma che i posti a disposizione non sono ancora sufficienti, considerando che in media solo un richiedente asilo su due viene effettivamente immesso nel circuito dell’accoglienza. Un’affermazione confermata anche dai nuovi giacigli comparsi ai margini nascosti della città.
Rispetto ai tamponi obbligatori, la direttrice ricorda che è ancora in vigore una vecchia direttiva della task force istituzionale “ma si vuole verificare la necessità di continuare a richiederli”.

La strategia dell’improvvisazione sta creando luoghi di marginalità sempre più affollati, distaccati dal tessuto cittadino, inseriti in contesti di difficoltà e privazioni


Decisamente più critica invece è l’Associazione Bozen Solidale, anche alla luce della recente ipotesi di ampliamento di Via Comini, non confermata da Di Fede: “Le persone senza fissa dimora a Bolzano sono prevalentemente migranti che attraversano il nostro territorio per qualche giorno o che, talvolta, decidono di fermarsi più a lungo perché trovano lavoro; moltissime hanno i documenti in regola e lavorano stabilmente o stagionalmente, senza però avere la possibilità di accedere ad una casa o ad un posto letto a pagamento con regolare residenza, come sarebbe loro diritto – scrivono gli attivisti in una nota –. Il problema della casa, che colpisce in maniera trasversale le persone a prescindere dalla provenienza, è strutturale in Alto Adige ma se sei migrante, lo scoglio ulteriore è quello di essere straniero. Per questo non accogliamo positivamente la proposta di ampliamento dell’Emergenza Freddo di via Comini. La strategia dell’improvvisazione sta creando luoghi di marginalità sempre più affollati, distaccati dal tessuto cittadino, inseriti in contesti di difficoltà e privazioni. Per questo – conclude l’Associazione – chiediamo a gran voce, per l’ennesima volta, un percorso di autonomia abitativa dove le istituzioni si rendano garanti di suddetto percorso mettendo al centro la persona tenendo in considerazione le diverse e soggettive necessità”.

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Max Benedikter Di., 31.01.2023 - 15:47

Basta leggere pochi articoli di Elisa Brunelli per comprendere la tragica realtà dei profughi e senza fissa dimora di Bolzano. Ma alle istituzioni, TUTTE, a partire dal comune di Bolzano non se ne fregano. Ma non interessa nemmeno alla stragrande maggioranza della popolazione di Bolzano.

Di., 31.01.2023 - 15:47 Permalink
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Max Benedikter Di., 31.01.2023 - 16:02

Non hanno ALCUNA competenza sociale ed economica i nostri lacchè dei vari partiti di governo che hanno nel loro nome il termine "democratico" o riferimenti al cristianesimo.

Di., 31.01.2023 - 16:02 Permalink