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La Heimat è una responsabilità

Il pusterese Matteo Da Col, promotore del ciclo d'incontri „HEIMAT“, sulla necessità di una coscienza storica: “Se non sai chi sei, è difficile interagire con l'altro”.
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Foto: Matteo Da Col

Mi manca l'odore dei boschi, non la toponomastica” rispondeva lo scorso anno il giornalista Martin Kucera in un Salto-Gespräch. Perciò, una premessa: per chi fa questo mestiere lontano dal Sudtirolo non è facile tornare a discutere di storia locale, di memoria storica, di identità e di Heimat, senza essere colpiti da un certo senso opprimente di soffocamento, vinti dal peso di un fardello di cui non riusciamo a liberarci. Un “peso”, dunque, che Matteo Da Col – giovane attivista di Brunico anima dell'associazione culturale “Diverkstatt” - cerca di sviscerare, di indagare chirurgicamente. Da Col lasciò il Partito Democratico (dopo aver rivolto diverse critiche ai vertici bolzanini) assieme all'altro Da Col di Brunico, ovvero Gianluca: i due fecero un lungo cammino insieme prima che le loro strade si dividessero. Matteo Da Col e Markus Lobis hanno ideato una nuova serie “itinerante” di iniziative in diverse località della provincia: HEIMAT gestern oggi duman“.

Salto.bz: Come è nata l'idea e qual è senso, il filo conduttore “storico”, di questa nuova serie di eventi HEIMAT dopo il primo appuntamento su identità multiple e doppia cittadinanza alla Waltherhaus di Bolzano?

Matteo Da Col: C'è una risposta personale-individuale e poi il livello collettivo. In quanto persona plurilingue però di formazione italiana, che ha frequentato scuole in lingua italiana, qualche anno fa ho incontrato per la prima volta il termine “Heimat” nel libro Contro i miti etnici di Fait e Fattor, un termine già visto ma che per la prima volta mi ha affascinato. È un termine oscuro. Non avendo mai vissuto tantissimo qui a Brunico, con le scuole a Bolzano e l'università a Venezia e Vienna, in quel periodo non era una dimensione con un'importanza centrale nella mia vita. Poi, con l'esigenza di dirsi ed essere territoriali, di fare qualcosa a casa propria, cambiare il mondo nel proprio contesto e muovere le acque, questo termine si è avvicinato alla mia sensibilità, con tutte le contraddizioni del caso. C'è chi dice sia ancora un discorso di destra reazionario: una parola no-go che non si poteva più usare, per tutta una generazione, in pubblico o in contesti lavorativi.

Un termine considerato ultra-conservatore, vissuto ancora oggi con un certo imbarazzo nei paesi di lingua tedesca. Qualcosa però sta cambiando: in Germania è appena stato istituito un ministero alla Heimat – guarda caso su iniziativa della CSU bavarese.

Sì, quello però è puro marketing politico. Deriva dal fatto che la Germania non fosse una nazione, ma un territorio che parlava circa una stessa lingua. Nacque come un'idea anti-moderna, come reazione all'industrializzazione, al perdere la casa e i propri diritti. Si arriva poi all'Heimatrecht, al diritto alla cura assistenziale dei poveri anche se non si è nati in un certo posto, e ad affermare con il romanticismo la necessità di uno Stato, che può essere legata a un luogo.

Heimat è un termine oscuro. Esiste un monopolio definitorio da parte di alcune forze politiche locali, e noi volevamo mettere in discussione il monopolio su questa parola.

Già da due anni Diverkstatt lavora sulla Heimat. Avete realizzato altri eventi con questo cappello. Qual è stato il percorso a livello collettivo, ovvero associativo?

Il framework nel quale ci muoviamo si è definito più tardi. La “giornata dell'indipendenza” a Brunico, nel maggio 2016, era come cittadino e persona attiva nel contesto brunicense un “pugno nell'occhio”, un Dorn im Auge. Qualcosa che dava da pensare in una città fortemente liberale, con una storia di apertura e borghesia non allineata alla Chiesa: quasi un affronto verso ogni cittadino liberale della città. Siccome non è nel nostro stile fare politica schmittiana, creare il nemico per unirsi, abbiamo deciso di proporre un'alternativa: discutere senza ansie del termine Heimat. Esiste un monopolio definitorio da parte di alcune forze politiche locali, e noi volevamo mettere in discussione il monopolio su questa parola. Parlare di Heimat significa parlare di territorio, natura, lingue, religione, immigrazione, relazioni umane. La connotazione degli stakeholder della Heimat è la sicurezza del “noi contro loro”, gli stranieri.

Come siete riusciti a rendere più plurale e sfaccettato il termine Heimat?

Ci sono vari fattori: portare narrazioni diverse con background differenti. Ad esempio Christoph Franceschini (caporedattore di Salto.bz, ndr) ha raccontato come la sua famiglia optante finì da un'altra parte, in Germania, capendo solo in quel momento di aver ricevuto una Heimat perché a qualcun altro era stata rubata. C'è la Heimat come casa tua, maso, giardino. La Heimat basata sulla migrazione, c'è chi ha un Heimatgefühl per la propria terra d'origine e sviluppa quello per la terra sudtirolese, essendo in grado di strutturarla, costruirla, muovendosi come animale sociale. Infine vi è la visione femminista, o meglio, femminile: il ruolo della donna, quando può parlare, che ruolo gli viene affidato. Abbiamo indagato il concetto, le sfaccettature socio-politiche: cosa vuol dire sentirsi a casa, il sentimento, un luogo.

In tempi di cambiamento, la Heimat placa l'ansia. Ciò non è emancipativo, perché deresponsabilizza. Ma non può esserci libertà senza responsabilità.

Qual è stato l'esito del vostro primo intervento?

La Heimat può essere un motore di emancipazione, di messa in discussione: capire la complessità per poi produrre una definizione propria. Ognuno deve far quel lavoro di scoprire e definire la propria Heimat; un discorso diverso da quello “classico” della Heimat. Si vede l'identità come relazione con un costrutto culturale, più che come sottomissione a un costrutto culturale, dove i ruoli sono già distribuiti, non si mette in discussione niente: i ruoli sociali di riproduzione, chi va al lavoro, chi si occupa dei figli, chi può parlare o meno di politica... i ruoli sono già distribuiti. In tempi di cambiamento, la Heimat placa l'ansia. Ciò non è emancipativo, perché deresponsabilizza. Ma non può esserci libertà senza responsabilità. Dove c'è responsabilità esiste anche libertà. Questa è un'identità emancipativa e progressista. La tradizione è una cosa importante, ma dev'essere qualcosa che non dev'essere riflesso e riprodotto, ma criticamente interpretato e portato avanti in maniera innovativa. Altrimenti è una sottomissione.

Heimat resta una parola intraducibile – come ormai molti sanno anche in Italia – senza un corrispettivo linguistico in italiano: “patria” (come “Vaterland”) è connotato in maniera nazionalista. È possibile una traduzione “inedita” a partire da una nuova chiave di lettura?

Non lo era anche patria prima dei nazionalismi – si pensi a Ugo Foscolo con A Zacinto. Heimat deve fare un upgrade: da un tribalismo iniziale, passato per nazionalismo e razzismo, al capire che la pluralità è il valore. Manca la traduzione di questo termine: dialogando con latinisti e grecisti c'è chi mi dice che il concetto di Heimat è quello di terra, e io dico no, non mi piace. Nella traduzione di Umberto Gandini del libro di Hans Karl Peterlini Noi figli dell'Autonomia, si parla del concetto di “matria”, tutt'altro che banale. Heimat indicava il focolare della casa, il luogo privato della casa dove avvengono le relazioni; successivamente, col romanticismo tedesco, arriva ad avere connotazioni femminili, un'impersonificazione nella donna. Questa connotazione femminile è però pericolosa, per l'intrinseco sguardo maschile. “Matria” è interessante, ma lasciamo Heimat perché la traduzione va fatta quando è richiesta.

Come diceva Tiziano Terzani, puoi andare dove vuoi, ma resti sempre un vettore della tua cultura d'appartenenza.

E gli italiani in Sudtirolo hanno motivo di utilizzare il termine “Heimat”?

Heimat lo usiamo come Kampfbegriff: anche gli italiani possono parlare di Heimat, sentire questa responsabilità – chiamiamola civismo – se socializzati all'interno di una cultura di impegno sociale e responsabilità civile che risale a trecento anni di storia tirolese. Un salto linguistico in un altro contesto culturale può portare a nuovi meccanismi, pluralisti, progressisti, democratico – diversi da quelli originari. Gli italiani possono mettere nuove radici.

Per gli italiani dell'Alto Adige la “Heimat” resta un concetto sostanzialmente estraneo, legato al (mancato) senso di identificazione verso il territorio che abitano, da “immigrati della prima ora” quali sono. In relazione al tuo vissuto personale e al tuo incontro con la Heimat, come hai rielaborato il rapporto con il Sudtirolo e la tua comunità d'origine?

Io credo fondamentalmente che per cominciare a ragionare sul termine Heimat si debba fare un percorso di auto-riflessione. Come diceva Tiziano Terzani, puoi andare dove vuoi, ma resti sempre un vettore della tua cultura d'appartenenza. “Dovunque vado, qualsiasi lingua parlo, io rimango fiorentino: sono testardo, arrogante, rompicoglione”. Si tratta di problematizzare e integrare Heimat nella propria vita, significa riflettere quello che si è, andando oltre le rivendicazioni identitarie. Un focus sul processo più che sull'enunciato. Ho molti amici friulani e veneti: tra loro mi sono sentito a casa perché ero sudtirolese, figlio di una terra in cui c'era il Kaiser. I miei antenati erano dello stesso paese di un mio amico di etnia serba in Ungheria. I livelli e le dimensioni si mescolano. Fare un discorso sociologico significa distinguere, ma in un momento di convivialità e relazioni sono le similitudini che permettono l'interazione. Qui viene fuori il discorso della pluralità. Heimat è una parola monolitica e indefinita, si può definire ed è plurale: questo è lo scarto centrale.

Heimat è dove arriva l'amore, dove i vicini ti salutano. È il posto dove quando te ne vai ti volti all'indietro, come a una persona cui vuoi bene. Una parola monolitica e indefinita, che si può definire ed è plurale: questo è lo scarto centrale. 

Agli italiani è stata data la possibilità di disfare le valigie, l'Heimatrecht di cui parlavi? A causa della “maledizione del pendolo”, gli italiani si sentono figli di un dio minore.

Torniamo al discorso di assunzione di responsabilità sociale e civile: le persone di madrelingua italiana che hanno voglia di fare e si mettono in gioco, spesso lo fanno coinvolgendo persone di lingua tedesca. Laddove c'è lavoro, c'è impegno, il desiderio e la possibilità di sentire a casa. Daheim sein, l'essere a casa. Heimat è dove arriva l'amore, dove i vicini ti salutano. È il posto dove quando te ne vai ti volti all'indietro, come a una persona cui vuoi bene. Quella emozione lì è la Heimat. È una confort zone, in senso positivo e negativo, una zona de-responsabilizzata, come il tuo divano e la tua televisione: non devi mettere in discussione niente, è già tutto determinato, è la persona a cui vuoi bene. Puoi essere te stesso e vieni accettato per questo.

Il sistema dell'Autonomia è costruito sulla “preservazione” di queste confort zone, ovvero sulla dimensione collettiva dell'identità: l'appartenenza a un gruppo linguistico, coordinate sulle quali si orienta la società e il discorso pubblico.

E non cambierà a breve.

 “Sei più italiano o tedesco?” “Io sono un bastardo”.

In un'intervista a Salto.bz, Aldo Mazza sostiene che siamo passati dal Gegeneinander al Nebeneinander e infine al Ohneeinander. Si assiste all'arroccarsi in un'identità sempre dichiarata e sostanzialmente irrinunciabile, concepita come perenne e indissolubile, con persistenti paure di assimilazione – si pensi all'allarme per i bambini italiani negli asili tedeschi. In Sudtirolo abusiamo dei termini identitari, di cui non riusciamo a liberarci?

Rispondo con una provocazione. Mio nonno era di Sesto Pusteria, contadino molto tradizionale e cattolico che fu il mio appoggio per riuscire a capire cosa il popolo di lingua tedesca ha dovuto subire. Perciò era bi-analfabeta, non sapeva bene né l'italiano né il tedesco. Sposò mia nonna – di Salorno e di lingua italiana. Un giorno lei mi ha domandato “sei più italiano o tedesco” e ho risposto: “Io sono un bastardo”. “Ah sì?” replicò lei guardandomi un po' perplessa, aggiungendo: “Bastardi sì, ma fatti bene”. Nella vita quello che conta è come sei fatto, non quello che ti definisci. Se sei una persona educata, che sa stare con gli altri, stai bene ovunque ti mettano.

Non la pensano così gran parte degli abitanti del Sudtirolo. A domanda diretta magari non rispondono subito con “italiano” o “tedesco”, ma è naturale doversi prima o poi concepirsi così. Lo dicono le indagini Kolipsi: persino i bilingui si “aggregano” a un gruppo.

Abbiamo coniato una nuova parola, Füreinander: occorre essere non solo con gli altri ma essere per gli altri. Non importa se sei italiano, tedesco, ladino, albanese, pachistano, bensì una persona con una dignità, dei sentimenti, una volontà: questo è il motore per creare qualcosa di nuovo. Le coordinate etniche esistono, ed è anche giusto – questo è importante dirlo – che non ci si mescoli. Poi un domani nascerà il sudtirolese del terzo millennio. Per questo non usiamo Alto Adige perché non indica la pluralità di questa terra, perché Sudtirolo è Tirolo ma anche no, è a sud.

Le coordinate etniche esistono, ed è anche giusto – questo è importante dirlo – che non ci si mescoli.

È il motivo che vi ha portato a pubblicare il libro Italiani a Brunico?

C'è una responsabilità nei confronti di quello che è successo: le colpe dei padri ricadono sui figli, diceva Langer. Dobbiamo assumerci la responsabilità del nostro passato, di quanto accaduto, e poi costruire relazioni. Il tema del fascismo, dell'italianizzazione, delle Opzioni, del terrorismo, sono luoghi da visitare per capire. Solo così la società “supera”, comprende e riesce a gestire le diversità in maniera più “efficiente”, positiva, come un fattore di ricchezza, arricchimento, esuberanza. Se non sai chi sei, è difficile poi interagire con l'altro, con quello che non conosci. Come un pendolo: bisogna andare verso la propria storia “etnica”, prenderne conoscenza, per poi ridefinirsi nuovamente alla luce di quello che si è scoperto e rapportarsi all'altro gruppo. Motivo per cui si va all'estero e poi si ritorna. Ci vuole un cambio di prospettiva: un'identità dinamica.

La “presa di coscienza” degli italiani è avvenuta anche attraverso la letteratura?

Sì, spesso letteratura di lingua italiana sudtirolese – se non si leggono i libri non si va da nessuna parte.

Anche autori italiani “da fuori” – come Francesca Melandri o Marco Balzano – hanno aperto uno squarcio importante sulla storia altoatesina. Non dovremmo forse smetterla di parlare di noi tra noi, riconoscendo una storia più “grande” della nostra – per esempio il ruolo di Aldo Moro – o persino liberarci una volta per tutte dal peso del proprio passato? Gabriele Di Luca, a proposito di Bombenjahre, scrisse: “Vi prego, dimentichiamoci la nostra storia”.

Lo spettacolo Bombenjahre a mio parere era multilaterale. Detto questo, c'è un problema di fondo non solo sudtirolese, ma di tutti gli austriaci. C'è innanzitutto il fatto inequivocabile che il tirolese è un popolo mitico, che vive di una narrazione mitica: c'è un protagonista e un antagonista, il mito usato per fini politici immanenti e attuali. Quello che fanno gli Schützen.

Però il Tirolo del Nord non sembra così vittima dei propri miti...

È anche una delle regione più ricche d'Europa.

Anche la Baviera, politicamente ancor più identitaria.

Il discorso mitico è centrale. Se non si capisce il suo funzionamento, se ne rimane vittime, anteponendo un altro mito. Se gli Schützen vogliono erigere una statua a Johann Mairhofer, non puoi contrapporre un altro eroe. La storia non è fatta di eroi, ma da persone. Non si può ridurre la storia a una persona. Nel discorso letterario, ancora prima dell'annessione, la Heimat celebra il contadino che vive da solo e va a caccia in montagna e si avvicina a Dio. Trasposta negli anni settanta, con gli Anti-Heimatromane, Anti-Heimatfilme, troviamo la situazione di disagio psicologico: lo scollamento tra performato e realtà dei fatti. Come in Austria si è dimenticato ciò che accadde nella prima repubblica, sfociata nell'austrofascismo, la Süd-Tiroler Freiheit non parla mai di quanto successo in quegli anni, dimentica la resistenza austriaca ai nazisti. È una ipertrofia storica legata a singoli momenti, invece la comprensione storica va vista come sedimentazione.

Cosa pensa della situazione politica in Austria?

Sono arrivato in Austria che era un paese, ora ce n'è un altro. C'è stata una ri-nazionalizzazione delle masse, come la chiamano i Wu Ming, ma non vuol dire che l'altra linea abbia perso, vuol dire solo che siamo in una fase di resistenza. Possiamo formarci e fare un upgrade. Nel momento in cui non siamo egemoni e altri sono entrati nel senso comune delle persone, dobbiamo lavorare per ri-colonizzare territori dell'immaginario e far sì che certe idee trovino le gambe su cui andare. Bisogna agitarsi, istruirsi, organizzarsi. Siamo in un tempo in cui i politici dicono ciò che la gente vuole sentirsi dire. La politica è degradata. In ogni caso: perché la politica dovrebbe abbandonare la gallina dalle uova d'oro, l'ultimo baluardo dalla minaccia? La logica è questa.

A 15 anni ho scoperto l'italiano, cosa vuol dire essere maggioranza.

Con quale spirito vi avvicinate a Bolzano? Una città paradigmatica, nonostante i passi in avanti nella musealizzazione del lascito monumentale fascista – con il tentativo di costruire una storia condivisa, senza eroi da una parte o dall'altra. Non si corre però il rischio che questa riflessione resti “confinata” agli ambienti intellettuali sudtirolesi, parlandosi “addosso”, e non si arrivi laddove ce ne sarebbe il reale bisogno? Le sacche che portano avanti il discorso simbolico stanno molto lontane dalla Waltherhaus.

Da pusterese ho un'aspettativa grandissima, nervosismo e agitazione. A Bolzano ci ho fatto le scuole, ci ho vissuto. Negli ultimi due-tre anni ho scoperto una città che ignoravo – che prima pensavo essere solo superficiale e fascista. Io ho un altro tipo di mentalità, vengo da un'altra realtà sociale. Alla prima lezione di tedesco a Bolzano la professoressa mi guardò con un sorriso a 59 denti: “Endlich einer der Deutsch spricht”. Ma io parlavo un sacco di dialetto sudtirolese. A 15 anni ho scoperto l'italiano, cosa vuol dire essere maggioranza. A Bolzano torno ora con il pensiero che sia il momento di farsi avanti, di rendere percepibile tutto quello che è stato elaborato nei circoli ARCI, nel gruppo di Storia-Regione, tra storici come Hannes Obermair e Leopold Steurer. È stato già detto tutto, in realtà. Parlando in termini gramsciani, dobbiamo far capire alle persone che siamo tutti intellettuali (e responsabili) anche quando non crediamo di esserlo.

Ha senso parlare di doppi passaporti a due passi dal presunto “degrado” del parco della stazione? Non stiamo forse trascurando fenomeni che hanno un impatto assai più grande?

Bisogna far sì che le persone si sentano coinvolte, da temi che toccano la loro vita, l'importante è che se ne parli in maniera seria – che sia una questione di immigrazione, sicurezza, flussi migratori o burocratica sulle troppe regole. Parlare di doppi di passaporti non vuol dire essere contro o a favore, ma fornire alle persone gli strumenti per capire il presente, la ristrutturazione mondiale che sta accadendo. Partendo dal presupposto che siano senzienti e capaci di capire. Ognuno poi deve farsi un opinione per gli affari propri, non abbiamo aspettative, né vogliamo spiegare alcunché. Forniamo un quadro interpretativo: il sacchetto te lo devi riempire da solo.

Ma il sacchetto viene riempito soprattutto dalla discussione politica. Ci vogliono forse soggetti politici organizzati che siano in grado di “guidare” una comunità in una certa direzione.

Di questo ci sarà bisogno. Mi viene in mente la domanda fatta da Faustini (direttore dell'Alto Adige, ndr) fatta a Fabian Fistill alla presentazione del suo libro Italiani a Brunico: “Ma gli italiani contano politicamente?”. Responsabilità significa civismo, se le persone si impegnano, ci sarebbe il concorrere delle idee, poi ognuno può votare Urzì, 5 Stelle, PD. L'importante è restare dentro un quadro di regole condivise, di rispetto, di valorizzazione delle differenze. Anche il più nazionalista vuole che i propri figli abbiano un lavoro, siano in salute, che si sposino, che la famiglia vada avanti. Le ideologie non contano niente. Ciò che contraddistingue questo periodo è la precarietà emotiva: partner che si lasciano, amici che si abbandonano, partiti che deludono.

La lingua si impara nel momento in cui non c'è un blocco emotivo e c'è lo sviluppo dell'empatia.

A queste ansie, in Alto Adige si somma (soprattutto per gli italiani) l'apprendimento della seconda lingua finalizzato al “Patentino” – e all'impiego lavorativo. Si pensi ai genitori che iscrivono i propri figli alla scuola tedesca.

Se vediamo i cambiamenti o quello che permane come una minaccia, le nostre soluzioni saranno sempre fuori tempo massimo. Guardiamo – come individui, individui associati e società – ai motori di innovazione. Sulle lingue c'è un'enorme confusione. Come contesto la Süd-Tiroler Freiheit (per i “bambini tedeschi negli asili tedeschi”, ndr) mi indubbia anche il plurilinguismo “militante” di chi è già plurilingue e non vede perché gli altri non dovrebbero potercela fare. La lingua si impara nel momento in cui non c'è un blocco emotivo e c'è lo sviluppo dell'empatia. È il livello psicologico delle persone che non aiuta, ma anche la presunzione che tutti dovrebbero plurilingui. Esistono varie forme di plurilinguismo: paritario come in Catalogna, imperfetto oppure passivo quando ognuno parla la propria madrelingua. Tutto invece viene ridotto alla semplificazione, per esigenze di marketing, e non all'essenza. Ai nostri eventi ognuno si sente libero di parlare nella lingua che preferisce. Il plurilinguismo costa fatica, se non è visto solo come un motore economico.

Il lavoro, il posto fisso nel pubblico – ovvero in Provincia – sono viste il più delle volte come l'unica buona ragione per apprendere l'altra lingua.

Il plurilinguismo non può essere visto come sola visione economica dell'esistenza. Può nascere solo dalla curiosità, dalla voglia di bere una birra e divertirsi. Nasce da una visione privata, dalla dimensione di Heimat. Il lavoro che vogliamo fare è un transfer culturale del termine Heimat, per gli italiani e gli immigrati, fornire loro uno strumento di interpretazione del quadro, per trovare la sua via d'integrarsi e partecipare al benessere della società. Leggevo un estratto di Karl Marx: “Nel vendere il proprio lavoro, i contadini hanno perso la Heimat”. Qui è un Kampfbegriff, è qualcosa che si fa insieme, l'importante è non retrocedere mai né arroccarsi sulle proprie posizioni. Occorre lavorare molto sul discorso emozionale, spirituale e psicologico in chiave pubblica. È questa la grande sfida di HEIMAT, un po' metafisica: una dimensione privata e familiare, di associazionismo e politica, d'impegno nella società e relazione tra noi stessi e il resto nel mondo.

Karl Marx scriveva: “Nel vendere il proprio lavoro, i contadini hanno perso la Heimat”.

Un passo delle istituzioni a volte vale anni di impegno della società civile. Molte resistenze sono politiche, si pensi alla separazione degli assessorati alla scuola e alla cultura.

Io capisco, però, tale separazione. L'Italia non garantisce dal punto di vista politica e di credibilità simbolica. Pericoli che ora appaiono fantomatici possono, con un cambio di governo, non più essere tali. E se la gente percepisce un pericolo come reale, non è più fantomatico. Nel 2003 il governo Berlusconi cercò di dichiarare l'italiano come lingua ufficiale dello Stato, questo avrebbe comportato un oltraggio a tutte le componenti minoritarie.

Non sono le paure irrazionali che ci bloccano?

Io sento sempre di meno la parola “walsch”, sta scomparendo. Vuol dire che c'è un riconoscimento nei confronti dell'italiano, non più visto come qualcosa che non appartiene.

Non è più visto come una reale minaccia, forse, dato che l'Autonomia ha messo sicurezza alla minoranza di lingua tedesca.

C'è un trauma psicologico enorme e il lavoro da fare è psicologico, oserei dire psicoterapeutico. L'unico modo per lavorare sulle resistenze è riuscire a integrare nuovi italiani. Ma ho il sogno nascosto che saranno gli immigrati a guidarci, perché hanno una situazione di estraniazione e alienazione ancora più grande, essendo la parte più svantaggiata di questo costrutto etnico: chi non è italiano, tedesco o ladino è fregato. Con la migrazione, se di livello come quella balcanica e dell'est, si possono costruire best practicesper andare verso il nuovo Sudtirolo.

Saranno gli immigrati a guidarci, perché hanno una situazione di estraniazione e alienazione ancora più grande, essendo la parte più svantaggiata di questo costrutto etnico.

Quale ruolo avrebbero i sudtirolesi “autoctoni” in questo sogno nel cassetto?

Penso a chi va a studiare fuori e poi torna. una grande questione: cosa facciamo con tutti gli expat? Troviamo modo di offrire loro una piattaforma, per tornare e organizzare qualcosa di diverso, che li faccia sentire come se fossero ancora a Monaco, a Berlino, con un modo critico di fare movimento, affinché queste persone torna senza perdersi nell'esistente già organizzato.

Le giovani generazioni riusciranno a vedere un Sudtirolo abitato da Gesamtsüdtiroler, oppure sono condannate a restare divise per sempre? Riusciremo mai a parlare d'altro?

Io vedo che stiamo andando contemporaneamente in due direzioni: c'è chi si sta pluralizzando superando le divisioni – e non c'entra l'appartenenza politica – mentre altri nell'altra direzione. Per tornare in termini più sociologici, esiste sempre un conflitto. C'è il contadino che cambia la legge urbanistica per costruire l'albergo nel fienile, ma c'è pure il giovane che fatica a trovare un pezzo di terra o coltiva biodinamico senza l'uso di pesticidi. È un conflitto tra interessi di vario tipo, con la mercificazione dell'immaginario, la tradizione venduta al turista. Non viene vissuto, bensì viene performato e venduto. L'obiettivo mio personale non è quello di costruire e assolutizzare la nostra posizione, ma di farci arricchire: creare delle isole, un arcipelago, dove certi valori, pratiche, meccanismi, di felicità, di amore, di incontro siano realtà. Un valore aggiunto a una società interconnessa, che accorcia le distanze. È giusto che qualcosa arrivi da fuori, però c'è bisogno di qualcuno che resti qui affinché le isole diventino imprescindibili per il futuro di questa terra.